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Autore: Hyarviel    18/01/2006    2 recensioni
Inizia con il racconto di un Sogno, poi proseguo a sognare a puntate, e riporto i miei sogni su carta, giusto per fare più chiarezza. Ho cercato di ricreare l'atmosfera onirica, spero d'esserci riuscita.
Genere: Malinconico, Sovrannaturale, Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: Yuri
Note: Raccolta | Avvertimenti: nessuno
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zero zero zero zero zero, zero zero

Oro Rapace

ma sempre annoiato
Con i piedi e le dita ingioiellate immersi nella sabbia caldafredda bagnata, sulla Riva della spiaggia, alla foce del sole, intinto nell’acqua, dell’orizzonte sommerso.
Ricorda forse un’atmosfera da depliant delle vacanze, quelle spiagge che tutti sognano e pochi comprano, in quella parte agli antipodi del desiderio, dove il vento regna sovrano.
Ricorda belle portoricane mezze svestite che servono cocktail con corone di fiori, ventagli di palme e vecchi ricconi adorati da fémmine giovani.
Ricorda tante cose ma poche rimangono, ricorda un’isola ormai disabitata, che ospita pochi popolani, un pescatore-viandante delle acque tiepide, tante palme, i ragni e le storie intrecciate degli alberi.
E invece no, non è proprio un’isola sperduta in mezzo all’oceano.
Assomiglia più ad una scuola, il luogo dove le parole ci (mi) trascinano.
Ci sono i muri pitturati di azzurro, di un azzurro che quando brilla il sole sembra verdino chiaro o quel colore che la gente chiama “verde acqua”, anche se io l’acqua di quel colore avrei schifo a vederla.
Ci sono dei cartelli appiccicati con lo scotch, di solito cartelli del genere proibiscono.
Poco sotto si possono scorgere una fila di ragazzi che nessuno avrebbe mai voglia di contare, sono uno sì e uno no, nel senso che uno è vestito normale mentre quello appena accanto indossa una tuta pseudobianca di materiale catarinfrangente, sembrano tanto cartoni del latte impilati, e una maschera nera che li fa sembrare delle mosche.
Alla sinistra sta una ragazza, con questa tuta bianca (quella sopradescrìtta), un cartellino che cita in maiuscolo “supermarket #749”, ha un’aria tra l’impaurito ed il divertito, si immagina a quale tra i centinaia o decine di ragazzi sia stata assegnata.
Si odono i suoi pensieri profumare l’aria e lei si chiede, dall’alto dei suoi capelli neri
- ma sarà simpatica? -
In quell’istante preciso la protagonista della storia fa la sua entrata in scena.
Calata da una finestra o da una botola - dal soffitto si spiaccica pochi metri più in là.
In mezzo al corridoio, dove nessuno guarda.
Modula un mezzosorriso – che poi sarei io, la protagonista – e con una naturalezza imbevibile si presenta “a me, sei stata assegnata. a mé”

Oramai posso anche parlare al singolare.
O in prima persona, come faceva Cesare.
Ma scordatevi l’intento autoapologetico, vi sto raccontando una dannatissima storia, non vi sto facendo il lavaggio del cervello.
Perfavore scollegate tutte quelle sinapsi che potrebbero portarvi a riflettere su queste parole.
Per quel che mi riguarda è un unico frullato estivo di sensazioni
forse scritto per regalo, forse solo per ricordo di un sogno.
La mia storia è qua.
Il piatto è (cosparso) di nitrato d’argento, però.

Un respiro sveglio, per la madre di tutte le sensazioni: la paura.
E’ la paura che mi spinge a svegliarmi, stamattina, ad indossare calze a rete con un piccolo buco (ma che tanto non noterà nessuno) e lavarmi i denti con foga, come se avessi mille carie da spazzare.
La stessa paura che sfrangia le frange della mia gonna o che mi impedisce di trovare un fottuto reggiseno pulito.
Perché i reggiseni puliti cazzo devono sempre stare in fondo al cassetto?
Ci sarà un cazzo di motivo per cui ci finiscono.
Cazzo cazzo cazzo.
Ok quello di ieri andrà benissimo.
E non è che il tuo sguardo divertito mi aiuterà nella ricerca.
Ti sta bene quella tuta, Lena, dici che te ne regaleranno un’altra prima che questa diventi troppo sporca per poterla guardare’
- sì secondo me sì -
Lo spero, Lena.

Scendo le scale con tranquillità, ma con il passo più felpato che riesco ad ottenere, mi fermo a metà della scala, si vede la stanza di sotto, immersa nell’ombra, due creature che dormono e pulsano nel buio.
Non voglio svegliarli, non ci volevo neanche scendere, giù in sala, non ci volevo scendere, hanno bisogno della loro intimità – i due.
Vabbé è mattina ma sono grandi hanno il diritto di fare quello che vogliono e poi, Lena, ormai lo sai che sono folle-mente gelosa di entrambi. C’è un gran poco da fare.
Eppure tu no “dai vagli a portare il fumetto, mi avevi promesso che glielo davi stamattina, che scendevi e poi c’è lezione dopo, non ce la puoi fare nella pausa quindi sù, vai adesso”.
Sì in effetti stanotte quando l’ho trovato sono stata decisamente felice.
In compenso devo fare qualche passo falso perché sento Aaròn mugugnare qualcosa ed Eire rivoltarsi nel cuscino.
La sua voce squillante mi avvolge in un abbraccio tutto brillante e lustrini.
- certo che potevi anche lasciarci dormire – è una frase strascicata, con un fondo di roco ma costruita con quell’acredine pesata al milligrammo
che è sempre un piacere lasciarsi incendiare la pelle in quel modo.
La mia gola è di fuoco e vorrei morire, come tutte le volte; poso il volumetto accanto al cuscino.
Le mando un bacio mentale:
- buon sonno Eire – dico da fuori me stessa
- buona mattinata – risponde Aaròn, non udendo l’ultima parte della frase
- sempre che io riesca a prendere sonno, intendi –
ma io lascio cadere la frase. non vale la pena di sputare fiamme per così poco.

Lena mi accompagna a lezione tutti i giorni, al bivio prende a sinistra con un’aria avvilita, sbircia il mio corridoio con sguardo iridescente favoloso, riprende la sua strada e scompare tra le barre magnetizzate.

Il mio quaderno di appunti ha una copertina opaca e con delle righe colorate ma praticamente uniformi, è bello perché è tutto scritto in modo ordinato, con tanti colori diversi, con riquadri a matita e dei disegnini stupidi qua e là. Mi sento una studentessa qualsiasi in una classe qualsiasi.
E adoro sensazioni come queste.
Quel che mi rende diversa dai giorni di tutti è quello che io sento dentro.
La gelosia e l’invidia, la gentilezza e l’ostentazione dello sdegno.
E tutte queste mischiate insieme in un impasto mortale e velenoso, che io ingerisco e vomito ogni giorno in eguale dose.

Aaròn ha un ghigno brutale e degli occhiali che lo rendono figo.
Quando si mette quella maglietta nera poi, sembra di una dolcezza quasi artistica e mi viene voglia di abbracciarlo, di saltargli al collo e baciarlo, solo sulla guancia. Anche se so che non posso.
Aaròn è qui che mi guarda con la benevolenza di chi crede di aver già capito tutto. Mi capitano solo due occhi da cane bastonato, un mezzo intreccio di dita e null’altro da aggiungere.
- posso capire, sai? quello che stai provando, non importa, figurati, stai tranquilla –
no che non lo puoi capire
ma preferisco lasciarti credere che sia così. tutto qua.
E’ questo il motivo per cui non rispondo, il motivo per cui me ne sto zitta e seduta con le gambe accavallate, con in mano uno scatolino di thé e ti guardo di sbieco, in estremo imbarazzo, fisso le caviglie lunghe e magre, le ballerine un po’ estive e colorate. Sogno.
Aaròn in realtà so che non capisce, so che tuttavia è più grande e ne ha il diritto.

Io sono nata in una famiglia borghese, i miei genitori mi hanno mandata qui, dove i ragazzi vengono istruiti, anni lontano da casa per affinare il mio profilo intellettuale e far spiccare finalmente il genio che c’è in mé. solo che in me non c’è alcun genio.
Credo che dovrei dirglielo, la prossima volta che telefonano.
Mia zia Marie ogni tanto telefona anche lei. Mi chiede come sto, come vanno gli studi, se mi trovo bene con i miei compagni e se si mangia bene, a pranzo.
A non piace mangiare, a me piace andare in giardino, dove ci sono gli alberi non curati, dove il giardiniere non ha voglia di mettere piede, dove ci sono ancora le foglie secche.
Avete mai notato che nei giardini curati le foglie secche sembrano essere state censurate?
Sembra che nessuno debba vederle, perché sono brutte, antiestetiche e marroncine. Ma allora perché esistono – mi chiedo? Perché venga dato un lavoro ai giardinieri? (quello di raccogliere ammucchiare e buttare le foglie secche).
Mi piace camminare nel bosco con Lena, di tardo pomeriggio, quando lei esce dal laboratorio e può finalmente togliersi quella ridicola tuta ed infilarsi un camice bianco, come quelli che le assomigliano, perché venga distinta da noi normali.
Mi piace che mi tenga la mano perché le sue sono sempre della temperatura giusta, che compensa la mia. Ed è una sensazione bellissima.
Mi piace perché parliamo del colore del cielo, di come si disegnino correttamente le bandiere e del gusto che lascia il cappuccino bollente, sulla lingua; il tutto senza sentirci obbligate a fare niente l’una per l’altra.
Di tanto in tanto incontriamo (incrociamo.. scorgiamo?) la Schiena di Eire premuta forte contro la corteccia di un albero, ed Aaròn contro di lei.
Di solito facciamo finta di niente, però, continuiamo a discutere di castori e marche di succhi di frutta.
Il bosco è uno dei pochi posti riparati, in fin dei conti.
Anche perché se dovessi rifletterici so che brucerebbe ancora di più di quello che giù brucia.
Dunque decido che non me ne importa assolutamente niente.
Ed è così.

Le mie labbra sono secche, è un giorno come gli altri.
Tutti (compresa Eire) continuano a ripetermi che l’unico modo per uccidere il mio Démone sarebbe dargli un bacio. E probabilmente non solo quello. So cosa intende precisamente con quelle parole, sebbene lei mi creda una povera verginella.
Lei dice che il mio bacio gli sarebbe mortale e molti mi fermano per i corridoi ripetendomi per il bene loro e degli altri di farlo. Cominciano a convincermi.
Lena in compenso non si sente molto bene, è parecchio che non viene a passeggiare con me, io continuo a dirle che d’inverno il bosco è più bello, che si possono vedere le lepri nella radura della fontana, che vengono lì a lavarsi il musetto con l’acqua calda. bellissime lepri dalla pelliccia bianca.
E forse più nessun dorso a nudo raschiato contro la corteccia.

Dev’essere il laboratorio che la distrugge, ogni giorno la vedo sdraiata sopra le lenzuola con uno sguardo spento, le servono un latte scuro e compatto, con un odore intenso di cannella. E lei lo beve tutti i giorni, però peggiora.
Non sopporto vederla soffrire.
In compenso ho preso la mia decisione: Il despota deve morire.

Mi avvicino scegliendo due passi fra i migliori, gli porgo un sorriso un po’ imbarazzato. come a lui piace. So che Aaròn non mi approva, in questo istante, ma me ne fotto.
Il Re è in piedi nel mezzo della passerella, circondato da vari foulard colorati, le sue spasimanti l’hanno coperto di doni. Io arrivo a mani nude.
Ho il ricordo di Lena impresso sulla pelle, che si alza dal letto, si svacca su una sedia in camera e ascolta musica, evitando di guardarmi, persa nei suoi problemi. Non posso farci niente.
Il Re ha un sorriso appariscente anche se non è bello, piace.
“scopabile” lo ha definito Eire, “se non ci fosse Aaròn, ovviamente” ha aggiunto.
Lui mi scrive il suo nome su una mano, dice che devo pronunciarlo, vuole sentire il suono della mia voce dire il suo nome, prima di prendersi tutta me.
Vuole sentire la mia voce perché per lui le voci sono sempre velluto e significano molto, quasi più del contatto fisico.
E’ sovrano, regnante e maestà mi porge le sue ginocchia, mi siedo in grembo a tanto eccesso.
- una fra tante – mi dice – sarai solo una fra tante, lo sai? –
ma io ti amo – gli rispondo senza espressione
- no che non mi ami, non è vero –
tu cosa ne sai? di quel che sento io? se ti amo o no?
- io ti posso capire – veramente rassicurante, lo ammetto, ma poco veritiero – io li conosco tutti i miei sudditi e ti posso capire, ascoltami e non farlo –
non voglio sentire ragioni, la mia decisione è che lui deve morire, Lui deve morire, io devo soffocarlo con il mio abbraccio, ucciderlo con le unghie e con i morsi, devo affondare un braccio nel suo petto e strappargli il cuore, una volta per tutte.
Mi prende in braccio con foga e mi guarda un po’ assonnato.
Mi slaccia e mi abbassa i Jeans cercando conferma nel mio sguardo che si posa di lato, ai lati della passerella, la piazza gremita di gente.
Siamo soli, lo sai?
Avvolgo le braccia attorno al suo collo e inspiro un profondo odore di carne cruda, rosso e brillante, mentre i miei muscoli si contraggono (dalla punta delle dita) e sento
che mi penetra con forza, quasi con cattiveria, stringendomi i polsi e appesantendo il fiato.
Male, solo male.
Un dolore denso e primitivo che spande dal mio ventre fin su in gola, dove si mischia alla voglia di vomito ed alle lacrime sull’orlo delle ciglia.
Ero convinta sarebbe andata così, nient’altro da aggiungere.
Mi sento cadere, mentre lui mi lascia i polsi ed io mi accascio sulle mie stesse ginocchia.
Con un piccolo colpo di tosse mi offre una coperta rossa, orlata d’oro, giusto per coprirmi.
Lo vedo vivo e vegeto.

Non so se è stata più la delusione o la rabbia
ma mi sono rivestita in fretta, allacciata in jeans e la cintura e sono scesa dalla passerella con l’aria più naturale che esistesse.
Lo vedevo che si bullava con gli amici e una fila di gente che gli chiedeva probabilmente un autografo o una dedica.
Ho pensato, e l’ho pensato forte, quasi da frangere la barriera dei miei pensieri:
se già era inavvicinabile prima, quando era mio, figuriamoci ora che è pure diventato famoso.
Strascicando i passi, ho trovato lo sguardo di Eire che abbracciando Aaròn mi guardava addolorata e piena di affetto.
Lo sguardo di una madonna – ho pensato
così dovrebbe essere lo sguardo di una madonna
materno, pieno di affetto e di dolore
non sulla pelle, il dolore, ma nello sguardo
- non l’ha ucciso, vero? – mi ha sussurrato lei chinandosi un poco a scostarmi i capelli dall’orecchio.
no – non c’è stato bisogno di rispondere

e le lacrime sono sgorgate dai miei occhi così forte,
senza nemmeno dover toccare le guance.

  
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