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Autore: crazyfred    15/03/2011    15 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
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When you crash in the clouds - capitolo 5

















Capitolo 5

Only Time


soundtrack

Mi lasciai alle spalle quell’appartamento e presi la strada di casa. Entrai nei sotterranei di New York distrattamente, fin quando non misi piede dentro i vagoni della metro. Non c’era tanta gente a quell’ora e trovai posto a sedere senza essere costretto a cederlo a nessun anziano o donna gravida della situazione.
Mi guardai un po’ intorno e per la prima volta prestai attenzione a tutti i passeggeri. Mi chiesi chi fossero, quale fosse la loro occupazione e come fosse la loro vita. Senza quella notte fuori dall’ordinario probabilmente non avrei mai fatto quel viaggio, né mi sarei posto tante domande sulle persone che mi circondavano, cercando ed osservando ogni minimo dettaglio. La realtà è che sotto il cielo, sotto i grandi grattacieli della Grande Mela siamo tutti uguali, al di là delle nostre vite e dei nostri conti in banca. In fondo, pensai, se non avessi l’avessi incontrata in quel bar, chi me l’avrebbe detto che Allison era una stripper?
Mi sentivo di merda. Avevo ricevuto una grande batosta, peggiore delle delusioni d’amore, quasi peggiore del lutto. Avevo ricominciato a lottare per aiutarla, per dimostrare a me stesso che valevo ancora qualcosa, ed invece avevo fallito miseramente, arrendendomi alla prima difficoltà. Per un momento avevo persino preso in considerazione l’ipotesi di ritornare sui miei passi, ancora, ma poi compresi che avrei fatto meglio a rassegnarmi; lei non voleva il mio aiuto, questo era quanto, ed io non avrei dovuto più interferire con lei, visto che evidentemente avevo già osato abbastanza.
Aiutato dalla musica che passavano alla radio nella metro, finii con il deprimermi ancora di più, tornando ad essere il Tyler che tutti conoscevano e che non avrebbe fatto male ad una mosca, innocuo perché perfettamente passivo.

Tornando a casa mi aspettavo di trovare Aidan con la mazza da baseball tra le mani, pronto a scatenarmi addosso l’ira degli dei ed invece, a quanto pareva, il fatto che fossi, secondo lui, andato a letto con Mallory, mi perdonava ogni cretinata. Mallory … dovevo abituarmi a chiamarla così, perché per me doveva essere solo una troietta, conosciuta in un locale di spogliarelliste, convertite all’occorrenza in meretrici dei bassifondi da un datore di lavoro/aguzzino.
“Allora Don Giovanni?” mi si buttò addosso alle spalle “Hai consumato fino all’ultimo centesimo per quella sventola?! Di’ la verità … appena ha visto il tuo pacco … ti ha proposto il pacchetto convenienza …” non risposi alle sue battute che per la prima volta dall’inizio della nostra amicizia mi sembravano squallide; avevo sempre considerato il suo umorismo piuttosto demenziale e a volte scontato, ma non mi aveva mai irritato come in quel momento. Non dovevo però prendermela con lui, ero io ad avercela con il resto del mondo, di nuovo, come una volta.

Come una volta … sembrava passata un’eternità invece erano passate solo 24 ore dall’ultima volta che mi ero sentito in quel modo.
Per il resto della giornata non avevo programmi, né avevo intenzione di uscire con Aidan e i suoi amici in serata; con la fortuna che mi ritrovavo sarebbero tornati di nuovo a fare danno in qualche locale a luci rosse. Me ne sarei rimasto a casa, o magari sarei andato da mia madre e mia sorella, la cui compagnia sopportavo più di quella dei ragazzi della mia età.
Entrai in doccia avendo ancora nelle orecchie la voce di Aidan che cianciava a macchinetta contro le mie orecchie; avrebbe dovuto fare il conduttore di televendite  o darsi alla radio o, perché no, l’avvocato: tanto la dote di raccontare balle a profusione ce l’aveva innata.
Mi rifugiai sotto il gettito d’acqua calda e, tra i fumi del vapore, cercai di lavare via ogni traccia della serata precedente: il fritto del cinese sotto casa, l’alcol e il fumo. Ma c’era un’ essenza che non andava via, nonostante i litri d’acqua e di bagnoschiuma, a dispetto della spugna passata su e giù per la schiena ed il petto; era come annidato nei condotti nasali e giù, fino ai polmoni. Era insolente quel profumo, come lei, sapeva di nobiltà, ma anche di miseria: dolce, intenso e brutale.

Ancora con l’asciugamano avvolto alla vita mi lasciai cadere a peso morto sul mio letto, trovando una superficie comoda, rispetto a quella tavola per le torture su cui avevo dormito la notte precedente. Era una sensazione libidinosa starsene lì, con il rilassamento provocato dalla doccia che si accumula sulle caviglie e come zavorra impedisce anche solo un singolo passo. Il riscaldamento centralizzato del nostro palazzo non mi costringeva nemmeno a vestirmi, tanto ai 25 gradi ci si arrivava tranquillamente, e dunque perché fare tanta fatica inutile. Chiusi gli occhi e cercai al buio le mie sigarette. Ne accesi una e aspirai fino a riempire tutto il volume polmonare. Ero in un limbo di pace assoluta, ma non bastava per essere felici, per quello esisteva già il paradiso.
Non volevo finire in analisi, in tanti avevano provato a farmi vedere da psicologi e strizzacervelli vari nell’ultimo anno, ma fortunatamente non c’erano riusciti; forse questa volta ci sarei andato di mia spontanea volontà. Mi sentivo come intrappolato nel vuoto più assoluto, in balia del vago e del nulla, dell’oblio e del disinteresse. Chissà se anche Michael si sentiva così prima di presentarsi da recluta volontaria di fronte alla morte.
Ma io no, non l’avrei mai fatto; per paura, ma soprattutto per egoismo. Mallory aveva ragione: sarei rimasto comunque il figlio di un milionario, che faceva un viaggetto nei bassifondi solo per farsi bello con gli amici. Facile fare il proletario con i soldi, ripeteva sempre il prof di filosofia a lezione. Ma allo scadere della mia mezzanotte, il bel romanzo avrebbe scritto la parola fine ed io sarei stato introdotto nei salotti bene, a discutere di politica e finanza finché fossero durati rhum e sigari.

Mentre tentavo di lasciarmi trasportare dal sonno sentii il letto sobbalzare ed è solo per le mie forze inesistenti che Aidan non si ritrovò all’ospedale.
“Allora?” mi chiese. “Cosa?” chiesi di rimando. “Che hai combinato stavolta? … e non rispondere niente perché ti conosco Tyler, quest’aria alla Jim Morrison-barra-James Dean ce l’hai solo quando combini qualche cazzata sentimentale delle tue. L’ultima volta è stato per Monica, la ragazza di scienze politiche: ci sei andato a letto una volta ed era già la donna della tua vita. E come è finita? La sera dopo sei andato a casa sua per uscire e l’hai trovata a cena con genitori e fidanzatino venuti direttamente dal Connecticut. Chi è stavolta?”
“Che te lo dico a fare?” risposi, ancora ad occhi chiusi, con la speranza che andasse via “tanto è una storia già chiusa”. Mi sembrava inutile continuare a rigirare il coltello nella piaga, quando mi sembrava più che evidente quale dovesse essere il mio posto.
Percepii il letto scuotersi sotto i movimenti repentini e maldestri del mio compagno e, così, pensai: addio sogni! Aprii gli occhi e lo vidi che, in ginocchio sul letto mi fissava, con quella sua faccia da caricatura: “Ti prego … non me lo dire: è per quella sciacquetta di ieri sera. Ma come devo fare con te?”
“Non è come credi” mi affrettai a discolparmi. “Ah no? E com’è sentiamo?” “Non è amore” no, su quel fronte potevo stare tranquillo. Le sarei saltato volentieri addosso almeno in un paio di occasioni, quello sì, ma erano più impulsi ormonali che vicende sentimentali. “È che è immersa in un mare di merda” spiegai nella maniera più semplice possibile “e vorrei aiutarla”.

“Tyler, Tyler, Tyler, Tyler …” cantilenò, segno che stava per partire una di quelle paternali del tipo amico fidati di me che ho una certa esperienza, quando la sua storia più lunga è durata una settimana ed eravamo al liceo e il suo gesto più caritatevole è stato portare la spesa della nonna su per le scale previo pagamento.
“Possibile che debba ripetertelo ogni volta …” ogni volta? In quali altre occasioni ho tentato di far uscire una ragazza da un giro di prostituzione? “… fare il buon samaritano non porta mai a niente di buono. Non puoi metterti a fare il paladino della giustizia solo perché per una volta te l’hanno sbattuta in faccia e poi ti hanno chiesto il conto. Io non ci vengo in galera con te perché il principino ha bisogno di provare emozioni forti!” Non l’avevo mai visto così alterato; il suo volto era spiritato ed era, sì, per la prima volta da quando lo conoscevo Aidan era veramente incazzato. Certamente, però, non aveva ben chiara la situazione.

“Ma che cazzo … ma che cazzo stai dicendo Aidan?” urlai, alzandomi finalmente dal letto. Avevo appena smesso di fumare ma avevo un disperato bisogno di nicotina, i miei nervi imploravano pietà. “Tu davvero credi che io ci sia andato a letto?” “Ah no?” domandò, quasi sbalordito che io potessi aver davvero solo dormito con la ragazza del club. “No” sentenziai, freddo e severo “non ho alcuna intenzione di finire dentro per pedofilia, visto che probabilmente era anche minorenne … e comunque è davvero in un brutto giro, e voglio aiutarla”.
“Tyler” mi riprese lui, sommessamente, rendendosi conto di aver esagerato poco prima e pentendosi di avermi creduto capace di certe bassezze “vacci piano. L’ho capito, sai, perché vuoi aiutarla; non pensare che non ti conosca. Ma non cacciarti nei guai amico, perché mi conosco e so che alla fine finirei col ficcarci il naso anch’io … perché a quella tua lurida pellaccia ci tengo più di te”
Lo presi e lo abbracciai di slancio. A suo modo mi aveva fatto la più straordinaria dichiarazione d’amicizia che ci si potesse aspettare soprattutto da un tipo come lui. Ma purtroppo anche se avessi voluto non avrei potuto fare nessuna pazzia non avevo né mezzi né forze per combattere da solo quella battaglia. Lei non si voleva aiutare io non avrei potuto farlo anche per lei. Goffamente cercò di divincolarsi e si allontanò da me, scuotendo un po’ la testa.

Eravamo due pazzi, ma proprio non ce la facevamo a stare lontani l’uno dall’altro. “Stai tranquillo” gridai, mentre infilava le cuffiette e si spaparanzava sul divano “No ti farò finire in galera!” “Mi augurò che queste non siano le cosiddette ultime parole famose …”. Ridemmo entrambi, liberandoci della tensione che si era scatenata con la nostra discussione: non eravamo abituati a urlarci reciprocamente le cose in faccia, e quando accadeva faceva sempre male.
Mi stesi di nuovo sul letto e spensi la sigaretta che avevo acceso, non ne avevo più bisogno.

 

Quando le chiesi se c’era da mangiare a sufficienza per un’altra persona quella sera, mia madre fece davvero fatica a nascondere il suo entusiasmo per quel figlio che, di sabato, decide di passare la serata in famiglia piuttosto che con gli amici.
Ma lei sapeva che i suoi figli si erano sempre distinti dal resto della marmaglia di ragazzi, forse proprio perché erano i suoi figli. Da piccoli non ci portava mai al mare, o in piscina, quando il caldo rendeva le strade di New York impraticabili, bensì nei musei, dove l’aria è mitigata per la miglior conservazione delle opere. E così le nostre ninna nanne non era filastrocche, ma sinfonie e sonate al pianoforte.
Difficile stupirsi dunque se due dei suoi tre figli fossero venuti fuori geni; prevalentemente incompresi, ma pur sempre geni. Ma a me, il figlio cadetto e per giunta arenato nella mediocrità delle sue attitudini, aveva sempre riservato un trattamento identico, se non più adulto. Parlavamo tanto, io e lei, sin da quando, ancora adolescente, avevo timore del mio futuro e lei tentava di spiegarmelo introducendomi alla filosofia. Lei diceva che avevo un talento straordinario, la capacità rara di conoscere le persone e capirle, e la maturità calibrata per indirizzarle e consigliarle nei loro percorsi.
Mi aveva chiesto aiuto quando la piccola Caroline aveva iniziato ad essere esclusa a scuola dalle compagne, ed insieme combattevamo quella battaglia da almeno 5 anni; mi aveva chiesto sostegno quando disperatamente voleva salvare un matrimonio a cui davvero teneva, ma in cui era rimasta da sola. Eppure non lo avevamo capito Michael, con lui avevamo solo assistito alla sua disfatta silenziosa ed improvvisa. Ma lei continuava a credere in me, e non avevamo mai smesso di parlare, anche quando il dolore portava via la voce e le parole.
Per quel motivo non avevo timore nel parlare del “Don Hill”, il locale dove avevo conosciuto Mallory. D’altronde, non si avrebbe dovuto stupirsi nel sapere che tipo di vita conduceva suo figlio, visto che ormai abitavo da solo e non certo in un monastero. Quando mi ritrovai a pensare che mia madre era un’assistente sociale rimuginai sulla fortuna sfacciata che avevo avuto, e che per una volta il destino aveva deciso di essere benevolo nei miei confronti.

“Che ti serve Tyler?” mi chiese divertito Les, il nuovo marito di mia madre. Era un brav’uomo Leslie, di questo dovevo dargliene atto, ma non ero sicuro al cento per cento che mia madre ricambiasse il suo affetto. Quello che avevo avuto modo di vedere nei quattro anni precedenti era il suo grande amore per lei, la cura, la dedizione ed il supporto che non mancava mai di dimostrarle; e forse era proprio quello il motivo che l’aveva spinta ad accettarlo nella sua vita. Inoltre, era un’ottima figura paterna per Caroline, il che non guastava.
Mio padre era stato capace di sacrificare e distruggere, con le sue stesse mani, la famiglia che aveva creato. Fino alla nascita di mia sorella eravamo stati una famiglia piuttosto idilliaca, con qualche litigio ogni tanto; ma si sa, le discussioni non possono fare che bene. Ma poi, pian piano, il nostro bel castello di sabbia ha iniziato a sgretolarsi e mio padre, probabilmente pensando di aver ottemperato ad ogni suo dovere coniugale e genitoriale, ha iniziato a metterci da parte, in favore del mero profitto finanziario. E così mia madre decise di non essere più la signora Hawkins anche perché, ad esserlo o meno, non faceva più tanta differenza: in ogni caso non avrebbe avuto un uomo al suo fianco.

“Perché?” domandai, rimanendo interdetto alla sua domanda.
“Da che ti conosco” rispose “non ti ho mai visto muovere un muscolo per fare nulla in casa, figuriamoci sparecchiare con tua madre …”. Effettivamente non aveva tutti i torti, non ero mai stato avvezzo a fare nulla in casa, ma non ero esattamente un impedito.
“Non essere così severo, tesoro” lo rimproverò giocosa mia madre “adesso vive da solo, ha dovuto imparare ad arrangiarsi. Bravo il mio ometto!!!”. Per lei ero sempre il suo ometto, quello che finiva sempre vittima degli scherzi idioti del suo fratello maggiore, quello a cui si sentiva ancora autorizzata, nonostante i 22 anni suonati, a scompigliare ancora i capelli. Cercai come sempre di divincolarmi dalle sue coccole, ma non vi riuscii. Feci una smorfia compiaciuta a Les, mentre lui andava a godersi un film davanti allo schermo piatto del salone, e tornai ad aiutarla. Caroline, appena finito di mangiare, era scappata a disegnare in camera sua al piano superiore.

“Come va con la scuola?” domandai a mia madre. Non avevo bisogno di specificare, sapeva benissimo che mi riferivo alle stupide compagne di classe della mia sorellina. Purtroppo alla piccola Caroline capitava di estraniarsi di tanto in tanto, sia a casa che a scuola, fin da piccolissima; avevamo provato a farla seguire da psicologi vari, ma tutti ci avevano rassicurato che non fossero eventi correlati a traumi o problematiche varie ed andavano assecondate, fino a quando col tempo non fossero scomparse. Finché rimaneva in  casa il suo “problema”, che non consideravamo tale, non si manifestava praticamente mai, tranne che in poche occasioni, tutte mentre era davanti alle sue tele; a scuola però, nonostante la direttrice avesse più volte rassicurato mia madre sul comportamento ineccepibile delle bambine e sull’atteggiamento altamente professionale del corpo insegnanti, i suoi “momenti”, come li chiamava lei, erano quasi all’ordine del giorno, amplificati dalle prese in giro delle pseudo – amichette e dai rimproveri delle maestre. Ed ogni volta, tutte le nostre rimostranze diventavano buchi nell’acqua.
“Ma che te lo dico a fare, Tyler …” rispose mia madre, esasperata. “Lei ormai non ne parla più, ma praticamente le insegnanti lamentano che in classe è sempre più sola ed anche i lavori scolastici ne risentono. Sono preoccupate che …” “Loro sono preoccupate?” inveii “Ma che ca…”
“Tyler!” mi riprese “questo è l’ultimo anno, poi andrà alle medie e l’aria nuova le farà bene. Almeno spero. Si tratta solo di resistere ancora per qualche mese …”
Annuii, ma non mi andava giù che il mio scriccioletto dovesse penare per delle stupide ragazzine con la puzza sotto il naso. Lei era speciale, aveva un talento che le altre si sognavano, ma era ingiusto che per averlo dovesse pagare un prezzo tanto alto.
“Sono contenta che sei qui, la tua presenza l’ha messa di buon’umore. Erano settimane che non scappava da tavola per andare a disegnare. Dovresti venire un po’ più spesso!” “Se per te va bene vengo volentieri” le risposi, con un sorriso amaro in bocca “è meglio che la smetto per un po’ di uscire con Aidan e la sua comitiva, non hanno fatto altro che procurarmi guai”.
Mia madre smise per un attimo di insaponare la pila di pentolame vario che non poteva mettere in lavastoviglie, stando ai suoi tentativi di ammaestrarmi sull’economia domestica. Si voltò verso di me, squadrandomi come solo lei sapeva fare, con un sguardo indagatore ma non sospettoso, preoccupato ma fiducioso allo stesso tempo. “C’è qualcosa che non va?” domandò. “No” risposi, rimanendo sul vago “solo … ci sono delle cose che avrei preferito non sapere”.

“Vieni” mi disse “io insapono e tu sciacqui”. Mi sembrava di essere tornato bambino, quando ci prendeva sempre accanto a lei quando voleva sapere qualcosa. Conoscevo le sue tecniche e non cercavo in alcun modo di sottrarmene, anche perché quello che avevo da dirle non era facile ed essere impegnato mi avrebbe aiutato ad aprirmi con lei.
“C’è un locale dove sono andato … dove le ragazze diciamo che hanno diversi … ruoli. E potrebbero non essere tutte attività lecite.” “Prostituzione?” chiese, con la freddezza ed il rigore che assumeva sempre quando si parlava di lavoro. “Sì” risposi e feci un sospirone per continuare “ma la cosa più grave è che probabilmente la maggior parte di loro è clandestina o minorenne …” “E tu …” fu tentata di chiedermi, ma aveva evidentemente paura di scoprire la verità. “Ed io me ne sono andato, mamma. Mi ha fatto davvero schifo quel locale, e spero vivamente che i miei compagni non ci mettano più piede”; sembrava davvero rincuorata dalla mia dichiarazione. Certo non potevo dirle che c’era mancato davvero poco perché finissi a letto con una di quelle entraineuse, ma quella che le dissi era comunque la verità.

La guardai, attentamente, sperando che cogliesse la mia muta richiesta d’aiuto.
“Noi abbiamo le mani legate, Tyler. Finché non ci chiama la polizia non possiamo intervenire. Sempre che per loro non sia più facile mandare quelle poverine in galera o rispedirle nei loro paesi d’origine” spiegò, e capii che purtroppo davvero era impotente su tutta la linea. “Puoi segnalare la cosa alla polizia, ma credo che durante i controlli questi generi di locali siano sempre terribilmente in regola e abbiano qualche santo in paradiso che li avverte se ci sono ispezioni in incognito”.

Avrei dovuto immaginarlo: d’altronde non si possono tenere in piedi certi affari per troppo tempo sperando di farla franca solo per fortuna; evidentemente c’era qualche talpa o cose del genere, pronti ad avvertirli.
“Ma se fossero le ragazze a chiedervi aiuto?” “C’è sempre prima la polizia …”.
Dunque non avevo speranze di poter aiutare Mallory in maniera concreta senza metterla nei guai: prostituzione, furti e chissà quanti altri reati potevano essere scritti sulla sua fedina penale.
Non era il caso di tornare da lei, e se mai avessi avuto le palle per farlo avrei dovuto contare solo sulle mie forze.
“Mi dispiace tesoro” cercò di confortarmi mia madre … come se fossi io quello da aiutare “ma a volte la nostra voglia di giustizia non sempre combacia con la macchina dello Stato. Vedrai che se veramente è un giro tanto losco, prima o poi verrà fuori. Ora però non ci pensare più … vai da tua sorella”.
Rimuginando su tutte le ipotesi, le congetture e le notizie accumulate da mia madre, preparai due belle tazze di gelato al cioccolato, di cui Caroline era ghiotta a tutte le stagioni; sormontai tutto con una spruzzata indecente di panna, solo per il gusto di vederle il musino tutto imbiancato.

“Maestro!” la salutai, come al mio solito; e lei a suo solito rispose con un sorriso meraviglioso. Eccola lì la donna della mia vita, chi me lo faceva fare a trovarmene un’altra? Stavamo così bene insieme!
Era bellissima la sua stanza, si aveva la sensazione di entrare in un museo, con le copie di opere d’arte alle pareti; e poi c’era il suo laboratorio, un piccolo angolo della sua stanza da principessa, pieno dei suoi disegni e dei suoi strumenti, affacciato sul piccolo giardino posteriore.
Poggiai sulla scrivania la sua coppa di gelato e mi allungai sul letto con la mia. “Dai Ty, scendi da lì! La mamma non vuole che sali sul letto con le scarpe …” le tolsi immediatamente, scalciando “… e non vuole nemmeno che si mangi sul letto!” “E noi non glielo facciamo sapere! Dai, vieni qui!” le dissi, facendole segno di accomodarsi al mio fianco.

Passammo il resto della serata a chiacchierare, come se la nostra enorme differenza d’età non fosse un problema, come se fossimo due coetanei. Guardai Caroline disegnare, perdendomi con lei in quel mondo che le sue mani, con una semplice matita, sapevano creare. Non mi sarebbe dispiaciuto avere uno dei suoi “momenti” ogni tanto, la facoltà di poter staccare la spina dal mondo, anche per pochi secondi ed entrare in un universo parallelo, dove le brutture del nostro mondo non hanno nemmeno un nome.
E tornammo di nuovo a parlare, mentre si lavava i denti, mentre le spazzolavo i capelli. Io stesso mi sentivo libero di chiacchierare ogni volta che ero assieme a lei, come se nulla fosse accaduto nelle nostre vite, come se Michael fosse ad un concerto e sarebbe rientrato tardi, come se Mallory fosse una ragazza tra le tante che in realtà faceva solo la preziosa, e non mi accorsi che Caroline, il mio prezioso talento, si era addormentata, abbracciata a me. Così mi sistemai un tantino meglio e ci coprii con la coperta.

“Buonanotte maestro!” le sussurrai.
Quella era la seconda notte consecutiva che non tornavo a dormire a casa, e non potevo che esserne contento.
Quella serata mi aveva permeato di una forte energia positiva, nonostante dentro non mi sentissi perfettamente in forma, nonostante le cicatrici che le amarezze del mondo mi avevano lasciato. Forse col tempo avrei aggiustato tutto: avrei curato me stesso, avrei aiutato quella povera ragazza, avrei persino portato la pace nel mondo. Solo il tempo poteva saperlo, ma per il momento non avevo intenzione di interrogarlo.

 

 












NOTE FINALI
Dopo questo capitolo di transizione ci sarà l'inizio di una nuova vita per Tyler...o semplicemente il ritorno alla vita di tutti i giorni.
Mallory/Allison sembra essere una parentesi di una notte sbandata...destinata a perdersi in quelle a venire.
Ma sarà davvero così? Staremo a vedere...
Vi ringrazio per i commenti sempre più profondi e dettagliati che accompagnano questa storia, anche se ammetto di essere abbastanza dispiaciuta dal vedervi di meno rispetto alle altre volte. Sappiate che, se qualcosa non vi piace, potete dirlo tranquillamente, rispettando naturalmente i canoni del buon comportamento. Ricordo qui anche la mia pagina FB dove vi aspetto con spoiler, aggiornamenti ed altro ancora.

à bientot

Federica
   
 
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