2 - Papa, can you hear me?
Papa are you near me?
Papa, can you hear me?
Papa, can you help me not be frightened?
Finalmente
il suo amato lunedì era giunto.
Per qualsiasi ragazzo il lunedì era sinonimo di
disperazione, la fine della
pacchia e l’inizio di una nuova settimana, ma Jude si sentiva
incredibilmente
sollevato quando arrivava davanti all’edificio
dipinto di giallo che era la sua scuola. Era felice di rivedere ogni
singolo
mattone.
Si diresse all’armadietto, camminando raso muro per evitare
che come solito
alcuni ragazzini lo prendessero a spallate facendolo cadere, e sorrise
quando,
aprendolo, ritrovò la foto di lui appena nato in braccio al
padre.
Sfiorò i contorni bruciacchiati –
l’aveva salvata qualche anno prima dalle
fiamme tra cui sua madre l’aveva gettata perché
etichettata come “ricordo non
voluto”, guadagnandosi in cambio l’enorme livido
ancora visibile all’altezza
dell’inguine – e come ogni mattina diede il
buongiorno all’uomo che gli
sorrideva dall’immagine.
Peter Law era morto quando lui aveva appena compiuto un anno, travolto
da un
auto che sfrecciava a tutta velocità quando una sera era
uscito a comprargli il
latte per la cena.
Inutile dire che sua madre l’aveva sempre incolpato di ogni
cosa.
“Se non fossi stato allergico al mio latte, tuo padre sarebbe
ancora con noi!”
gli gridava ogni volta che le veniva uno dei suoi attacchi violenti,
per poi in
seguito picchiarlo. “E’ tutta colpa tua!”
gli ripeteva, ad ogni colpo. E lui restava
là, inerte, perché sapeva di meritarsi ogni
singola cosa.
Appese
la giacca e la sciarpa e lasciò i libri che
non gli servivano. Sorrise di nuovo alla foto, chiuse
l’armadietto e si diresse
alla prima lezione.
***
Passarono
quasi cinque anni da quel lunedì.
Cinque anni fatti di giorni sempre uguali, cinque anni di lividi,
bruciature,
punizioni di ogni tipo. Dolorose ma necessarie. Dovute.
Si caricò lo zaino in spalla, trattenendo un gemito di
dolore quando si ricordò
della striscia di carne fiammeggiante
che si era procurato il giorno prima, quando sua madre,
ubriaca, l’aveva
preso pesantemente a cinghiate solo perché
esisteva.
Cambiò spalla alla tracolla, sistemandola di modo che non
desse fastidio al
livido appena sotto il collo, afferrò le chiavi di casa ed
uscì, richiudendosi
la porta alle spalle cercando di non fare il minimo rumore. Sua madre
dormiva
ancora, se l’avesse svegliata a quell’ora del
mattino sarebbe stato punito
severamente.
Si incamminò.
Era al terzo anno di liceo, aveva scelto una scuola vicino casa
perché sua
madre si era detta non più disposta a sborsare soldi per
l’abbonamento
dell’autobus, ed ogni mattina lo aspettava una buona ventina
di minuti di
cammino. Il che, calcolata la sua statura e quindi la lunghezza delle
gambe e
la secchezza del fisico, non era questa gran fatica. Era abituato ad
alzarsi
presto o non dormire affatto e tenere un buon passo nelle giornate
d’inverno,
per scacciare il freddo che minacciava di avvolgergli le membra al di
sotto
della leggera giacchetta di pelle ormai lisa dalla frequenza degli
utilizzi e
dei lavaggi.
Quando arrivò nel cortile, i primi raggi del sole
cominciarono a fare capolino
all’orizzonte, cercando di riscaldare l’aria
pungente dell’inverno con scarso
successo.
Si strinse nella casacca ed entrò nell’edificio,
dirigendosi a colpo sicuro in
biblioteca.
L’odore di carta ed il calore del riscaldamento lo accolsero,
festeggiando
quando entrò nella sala. Forse gli unici felici di vederlo,
esclusa la bibliotecaria.
Salutò la signora dietro il bancone con un sorriso ed un
cenno del capo, per
poi dirigersi al solito tavolo, il più lontano possibile
dagli spifferi della
finestra, nascosto alla vista dalla scaffalatura dei gialli.
Mancava poco meno di mezz’ora all’inizio delle
lezioni; ogni mattina arrivava
in anticipo per potersi ritagliare un poco di tempo per se stesso.
Sua madre ultimamente aveva cominciato a disprezzare qualunque libro
non
scolastico capitasse in casa, costringendolo a nascondere le sue
letture
nell’armadietto a scuola. Tutti i giorni arrivava prima di
tutti gli altri e si
rifugiava in biblioteca con il libro di turno.
In poco tempo si era fatto amico l’anziana bibliotecaria, che
gli permetteva di
rimanere chiuso in quel posto anche oltre l’orario di
chiusura. Non gli aveva
mai chiesto il perché e Jude l’apprezzava anche
per questo, ringraziandola
mentalmente ogni singola volta che leggeva nei suoi occhi domande
scomode che tuttavia
sapeva non gli avrebbe posto.
Si sedette, cercando di non far strisciare la sedia sul pavimento
– sua madre
odiava enormemente quando capitava -, ed aprì il volume,
immergendosi nella
lettura.
Il suono della prima campanella lo riscosse, il vociare degli studenti
cominciò
a farsi sentire in corridoio. Uscì, diretto agli spogliatoi
accanto alla
palestra. Prima ora di educazione fisica, avrebbe fatto prima a
spararsi.
Solo quando giunse là si rese conto di non aver indossato la
solita maglietta
da ginnastica, sotto quella normale. Quando aveva educazione fisica di
solito
si premurava di vestirsi a casa per evitare che gli altri ragazzi
notassero i
segni della sua disobbedienza, ma quella mattina, sicuramente troppo
preso
dall’essere silenzioso per non svegliare sua madre, non si
era accorto di non aver
indossato la t-shirt.
Aprì l’armadietto. Fortunatamente ne aveva sempre
una di ricambio in caso di
emergenze. Il passato lo aveva reso previdente; pronto ad ogni
evenienza.
Come quella volta
che lo avevano pestato
nei bagni e la maglia gli si era intrisa di sangue, costringendolo a
cambiarla
prima della lezione per non dover dare spiegazioni scomode.
Abbandonò lo zaino sulla panca e si assicurò che
in giro non ci fosse nessuno,
dopodiché si tolse velocemente il maglione e
sospirò sollevato quando indossò
l’altra maglietta, coprendo di nuovo il corpo martoriato.
Non si era accorto che un ragazzo era entrato nello spogliatoio proprio
mentre
si cambiava e, purtroppo per lui, ci vedeva fin troppo bene.
---
Doveva
parlare con la coach.
Dopo la storta al piede che gli era costato quasi due settimane di
allenamenti giusto
poco prima del saggio di metà corso, la sua insegnante di
ballo gli aveva
preparato un esonero dalle lezioni di ginnastica fino alla fine della
scuola.
Quell’anno avrebbero fatto Romeo e Giulietta, non poteva
assolutamente
permettere che il suo protagonista finisse k.o. per una rognosissima
lezione di
educazione fisica.
“Bale!” fermò un ragazzo, afferrandolo
per la manica della felpa.
Blu e giallo. I colori della squadra di football del liceo.
L’altro si divincolò come scottato.
“Non mi toccare, Downey.”
Robert alzò le mani.
“Come desideri.”
“Cosa vuoi?” lo squadrò, assottigliando
gli occhi e muovendo qualche passo
lontano da lui, guardandosi attorno furtivo. Dovette giudicare il
corridoio
sgombro da pericoli, perché tornò a rivolgere
tutte le sue attenzioni al
ragazzo.
Nessuno doveva vederlo parlare con quella checca di Downey; quello che
come
sport praticava il balletto. Girava
voce che le docce comuni nello spogliatoio maschile gli piacessero
parecchio.
Era come un meno venti sulla scala della popolarità.
“Solo chiederti se la coach è in
palestra.”
“Non ne ho idea. L’ultima volta che l’ho
vista era negli spogliatoi.”
“Grazie.” Con un cenno del capo sparì
dietro l’angolo.
Decise di passare prima dagli spogliatoi, per sicurezza. Bale era un
cazzone in
gruppo, ma se preso singolarmente riusciva quasi a salvarsi. Quasi.
Spalancò la porta dello spogliatoio, riuscendo a bloccarla
con un piede giusto
un paio di secondi prima che andasse a schiantarsi contro al muro e
impedendo
alla sua presenza di palesarsi.
Fece il giro di tutto lo spogliatoio prima di rendersi conto che
l’unica
persona presente era un ragazzo mingherlino, talmente sottile che
sembrava
potesse volare via con un soffio di vento, con capelli biondicci, di
quel
colore indefinito tendente al castano che, per quanto tu ci possa
riflettere
tutta la vita, quando giungi ad una conclusione finisci inevitabilmente
per
ritrattare tutto.
Solo in un secondo momento, osservandolo meglio per cercare di
identificarlo
tra le migliaia di studenti che affollavano i corridoi, notò
i segni che gli
ricopriva tutta la porzione di pelle che riusciva a vedere.
Inclinò la testa, cercando di trovare un motivo a quei
segni, come a voler
ricostruire un reticolato tra quelle ferite che gli svelasse il nome di
chi le
aveva generate. Perché se c’era una cosa certa,
era che non fossero ferite
casuali.
Vide il ragazzo afferrare una maglia ed infilarsela velocemente, fece
giusto in
tempo a stamparsi l’immagine nel cervello, cosa per nulla
difficile per una
memoria paurosa come la sua.
Quando l’altro si voltò, certo di aver registrato
uno spostamento d’aria alle
sue spalle, non vide nulla se non la porta che si apriva mentre i suoi
compagni
entravano, accompagnati dalla campanella.
***
“Signor
preside, la prego, mi ascolti! So quello che
ho visto!”
L’uomo di fronte a lui congiunse le mani sotto al mento,
fissandolo da sopra
gli occhiali.
“La causa di quei segni può essere stata qualunque
cosa. Una caduta, una
perdita di equilibrio, una rissa. Qualunque cosa.”
“Ne aveva la schiena coperta.
Qualche
segno si estendeva perfino al torace. Una caduta non può
combinare cose del
genere. Nemmeno se tutti gli eventi da lei nominati accadessero insieme
potrebbe venirsi a creare una cosa del genere, mi creda.”
L’uomo continuò a guardarlo.
“Sono più che certo che qualcuno a casa sua lo
maltratti. Mi sono informato, si
chiama Jude Law, il padre è morto e non ha sorelle
né fratelli, vive solo con
la madre. Sono più che sicuro che sia lei la colpevole. O
quantomeno un di lei
fidanzato. Non ci sono tracce di un nuovo matrimonio.”
Il preside alzò gli occhiali, pizzicandosi la base del naso.
“Non hai prove per dimostrare una cosa del genere, ragazzo.
E’ una cosa molto
grave, quella che dici.”
Robert si proiettò in avanti, deciso a non mollare.
Ne aveva visti, di casi simili, suo padre era psicologo. Doveva
intervenire
prima che fosse troppo tardi. Prima che il ragazzo si convincesse di
meritarsi
sul serio quei marchi.
“Erano segni di cinghiate, e qua e là
c’erano anche bruciature di ogni tipo e
lividi grandi come piattini da tè. Di certo non se li
è fatti da solo, non crede?”
L’uomo dietro la scrivani si tolse gli occhiali, poggiandoli
sul legno chiaro.
“Mi servono prove, Downey, non posso andare in giro ad
accusare genitori di
violenze perpetrate ai danni dei figli così, senza una buona
motivazione e
qualcosa di decisivo tra le mani.”
Robert si sporse ulteriormente, spingendosi sul bordo della sedia e
poggiando
le mani sulla scrivania.
“Se gliele fornirò, mi promette che
farà tutto ciò che è in suo potere per
aiutarlo?”
Il preside sospirò, rassegnato.
“Tutto ciò che posso.”
Robert raccolse la tracolla da terra e se la infilò
velocemente, già con un
piede fuori dalla porta.
“Scoprirò quello che serve.” E se la
sbattè alle spalle, catapultandosi a tutta
velocità in corridoio.
Spazio
autrice:
Spazio per chiarire giusto il titolo, preso dall’omonima
“Papa, can you hear
me?” di Barbra Streisand. O da Glee, a seconda di quale vi
piaccia di più xD
Giusto, dimenticavo, le lineette (---), segnano un cambio di POV, anche
se
credo sia una precisazione inutile, ma tant’è.
Lettore avvisato, mezzo salvato ù_ù xD
- J