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Autore: Gringoire    19/03/2011    9 recensioni
Vide la mamma avvicinarsi, come sempre, tenendo fra le dita una delle sue sigarette alla menta.
Sospirò rassegnato, osservando i cocci di vetro a terra. Non aveva fatto apposta a rompere il vaso, ma lei non lo avrebbe ascoltato, come tutte le altre volte.
Alzò la maglietta, vedendo la donna a pochi passi da lui.
Se la portò sulla testa. Dopo tutti quegli anni aveva capito come nasconderle le lacrime ed evitare così la doppia punizione.
Si morse il labbro quando, dallo specchio, la vide allungare la mano. Portò la maglia a coprirgli completamente il viso. Era pronto. Quella volta sarebbe riuscito a non urlare e forse anche a non piangere.
Genere: Generale, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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2. Papa, can you hear me?

2 - Papa, can you hear me?


Papa are you near me?
Papa, can you hear me?
Papa, can you help me not be frightened?

Finalmente il suo amato lunedì era giunto.
Per qualsiasi ragazzo il lunedì era sinonimo di disperazione, la fine della pacchia e l’inizio di una nuova settimana, ma Jude si sentiva incredibilmente sollevato quando arrivava davanti all’edificio
dipinto di giallo che era la sua scuola. Era felice di rivedere ogni singolo mattone.
Si diresse all’armadietto, camminando raso muro per evitare che come solito alcuni ragazzini lo prendessero a spallate facendolo cadere, e sorrise quando, aprendolo, ritrovò la foto di lui appena nato in braccio al padre.
Sfiorò i contorni bruciacchiati – l’aveva salvata qualche anno prima dalle fiamme tra cui sua madre l’aveva gettata perché etichettata come “ricordo non voluto”, guadagnandosi in cambio l’enorme livido ancora visibile all’altezza dell’inguine – e come ogni mattina diede il buongiorno all’uomo che gli sorrideva dall’immagine.
Peter Law era morto quando lui aveva appena compiuto un anno, travolto da un auto che sfrecciava a tutta velocità quando una sera era uscito a comprargli il latte per la cena.
Inutile dire che sua madre l’aveva sempre incolpato di ogni cosa.
“Se non fossi stato allergico al mio latte, tuo padre sarebbe ancora con noi!” gli gridava ogni volta che le veniva uno dei suoi attacchi violenti, per poi in seguito picchiarlo. “E’ tutta colpa tua!” gli ripeteva, ad ogni colpo. E lui restava là, inerte, perché sapeva di meritarsi ogni singola cosa.

Appese la giacca e la sciarpa e lasciò i libri che non gli servivano. Sorrise di nuovo alla foto, chiuse l’armadietto e si diresse alla prima lezione.

***

Passarono quasi cinque anni da quel lunedì.
Cinque anni fatti di giorni sempre uguali, cinque anni di lividi, bruciature, punizioni di ogni tipo. Dolorose ma necessarie. Dovute.
Si caricò lo zaino in spalla, trattenendo un gemito di dolore quando si ricordò della striscia di carne fiammeggiante  che si era procurato il giorno prima, quando sua madre, ubriaca, l’aveva preso pesantemente a cinghiate solo perché esisteva.
Cambiò spalla alla tracolla, sistemandola di modo che non desse fastidio al livido appena sotto il collo, afferrò le chiavi di casa ed uscì, richiudendosi la porta alle spalle cercando di non fare il minimo rumore. Sua madre dormiva ancora, se l’avesse svegliata a quell’ora del mattino sarebbe stato punito severamente.
Si incamminò.
Era al terzo anno di liceo, aveva scelto una scuola vicino casa perché sua madre si era detta non più disposta a sborsare soldi per l’abbonamento dell’autobus, ed ogni mattina lo aspettava una buona ventina di minuti di cammino. Il che, calcolata la sua statura e quindi la lunghezza delle gambe e la secchezza del fisico, non era questa gran fatica. Era abituato ad alzarsi presto o non dormire affatto e tenere un buon passo nelle giornate d’inverno, per scacciare il freddo che minacciava di avvolgergli le membra al di sotto della leggera giacchetta di pelle ormai lisa dalla frequenza degli utilizzi e dei lavaggi.
Quando arrivò nel cortile, i primi raggi del sole cominciarono a fare capolino all’orizzonte, cercando di riscaldare l’aria pungente dell’inverno con scarso successo.
Si strinse nella casacca ed entrò nell’edificio, dirigendosi a colpo sicuro in biblioteca.
L’odore di carta ed il calore del riscaldamento lo accolsero, festeggiando quando entrò nella sala. Forse gli unici felici di vederlo, esclusa la bibliotecaria. Salutò la signora dietro il bancone con un sorriso ed un cenno del capo, per poi dirigersi al solito tavolo, il più lontano possibile dagli spifferi della finestra, nascosto alla vista dalla scaffalatura dei gialli.
Mancava poco meno di mezz’ora all’inizio delle lezioni; ogni mattina arrivava in anticipo per potersi ritagliare un poco di tempo per se stesso.
Sua madre ultimamente aveva cominciato a disprezzare qualunque libro non scolastico capitasse in casa, costringendolo a nascondere le sue letture nell’armadietto a scuola. Tutti i giorni arrivava prima di tutti gli altri e si rifugiava in biblioteca con il libro di turno.
In poco tempo si era fatto amico l’anziana bibliotecaria, che gli permetteva di rimanere chiuso in quel posto anche oltre l’orario di chiusura. Non gli aveva mai chiesto il perché e Jude l’apprezzava anche per questo, ringraziandola mentalmente ogni singola volta che leggeva nei suoi occhi domande scomode che tuttavia sapeva non gli avrebbe posto.
Si sedette, cercando di non far strisciare la sedia sul pavimento – sua madre odiava enormemente quando capitava -, ed aprì il volume, immergendosi nella lettura.
Il suono della prima campanella lo riscosse, il vociare degli studenti cominciò a farsi sentire in corridoio. Uscì, diretto agli spogliatoi accanto alla palestra. Prima ora di educazione fisica, avrebbe fatto prima a spararsi.
Solo quando giunse là si rese conto di non aver indossato la solita maglietta da ginnastica, sotto quella normale. Quando aveva educazione fisica di solito si premurava di vestirsi a casa per evitare che gli altri ragazzi notassero i segni della sua disobbedienza, ma quella mattina, sicuramente troppo preso dall’essere silenzioso per non svegliare sua madre, non si era accorto di non aver indossato la t-shirt.
Aprì l’armadietto. Fortunatamente ne aveva sempre una di ricambio in caso di emergenze. Il passato lo aveva reso previdente; pronto ad ogni evenienza.
 Come quella volta che lo avevano pestato nei bagni e la maglia gli si era intrisa di sangue, costringendolo a cambiarla prima della lezione per non dover dare spiegazioni scomode.
Abbandonò lo zaino sulla panca e si assicurò che in giro non ci fosse nessuno, dopodiché si tolse velocemente il maglione e sospirò sollevato quando indossò l’altra maglietta, coprendo di nuovo il corpo martoriato.
Non si era accorto che un ragazzo era entrato nello spogliatoio proprio mentre si cambiava e, purtroppo per lui, ci vedeva fin troppo bene.

---

Doveva parlare con la coach.
Dopo la storta al piede che gli era costato quasi due settimane di allenamenti giusto poco prima del saggio di metà corso, la sua insegnante di ballo gli aveva preparato un esonero dalle lezioni di ginnastica fino alla fine della scuola.
Quell’anno avrebbero fatto Romeo e Giulietta, non poteva assolutamente permettere che il suo protagonista finisse k.o. per una rognosissima lezione di educazione fisica.
“Bale!” fermò un ragazzo, afferrandolo per la manica della felpa.
Blu e giallo. I colori della squadra di football del liceo.
L’altro si divincolò come scottato.
“Non mi toccare, Downey.”
Robert alzò le mani.
“Come desideri.”
“Cosa vuoi?” lo squadrò, assottigliando gli occhi e muovendo qualche passo lontano da lui, guardandosi attorno furtivo. Dovette giudicare il corridoio sgombro da pericoli, perché tornò a rivolgere tutte le sue attenzioni al ragazzo.
Nessuno doveva vederlo parlare con quella checca di Downey; quello che come sport praticava il balletto. Girava voce che le docce comuni nello spogliatoio maschile gli piacessero parecchio. Era come un meno venti sulla scala della popolarità.
“Solo chiederti se la coach è in palestra.”
“Non ne ho idea. L’ultima volta che l’ho vista era negli spogliatoi.”
“Grazie.” Con un cenno del capo sparì dietro l’angolo.
Decise di passare prima dagli spogliatoi, per sicurezza. Bale era un cazzone in gruppo, ma se preso singolarmente riusciva quasi a salvarsi. Quasi.
Spalancò la porta dello spogliatoio, riuscendo a bloccarla con un piede giusto un paio di secondi prima che andasse a schiantarsi contro al muro e impedendo alla sua presenza di palesarsi.
Fece il giro di tutto lo spogliatoio prima di rendersi conto che l’unica persona presente era un ragazzo mingherlino, talmente sottile che sembrava potesse volare via con un soffio di vento, con capelli biondicci, di quel colore indefinito tendente al castano che, per quanto tu ci possa riflettere tutta la vita, quando giungi ad una conclusione finisci inevitabilmente per ritrattare tutto.
Solo in un secondo momento, osservandolo meglio per cercare di identificarlo tra le migliaia di studenti che affollavano i corridoi, notò i segni che gli ricopriva tutta la porzione di pelle che riusciva a vedere.
Inclinò la testa, cercando di trovare un motivo a quei segni, come a voler ricostruire un reticolato tra quelle ferite che gli svelasse il nome di chi le aveva generate. Perché se c’era una cosa certa, era che non fossero ferite casuali.
Vide il ragazzo afferrare una maglia ed infilarsela velocemente, fece giusto in tempo a stamparsi l’immagine nel cervello, cosa per nulla difficile per una memoria paurosa come la sua.
Quando l’altro si voltò, certo di aver registrato uno spostamento d’aria alle sue spalle, non vide nulla se non la porta che si apriva mentre i suoi compagni entravano, accompagnati dalla campanella.

***

“Signor preside, la prego, mi ascolti! So quello che ho visto!”
L’uomo di fronte a lui congiunse le mani sotto al mento, fissandolo da sopra gli occhiali.
“La causa di quei segni può essere stata qualunque cosa. Una caduta, una perdita di equilibrio, una rissa. Qualunque cosa.”
“Ne aveva la schiena coperta. Qualche segno si estendeva perfino al torace. Una caduta non può combinare cose del genere. Nemmeno se tutti gli eventi da lei nominati accadessero insieme potrebbe venirsi a creare una cosa del genere, mi creda.”
L’uomo continuò a guardarlo.
“Sono più che certo che qualcuno a casa sua lo maltratti. Mi sono informato, si chiama Jude Law, il padre è morto e non ha sorelle né fratelli, vive solo con la madre. Sono più che sicuro che sia lei la colpevole. O quantomeno un di lei fidanzato. Non ci sono tracce di un nuovo matrimonio.”
Il preside alzò gli occhiali, pizzicandosi la base del naso.
“Non hai prove per dimostrare una cosa del genere, ragazzo. E’ una cosa molto grave, quella che dici.”
Robert si proiettò in avanti, deciso a non mollare.
Ne aveva visti, di casi simili, suo padre era psicologo. Doveva intervenire prima che fosse troppo tardi. Prima che il ragazzo si convincesse di meritarsi sul serio quei marchi.
“Erano segni di cinghiate, e qua e là c’erano anche bruciature di ogni tipo e lividi grandi come piattini da tè. Di certo non se li è fatti da solo, non crede?”
L’uomo dietro la scrivani si tolse gli occhiali, poggiandoli sul legno chiaro.
“Mi servono prove, Downey, non posso andare in giro ad accusare genitori di violenze perpetrate ai danni dei figli così, senza una buona motivazione e qualcosa di decisivo tra le mani.”
Robert si sporse ulteriormente, spingendosi sul bordo della sedia e poggiando le mani sulla scrivania.
“Se gliele fornirò, mi promette che farà tutto ciò che è in suo potere per aiutarlo?”
Il preside sospirò, rassegnato.
“Tutto ciò che posso.”
Robert raccolse la tracolla da terra e se la infilò velocemente, già con un piede fuori dalla porta.
“Scoprirò quello che serve.” E se la sbattè alle spalle, catapultandosi a tutta velocità in corridoio.

 

 

 

Spazio autrice:
Spazio per chiarire giusto il titolo, preso dall’omonima “Papa, can you hear me?” di Barbra Streisand. O da Glee, a seconda di quale vi piaccia di più xD
Giusto, dimenticavo, le lineette (---), segnano un cambio di POV, anche se credo sia una precisazione inutile, ma tant’è.
Lettore avvisato, mezzo salvato ù_ù xD

A presto,
- J

   
 
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