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Autore: Columbrina    20/03/2011    6 recensioni
[Rameria]
Rama e Mar sono felicemente sposati e hanno una vita idilliaca con i loro tre pargoli, i rispettivi figli avuti da precedenti relazioni e una nipote ergo figlia acquisita fino a quando...
Anche Valeria è felicemente sposata con Simon, ma con due bambini, un segreto e un incontro casuale stravolgerà le vite di entrambi.
E ciò dimostra quanta malafede può celarsi in un innocuo incidente d'auto.
“Non mi dire che è tua figlia, Ordonez!”
“Invece sì! E quella è tua figlia, vero Gutierrez?”
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 “Bella serata, no?”
Nella semidesertica sala da pranzo, esordì uno stridore che per poco non fece esplodere la cavità acustica, ovviamente identificato nella voce di Tefi che trangugiava la seconda porzione d’insalata. Sarebbe stata una bella serata se un decesso cardiaco avesse colpito uno dei diretti interessati dei miei folgoranti improperi che scagliavo contro loro come una telecinesi.
Il proposito originario della serata era una tranquilla cena familiare, ma che si era tramutato in un manicomio per gatti randagi, crogiolati nei loro grilli esistenziali mentre ingurgitavano il cibo preparato da un altro. I pochi momenti degni d’interesse erano le coccole di Luca a sua moglie (e i suoi eccitanti momenti di frenesia), le ispezioni orali di Simon alla bocca di Valeria o, anche, i borbottii sommessi di Mar verso Thiago.
“Stavo pensando…”
Trucidai mia cognata, prima che potesse emettere un nuovo e rinnovato stridio; Tefi assunse un’espressione che andava ben oltre il limite della sottomissione. Mar mi ammonì con una dolce bussata al gomito.
“Dai, sii più carino con mia sorella” mi mormorò
“Mar, non te la prendere. Rama è sempre stato un po’…”
Luca fece un gesto eloquente con la mano e il suo sguardo era inequivocabile: Rissoso come un mandriano in uno di quei pub desolati nel Sol Levante.
“Luca!”
“Scusa, cognata”
Non occorreva aggiungere cenere al fuoco anche alla brace di Mar, fumante perché Thiago, seduto a un palmo di naso di lei, teneva gli occhi bassi sul piatto colmo di foglie di lattuga. Mia moglie tirò in dentro le guancie, indignata che non gradisse il piatto preparato di suo pugno.
“Thiago, non sei molto loquace stasera” dissi io. Pessima mossa.
Nella sala da pranzo si installò un silenzio di tomba, che quasi mi fece accapponare ogni follicolo che non fosse contagiato dal sangue fermentante della vendetta contro il suddetto adescatore. Persino Tefi aveva preferito concentrarsi sulla cena che sul mio sforzo di attaccare bottone che, per la cronaca, risultò vano dato che Thiago si strinse nelle spalle, sfoderando un anonimo sorriso di cortesia.
“Abbi almeno la decenza di risponderlo!” sbraitò quel puma dirompente che ho la fortuna di aver sposato. Sorrisi, sentendomi vincitore.
“Accidenti, stiamo calmi!” Fu il calzante intervento della giraffa.
Il purosangue e la consorte, per la durata della disputa, non avevano ancora esposto i loro animi a tale agonismo latente sebbene il loro palese spirito di competizione, specialmente quando l’occasione di azzannarsi si presentava su un piatto d’argento.
Invogliai  con piglio truce, anche solo a chiedere di andare in bagno, Valeria ad aprire quelle dannate labbra che stavano lì, statiche e rigate da un filo di rossetto rosso, a istigarmi le fantasie più stuzzicanti. Se non fosse stata presente tutta questa marmaglia, non so se avrei risposto ai miei istinti primordiali.
Le prime due portate erano filate via in un battito di ciglia, scandite solo da qualche sbirciata avversiva verso Valeria che, per tutta la durata della cena, non mi aveva defecato affatto. Neanche fossi un estraneo, nonostante sia stato io a privarla del voto di castità in quella baita sperduta. Ora mancava solo il dolce e, per fortuna, il cabarè di pasticcini di Melody era ancora integro.
“Chi va a prendere il dolce?” esordì Mar, affrontando l’apice della cena col più assoluto menefreghismo.
“Vado io se volete”
Valeria si era offerta volontaria. Un barlume divino si era spianato sulla mia casa, graziandomi con questo intervento provvidenziale. Non avrei impiegato nessun arco di scienza per trovare una scusa plausibile per sviare in cucina, dove si stava dirigendo seduta stante.
Tossii subitamente.
“Amore, che succede?” mi chiese mia moglie, carezzandomi la nuca.
“Niente, vado a prendere un bicchiere d’acqua in cucina…”
Feci per alzarmi, quando quel differito mentale di Teo notificò animatamente che ce n’era una caraffa piena proprio al centro del tavolo. Mi risedetti, crogiolando nella mia vena drammatica e meditando le più macabre vendette contro quel procrastinatore dei miei stivali, lì, col suo sguardo statico a carezzare i capelli di sua moglie senza alcuna rivelazione emotiva.
Sbocconcellammo i dolci in silenzio, almeno le suddette cariatidi da sarcofago (Io, Mar, Thiago e Teo), mentre gli altri si dilettavano in aneddoti futili come la validità di una mazza da polo per mancini.
“Io propongo di andare. E’ stata una serata stupenda, sorellina! E tu, cognatino, sei un cuoco da manuale!”
Da quando avevamo interrato la falce dal guerra, Tefi era divenuta svenevolmente sgradevole con quei nomignoli da due soldi che mi facevano traballare la zona occipitale.
“Già, proprio una cena da paura!” fu il commento sardonico di Teo che prese sua moglie per mano e la trascinò fuori all’ingresso, senza nemmeno avere la decenza di salutarci
“Teo non è mai stato particolarmente loquace, dovete perdonarlo…” ci notificò Tefi, a mo di scusante del marito della sua migliore amica. In realtà non era nei miei interessi aggiungerlo alla cerchia delle mie amicizie.
“Meglio così” dissi laconico io, lanciando l’ennesimo sguardo fugace a Valeria, la quale, stavolta, ricambiò con una latente improvvisata
“Bene, sorellina, stai attenta a non farti mangiare dallo squalo, eh!” mormorò Tefi a mia moglie, nel tentativo di improvvisare uno di quei codici inintelligibili, ma che risultarono come un patetico approccio a una richiesta di divorzio immediata
“Ora andiamo, amore. Ciao a tutti!”
Luca trainò letteralmente sua moglie per uno stinco in modo da cessare le sue ciarle da uccello del malaugurio. E rimasero in cinque. Non per molto, dato che Thiago diede quasi subito le spalle a Mar e si diresse oltre la soglia; fece un debole cenno e salì sulla sua insipida (pluriricercata) auto.
E rimasero in quattro. Numero concomitante ai lati di un pericoloso quadrilatero.
“Sembra arrivata l’ora X!” fu il saluto di Simon
“Ciao! Vale, un giorno di questi dobbiamo riunire le amiche!”
“Ci sto!”
Accidenti, si stanno dirigendo verso la soglia! Provvidenza mia, dimmi che è tutto un macabro incubo del mio inconscio.
“Ah” Valeria ha un’esitazione “Ho scordato il soprabito di sopra. Vado a prenderlo e torno…”
Non potevo attendere oltre. Sparai al caso una scusa su un imminente bisogno primordiale della vescica ed ero a un palmo di naso dai suoi capelli mentre percorrevamo i gradini delle scale. La scortai in camera, dove a inizio serata aveva posto il soprabito sul letto matrimoniale. Un luogo calzante.
“Bella serata, vero?” disse lei, in tentativo di attaccar bottone con me, dopo una serata di sconquassante asocialità.
“Dici a me?”
Valeria rise.
“Si, non c’è più nessuno oltre a noi due, stupido!”
Il modo in cui mi riprendeva azzerava le mie facoltà di poter collaudare l’immediato contatto con la ragione. Era lungi da me ogni bramosia di saltarle addosso, ma quelle labbra stuzzicanti risuonavano in me come un inequivocabile atto provocatorio che estraeva ogni pensiero in me casto.
“Hai ragione” farfugliai come un giradischi messo in ceppi “Ti aiuto a… Mettere il soprabito?”
Quella concitazione cronica mangiava ogni mia parola di senso compiuto, sebbene Valeria era riuscita a raccattare qualche brandello per rispondere affermativamente.
Presi il trench bianco latte e passai la manica per tutto il braccio sinistro; un contatto visibilmente palpabile e disagevole, a giudicare dalle sensazioni che permeavano fino ai pori della sua pelle perlacea o al respiro incerto. Il punto focale era non mordere di baci quell’attizzante collo nudo e cingerle la vita nella morsa più passionale che ci sia, istintivo, non reclamato come la nostra prima volta. La aiutai anche col secondo ed esile braccio, fino a rimanere impalato come uno stoccafisso, contemplando i suoi gesti ambigui sfocianti in un’inaspettata repressione. Ma lì, il principio azione – reazione è andato a farsi la benedizione nel Giordano.
“Eri visibilmente agitato. Che ti prende, hai paura di me?”
Volevo risponderle, in modo abbastanza coinciso, che mi eccitava in un modo a dir poco scandaloso, ma detta così alla buona penso che, come minimo, mi avrebbe allascato una sberla da paura.
“Più o meno” risposi vago
“Andiamo…” si avvicinava, lo sentivo dal picchiettio preciso dei suoi tacchi “Mica ti faccio del male”
Frizionò la sua esile mano sulla mia testa bionda, scarmigliandola alla buona. Quei gesti ambigui mi attizzavano più di quelle labbra che reclamavano pietà.
“Vale… Vale… Che stai facendo?”
“Ti sto salutando” A me non pareva tanto, sai?
Schioccò un rapido bacio sulla mia guancia e lanciò un sorriso fugace nella mia direzione, prima che il rumore dei tacchi si perdesse nella profondità della cucina. Rimasi a contemplare per un po’ la stanza dalla fioca luce aranciata, tastai con la mano il punto in cui aveva suggellato la prova inconfutabile del suo passaggio e notai che la traccia era ancora lì, fresca e palpabile.

***

 
 
Una volta collaudato che, alle tre di notte, in preda a una crisi depressiva il cioccolato andava per la maggiore come toccasana per alleviare le accozzaglie morali, mi misi a sfogliare qualche album, alla flebile luce di un lume pagato profumatamente a un mercatino di mobili usati. La felicità statica di quelle foto toglie credito alla realtà, lontana anni luce dai sorrisi di quel giorno. O dal primo bagnetto dei gemelli o la loro rappresentazione teatrale scolastica a Natale. Il primo Carnevale di Bea… Tutto scorreva dinanzi a me, permeando in sensazioni tangibili di cui io non potevo bearmi. Purtroppo, non avevo abbastanza fegato di sfogliare le foto degli anni alla Casa Magica, nonostante le manie di conservatorismo di mia moglie. In qualche meandro sperduto della soffitta, però, custodivo gelosamente i sorrisi miei e di Valeria, durante una sera, lontani da tutti, in una baita, rinnovati dalla frescura del nostro amore. Ricominciai a sorridere come un ritardato e mormorare parole di una canzone d’amore che facevo sempre ascoltare a Bea prima di farla addormentare.
Scacciai per un istante quell’ appagamento istantaneo perché trillo il campanello. Alle tre di notte? Ma quale ritardato picchierebbe alla porta di uno sconosciuto nell’apice della dormiveglia? Un ladro, forse impaziente di tornare in gattabuia?
Arraffai istintivamente una mazza, raccattata dal portaombrelli, e incanalai ogni mia energia vitale in modo da risultare perfettamente ponderato. Ma non mi sentivo così sudato dal mio primo matrimonio!
Apri gli occhi, Rama! Avanti…
Girai la maniglia, lo scatto della serratura fu il nulla osta focale. Con fervore sproporzionato partì una stangata, smorzata da un cappello, ma il tonfo finale fu necessario. Il presunto assassino era a metà strada tra la soglia e lo zerbino del pianerottolo, quindi o mi toglievo questo peso gettandolo in una cisterna o chiamavo la polizia. Ispezionai il cadavere; aveva il volto celato da un berretto e lo scostai di qualche centimetro. Che la Provvidenza mi perdoni per aver detto quella parola.
“Che diavolo ci fai qui, Lleca?!!!”
Avrei scardinato a furia tutte le porte della casa pur di sfogare il fervore che fermentava dentro di me a fuoco lento, meditando sulle possibili scorciatoie per un omicidio a sangue freddo.
Avevo fatto sedere Lleca sul divano e tamponato il bitorzolo sulla fronte con del ghiaccio. La prima parola che riuscì a proferire fu ‘Così si salutano gli amici, Ramita?’ con quel suo tono di tracotante compiacenza nel vedere che lo accoglievo a braccia aperte. Per ora, la mia aspirazione vitalizia era vederlo in fin di vita sul ciglio della strada dopo quello che ha fatto a mia sorella.
“Tienitelo per un po’…” dissi, con tono singolarmente sgradevole, gettando lo strofinaccio nel lavello.
Mi risultò quasi spontaneo chiedermi che diavolo ci faceva in città, dopo quello sconfinato anno sabbatico sotto mentite spoglie di un trasferimento in America e per di più a Las Vegas, dove aveva sperperato i suoi averi nei peggiori casinò della città. Ci sarebbe mancato un matrimonio lampo con una turista straniera per completare il quadro.
“Lleca…” dissi io, rompendo il disagevole silenzio che si era andato a creare dopo il mio subitaneo slancio di attentare alla sua vita
“Si”
“Posso farti una domanda?”
“Chiedi pure!” disse lui, sfoderando un molesto sorriso a trentadue denti
Lo intimorii ulteriormente, trucidandolo col mio cipiglio inarcato, le pieghe distese, le guancie tirate e gli occhi sporgenti dalle orbite.
“Hai sposato una turista straniera per caso?”
“No, solo un paio di giorni” disse, senza il benché minimo briciolo di pudore nel disperdere con tale tracotanza le sue disfatte amorose. Che nervoso, accidenti!
“Un paio di… Diamine, Lleca…”
Iniziai a imprecare concitatamente, mentre Lleca trafficava con una tazzina d’antiquariato adagiata sul tavolo.
“Lleca e dimmi, perché hai abbandonato il Paese e sterminato moralmente il cuore di mia sorella?” chiesi, rinvenendo dal mio transitorio stato di trance rabbiosa
“Ecco… Non me la sentivo di addossare sulle mie spalle un peso come quello di un figlio…”
Quell’insofferenza sul volto venne marchiata a fuoco nella mia testa, mentre identificavo la sua regale faccia d’angelo come bersaglio focale del mio destro.
“E pensi che Greta sia un peso?”
Sentii avvampare mentre mi rendevo conto che i miei strepiti non servivano ad ammortizzare il menefreghismo di Lleca, interessato dai motivi floreali di una tazzina.
“Però bella casa! Devono pagarti profumatamente per mantenere questo gioiellino!”
Ma sparati un bel calcio nel sedile posteriore!
“Lleca, mi ascolti? Hai abbandonato tua figlia! Hai un po’ di etica morale in quella testa di piombo?”
E se non risponde, gli ficco una scopa nel sedere!
“Si, infatti sono qui per rimediare, ma prima di tutto mi servono soldi…”
“Per cosa?”
Un regalo per la bambina, forse? O, un’uscita al cinema in due? O, forse, era un opportunista con le mani bucate.
“Ecco, ho avuto dei problemini legali in America e ora sono ricercato dalla polizia”
Non ci credo. Non ci credo. Sturatemi le cavità acustiche e ditemi che è tutta una fandonia per posticipare il primo Aprile. Un latitante, vi dico. Non bastava la fedina adolescenziale sporca, ci si intrometteva anche la burocrazia americana!
“Lleca, hai solo un briciolo di coscienza nel renderti conto che sei un latitante?”
“Si e per questo tu mi aiuterai…”
Oggi i problemi fioccavano in casa mia, nemmeno l’invocazione delle dieci piaghe avrebbe smorzato le tremende stangate di quella giornata.
“E perché dovrei aiutarti, sentiamo…”
“Perché sei mio cognato e mi vuoi bene”
Pinzai le estremità dei suoi lobi con la medesima facilità con cui lui aveva comprato un dannato biglietto aereo, rintracciato il mio indirizzo e fatto capolino in casa mia. Le sue urla erano un vero godimento per quell’effimero piacere perverso che permeava nelle mie carni sempre più in profondità.
“No, scusami… Perché sarebbe un incentivo per farmi accettare da Greta. Insomma, chi mai vorrebbe un padre ricercato?”
Allentai la morsa, scostandomi un po’ da lui, devastato in positivo dalle sue parole, più o meno sincere.
“E se volessi liberarti su cauzione?”
“In questo caso, dovresti sborsare tipo… Cinquecento pesos più gli interessi. Sai la gente è taccagna in questi tempi”
Avendo la mente madida di problemi, il minimo che potevo fare è promettere vitto e alloggio qui in casa mia, sperando di redimerlo e renderlo più vicino a sua figlia.
Mi ringraziò con un forte abbraccio che, per un istante, ripristinò ogni istinto omicida verso quel farfallone dei miei stivali, ma che rimaneva ugualmente il mio Lleca di sempre.

***

 
 
Quel venerdì, fu di nuovo il turno di papà Ordonez di accompagnare la principessa Bea all’asilo con l’auspicio di rivedere Valeria, fede permettendo.
Per quanto riguarda la storia di Lleca… Ho spiegato ai bambini che era un cugino di campagna, appartenente al ramo fatiscente della famiglia, mentre Mar era testimone solo oculare della situazione.
“Papà, sai che il cugino Lleca ha gli occhi come quelli di Greta?”
Ma cosa mettono nei cereali per bambini al giorno d’oggi?
“Non ci ho fatto caso, sai…” risposi laconico, parcheggiando con perizia dinanzi al viottolo che accedeva allo stabile, gremito di grembiuli azzurri e rosa
“Dovresti tenere gli occhi aperti, allora, papà”
La fronte era imperlata di sudore, proprio come la mia schiena e sono certo che non era dovuto allo sfogo della sera precedente.
Perché, amore mio?”
“C’è la tua amica”
Indicò due figure in prossimità delle altalene e distinsi Valeria mentre lisciava con l’esile mano i riccioli indocili della sua bambina, ricoprendola di carezze e coccole prima che affrontasse il duro mondo dell’asilo materno. Mi rivolse un cenno che ricambiai con un sorriso inebetito.
“Bea, dimmi una cosa” le chiesi con la massima discrezione “Tu e quella bambina, Rose, andate d’accordo?”
“No”
Di bene in meglio. Ma che mi investa un tram a questo punto!
“Perché?” continuai, porgendole la cartella
“Tutti i bambini la guardano e tutte le bambine vogliono giocare con lei”
Mi destava tenerezza la precoce gelosia della mia bambina, casualmente verso la figlia di colei che avevo intensamente amato. Era un altro demenziale tiro mancino che il destino, in qualche modo, mi stava giocando.
“Ma, è la figlia dell’amica di mamma e papà”
“E allora? Mica è amica mia?”
Stava acuminando la lingua giorno dopo giorno quella piccola peste del mio sangue. Solleticai per un po’ il suo ventre panciuto, riservandole i peggiori martiri e beandomi della sua risata, così pura e tersa da qualunque alterazione. Poi le schioccai un rapido e affettuoso bacio sulla guancia.
“Ciao, amore”
“Ciao, papà”
Scesi dall’auto e raggiunsi Valeria, che aveva appena salutato sua figlia Rose. Secondo il mio parere, Bea non aveva nulla da invidiare a quella bambina, se non quei bellissimi riccioli tremendamente familiari a quelli di sua madre. Schioccai un veloce bacio sulla guancia, il consueto saluto tra genitori all’ingresso di una scuola.
“A quanto pare tua figlia non rientra nelle grazie di Bea”
Bel modo di iniziare una conversazione.
“Si, Rose mi aveva accennato qualcosa…” disse lei, visibilmente divertita
“Ti sembra divertente?”
“E pensa che tra qualche anno litigheranno per i ragazzi…”
Eh, già, i ragazzi. Un punto dolente.
“Come minimo, Bea guarderà un ragazzo dopo i diciotto anni”
“Ma che pesante che sei, paparino!”
Mi sentii avvampare, in quell’ esuberante scambio di sfogliate reciproche e irrisioni che lasciavano ostentare in modo gratuito le mie apprensioni di padre. Valeria rise nuovamente.
“Dai non te la prendere!” disse, con un tono che doveva fungere da scusante; quando aumentò ulteriormente il mio colorito con quel rapido bacio sulla guancia. Mi sentivo come il burro su una griglia rovente.
“Guarda!” esclamò subitamente “Un carretto dei gelati! Andiamo a prenderne uno”
Nemmeno mi ero accorto della presenza di quel gelataio ambulante, che ci scrutava con discrezione da dietro un cono ricolmo di cioccolato. Stavo per oppormi perentoriamente, ma Valeria aveva un forte ascendente su di me, specialmente quando mi trainava per il braccio come una banderuola.
“Vale, non mi sembra il caso…”
“Dai, ti prego!”
Mi sentivo a dir poco ridicolo, come fossi un genitore che doveva sorbirsi i capricci della propria bambina. Ed essendo testimone effettivo di ciò che si provava, cedetti a quel suo slancio di stramberia.
“Due coni al cioccolato”
Il suo preferito.
“Te lo ricordi?” mi chiese subitamente, con sguardo intriso di premura, presumo
“Mai dimenticato” risposi affabile. Ci fu uno scambio di sorrisi eloquenti fino a quando il gelataio non schermò dinanzi a noi i gelati, raschiando quella piacevole metastasi.
“Ecco a voi”
“Grazie!” dicemmo all’unisono
“Siete fidanzati?” Classica domanda del classico ciarlone
“No!” intervenni io, eccedendo di impeto
“Una volta…” aggiunse lei, sorridendo. E solo lì, notai le sue labbra, ancora velate di quel leggero drappo rosso che risaltava lo splendido color diafano della sua pelle.
C’est la primavere!” disse, ostentando un francese maccheronico, che mi fece dubitare sulla discrezione dei segreti professionali, non so se mi spiego.
Ci sedemmo su un muretto di cinta, adiacente al cancello del cortile, più desolato che mai sebbene i tramestii dei bambini giungessero alle nostre orecchie. Contemplai per qualche istante il sapore amaro del mio gelato, per poi essere allettato dalle sue labbra, dalla sua lingua che gustava piacevolmente il cono. Mi allettava quel complesso movimento circolare intorno alla spirale al sapor di cioccolato e, poi, quasi baciandola, si beava di quella frescura sotto il palato per poi riprendere il ciclo, stavolta ancora più sensuale, quasi fatto apposta per eccitarmi come sta succedendo ora.
Un momento… Fermi tutti… Da quando provo eccitazione per Valeria?
“Che ti prende?” mi chiede, subitamente, per poi riprendere a trangugiare con sensualità e perizia quel gelato, quel peccato. Ecco, mi costringe a congetturare  fantasie sconce anche sui gelati!
“Niente” dico laconico.
Trangugiai febbrilmente una quantità generosa di gelato, stendendolo sul contorno del labbro superiore e oltre.
Tutta colpa della sua impudicizia insita, caspiterina!
“Hai la faccia tutta sporca…”
“Grazie per la constatazione!” replico sardonico, frizionando febbrilmente il tovagliolo sul viso. Ovviamente non diede l’effetto desiderato. Ma che diamine lo danno a fare se poi non serve a un’ emerita cretinata?
“Aspetta, ci penso io…”
Sacrificò il suo fazzoletto e stava per adagiarlo sul labbro, accavallando sensualmente le caviglie da antilope, imprigionate crudelmente in un paio di calze color carne.
No, non poteva farlo! O la circoncisione sarebbe stata palese e il mio incaglio svelato ancor di più di quando potesse farlo il mio colorito rosso vivo. Ansimai, come incentivo per le connessioni del cervello. L’unico incitamento istintivo fu sottrarlo dalle mani di Valeria.
“Grazie…” farfugliai incerto, la fronte e le mani madide di sudore e il mio animo intriso di auto-commiserazione.
Riprese a mangiare il gelato. Mi ripromisi di non cedere alla tentazione di fantasticare su di lei. Perciò, con assoluta discrezione, caddi dal muretto come uno stoccafisso.
“Stai bene?” mi chiede lei, proiettandosi dinanzi al mio campo visivo, i cespugliosi capelli biondi agitati a suon di vento e gli occhi da tigre intimorita
“Vedo le stelle… E’ normale?”
“Dai, ti aiuto…”
Mi porse la mano, quella esile… Diamine sto ricominciando! Ma che diavolo! Da quando ho visto quel suo collo nudo ieri in camera mia, sono cominciate le fantasie da paraninfo.
“No, faccio da solo!”
Mi alzai, raschiando via i rimasugli di terriccio e asfalto dal pantalone.
“Tutto bene?”
“Si…”
Venni troncato sul nascere di una frase di senso compiuto, dal trillo di un cellulare. Il suo, presumo.
“Simon”
Parli del diavolo…
“Adesso? No, dai… D’accordo, sto arrivando…”
E spuntano le corna.
“Che succede?” le chiesi, con l’apprensione di un amico
“Simon” rispose coincisa, riponendo il cellulare nella borsa
Speravo andasse avanti col racconto perché ero avido di dettagli.
“Devo andare a un pranzo di lavoro con lui e alcuni suoi lascivi colleghi e le loro intrattabili mogli. Che noia, il solito andirivieni! Dovrò lasciare Gas e Rose a Cielo!”
Presumo che Gas fosse il nome del secondogenito di Valeria e Simon.
“E non vorresti distenderti per un po’?”
“In che senso?”
Un baleno di lucidità suprema mi illuminò prima che potessi sparare altre sentenze a caso.
“No, nulla. Allora, ci vediamo domani?”
Ritornò a sorridere.
“Si”
Mi schioccò un dolce bacio sulla guancia che attizzò ancor di più i fuochi ardenti del mio corpo.
“E grazie per il gelato!”
E, già, dallo stridio dei pneumatici della sua auto, mi parve di percepire, chiaro e discernibile, il suo profumo penetrare nei pori delle mie carni, il contatto della sua pelle sulla mia e quelle iridi così chiare. Tutto ciò mi lasciò come un povero scemo in balia di uno sconfinato soniloquio per quella sobillatrice.

***

 
 
Il ritorno a casa fu a dir poco strambo.
Mar era andata a pranzo con Jazmin e mi sono ritrovato un Lleca pantofolaio, stravaccato sul divano in bermuda, trangugiando patatine e dilettandosi nel canto di quei marsupiali animati che insegnavano a usare il vasino. Frattanto contemplai il disordine disseminato nella stanza, scandito da briciole di patatine, buste vuote, carta di giornale e alcuni depliant di agenzie di viaggi. Un albergo a cinque stelle per porci, per farla breve.
Gettai le buste della spesa sul tavolo, sperando di aver spronato il suo interesse verso il mio disappunto. Rumoreggiai con dei gargarismi con un bicchiere d’acqua e innescai un tintinnio di stoviglie.
E andiamo, girati!
Forse era troppo intontito dal crocchio di quei croccantini di mais. Aprii un’anta delle credenze e tutto gli spuntini che avevo conservato per i bambini era scomparso, presumibilmente finito nella cavità intestinale di Lleca.
“Io avrei bisogno di una mano con le pulizie…”
“Puoi chiederlo a scopa, aspirapolvere e secchio. Sono tutti nel ripostiglio”
A meno che non abbia trangugiato anche quelli.
“Almeno hai visto qualche annuncio per un lavoro?”
“Si” rispose, ma il suo tono vago non avrebbe convinto neanche lo scemo del villaggio.
Mi rimboccai le maniche, prendendo scopa e paletta, raccattando il sudiciume e il pattume disseminato sul pavimento. Scorsi addirittura le mie patatine preferite, che mi dilettavo a trangugiare durante un bel film in famiglia. Poi lessi, da una scartoffia di giornale, l’annuncio per un lavoro di animatore pagato profumatamente. O l’accompagnatore per signore. Anzi no.
“E’ arrivata anche la posta, dovresti leggerla”
“Perché non la leggi tu!” replicai io, comprensibilmente sgarbato, gettando nel pattume i rifiuti raccattati
“Perché mi taglierei le dita. E non essere così ozioso!”
Da che pulpito arriva la predica.
Lasciai per un po’ il giro di pulizie domestiche, per dedicarmi al solito paternale di bollette e suo seguito. Scorsi un paio di buste bianche e una arancione adagiate sul bancone della cucina, l’una sopra l’altra. L’unica traccia di compostezza in quella stanza.
“Bollette…” Spazzatura
“Bollette” Spazzatura
“Bollette” Spazzatura
“Pubblicità di un corso di cucina…”
Fermi un attimo!
Ecco il capro espiatorio perfetto per la distensione pomeridiana. Niente di meglio di un bel piatto cucinato bene per stirare il tedio di una giornata feriale. Per noi due, poi, sarebbe perfetto per rinnovare il nostro rapporto.
“Lleca, secondo te, un corso di cucina fortifica il rapporto?”
“Si. Niente di meglio che stare insieme per un’ora in una sala con un perfetto sconosciuto con un maccheronico accento francese!”
Fidandomi del consiglio di Lleca, l’unica perla di saggezza della sua vita per la cronaca, avviai le congetture su un prossimo rapporto fortificato fino al midollo, in modo che tra noi non ci fossero più barricate futili. La vicinanza nobilita il rapporto, no?
Digitai velocemente il numero sul telefono di casa, sperando non fosse già nel bel mezzo del pranzo…
“Pronto…” dissi
“Ti disturbo?” Incrociai le dita, invocando tutti i Santi dell’Infinito e oltre
“Bene, Valeria, ho una proposta fresca per te!”
Mi compiacqui da solo per quell’ottima trovata! E poi le donne vanno prese per la gola, si sa.


Saria
Fanciulle, grazie per le splendide recensioni che mi rendono partecipe della gioia nello scrivere e nel leggere questa fiction che, giorno dopo giorno, mi prende sempre di più.
Ringrazio in particolar modo la splendida Fra e la mia carissima amica Anna che, da mio idolo focale su questo sito, è diventata persino una delle mie compagne di menage - a - trois. Un ringraziamento speciale va anche a Marciu. Ovviamente ringraziamenti speciali vanno anche a voi, ragazze mie!
Siete favolose!

Hasta la savusilakka! :)


   
 
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