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Autore: LoveShanimal    21/03/2011    3 recensioni
Veronica ha 21 anni, abita a Roma, ed è una Echelon. Quando aveva 10 anni, mentre stava in auto con i genitori, un camion perse il controllo e travolse la macchina: lei si salvò grazie alla madre, che prima dell'impatto l'aveva lanciata fuori dalla macchina in corsa. In quel momento sprofondò nella solitudine: perse tutti gli amici e iniziò ad eregere intorno a sè un muro di cemento. La sua vita migliorò sei anni dopo, quando, girando per una libreria, trovò...
Ho detto tutto praticamente ! xD Lascio a voi il seguito! :)
Ps. Siate clementi, è la mia prima storia! ^^''
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tic toc. Tic Toc. Tic Toc. 
La stanza era completamente in silenzio, esclusa la lancetta pigra dei secondi che scandiva piano il battere del tempo.
All’epoca avevo 21 anni, mi ero diplomata con il massimo dei voti al liceo, ma non avevo continuato con l’università. Era l’11 Febbraio del 2011. Ormai erano passati ben sei anni da quel 17 Agosto, e ancora non mi ero stancata di Loro; probabilmente non mi stancherò mai. 
Ero attaccata al computer da quanto? Tre giorni? Eppure rimanevo lì, tranne quando la fame diventava insopportabile e la pipì si faceva sentire. 
Ma non ero stanca. Stavo aspettando la notizia dell’anno, quella che probabilmente sarebbe stata la più bella della mia vita. 
I 30 seconds to mars in Italia. 

Avevo visto migliaia di siti, girato in migliaia di pagine, ma niente. 
La data prevista era l’8.. il “very soon” di Jared si stava facendo sentire. Scesi al piano di sotto, velocemente, a prendere un bicchiere d’acqua: avevo appena dato un urlo bestiale, quasi strappandomi tutti i capelli dalla testa, e mi si era seccata la gola. 
L’ansia mi stava uccidendo. 
Tornai di sopra, ricaricai la pagina ѕнαɴɴoɴ ϟ , la mia preferita tra le pagine di Facebook, e trovai un nuovo stato scritto in maiuscolo: “HANNO ANNUNCIATO LE DATE”. 
Rimasi con gli occhi sgranati per qualche minuto, quando mi ripresi, con gli occhi in lacrime dall’emozione e lessi: “MILANO, 17 GIUGNO” “ROMA, 18 GIUGNO”. 
Mi alzai in piedi, scaraventando la sedia per terra, e iniziai a saltare sul letto e ad urlare versi incomprensibili di gioia. 
Quattro mesi. Solo quattro mesi, e il mio unico grande sogno si sarebbe realizzato. Solo quattro mesi, e li avrei visti! 
Tornai vicino alla scrivania giusto per accertarmi che non fosse stato un sogno. Giusto per essere certa che avessi letto bene. Eppure erano lì, tre parole che mi riempivano il petto di gioia. Sentivo il cuore scoppiare, le lacrime rigarmi la faccia, le mani tremarmi. 
Era tutto vero. 
Appena capii questo semplice concetto, presi la foto di Shannon che avevo fatto stampare e che tenevo lì, su una specie di mini altare tutto Echelonizzato, tra altre mille foto di Jared e Tomo, e me la strinsi al petto. 
Stetti ferma così per un tempo indefinibile. Secondi, minuti, forse anche ore. Avrei visto i 30 seconds to mars. Avrei visto Shannon. Avrei visto la sua Christine che tanto mi faceva sognare. Quello fu il momento più bello della mia vecchia vita. 

Due giorni dopo, andai a comprare il biglietto. Mi ero presa proprio quello sotto al palco, così da poterli ammirare in tutto il loro splendore. 
Non era giusto che una persona fosse avvantaggiata rispetto ad un’altra solo perché aveva più soldi nel portafoglio, ma per me era troppo importante vederli, e più potevo stargli vicino, meglio era. E per una volta, il fatto di essere ricca giovò anche a me, oltre che a mia zia. 
Tornata a casa, mi buttai sul letto, guardando innamorata quel biglietto. Stetti così per ore, fino a quando non ripensai a mio padre. Corsi nel primo cassetto del mio armadio ed eccola lì, la mia bellissima Canon. Iniziai a scattare centinaia di foto, alternando il biglietto, me con il biglietto, il biglietto con il piccolo altare, me con il piccolo altare. 
Non mi interessava stare male nelle foto, e neanche fare la parte della stupida. Quelle foto, inoltre, non sarebbero mai uscite dalla mia camera. Sarebbero state nascoste in un piccolo spazio del mio cuore, e tenute lì per sempre. 

Così passarono due mesi, tra l’ansia e a gioia per il concerto. 
Fu proprio allora che successe qualcosa che mi stravolse la vita. 
Era un pomeriggio di Aprile, le giornate si erano fatte più calde, e la primavera aveva salutato il globo terrestre da pochi giorni. 
Stavo disegnando ancora sulla terrazza di casa mia, quando posai la matita e strappai la pagina. I miei disegni, ormai, erano tutti uguali. Dovevo cambiare soggetto. 
Decisi di andare al Colosseo: dalla panchina dove mi sedevo la vista del monumento era mozzafiato, e con la primavera e il sole che batteva vivace i suoi raggi sulla superficie sarebbe stato tutto più bello. 
Indossai le mie bellissime converse, tutte nere con la Triade rossa sui lati, un pantalone nero semplice e una felpa leggera anch’essa nera con i quattro simboli dei Mars rossi. Devo ammettere che anche questo è stato un lato positivo dell’essere ricchi. 
Uscii di casa con il mio piccolo Ipod nano, tutto rosso su cui avevo fatto incidere diversi simboli della band. 
Ero una maniaca lo so, ma non ci potevo fare niente se volevo che ogni mia cosa parlasse di loro. E mi divertivo a pensare che forse, avessi più gadget io di quanti ne avesse Jared stesso. 
Con Closer to the Edge nelle orecchie, iniziai a camminare. 
Stare tra la gente che mi scrutava non era una delle mie cose preferite, ma quando ascoltavo la musica entravo in una specie di mondo tutto mio. Come dentro ad una bolla. Magari ero ancora più al centro dell’attenzione quando mi spaccavo i timpani come in quel momento, ma non m’importava. Mi sentivo invincibile con le cuffiette alle orecchie, e ne ero talmente abituata che non averle equivaleva ad essere nuda.
Fu proprio quello il mio errore: ero talmente immersa nella musica che, attraversando la strada, non sentii il clacson che suonava insistente. Mi girai qualche secondo prima, giusto in tempo per vedere un camion venirmi incontro impazzito. Alla faccia della storia che si ripeteva. Era persino dello stesso colore. 
Riuscii solo a mettermi le mani davanti alla faccia, sicura della morte che stava per portarmi via con sé, quando fui spinta via. Ero stata salvata, di nuovo. Possibile che la mia vita si riducesse a gente che mi spingeva via?
Sentii solo un dolore acuto alla fronte, e poi nulla. 

Quando mi risvegliai fui stordita dal bianco della camera in cui mi trovavo. Ero forse in paradiso?
Battei più volte le palpebre, quando una voce mi disse “ben svegliata”. La vista tornò lentamente normale, e piano piano mi si delineò davanti la figura di un ragazzo, particolarmente familiare. 
Era alto, bruno, con i capelli lunghi legati con un codino e vestito semplicemente con un jeans e una t-shirt verde. 
“.. Michael! Sei tu!” era uno dei miei compagni del liceo, che si era ritirato un anno prima dell’esame di maturità.
“Si, sono proprio io! Il tuo salvatore! Quando ti ho vista così, nella traiettoria del camion impazzito, mi è quasi venuto un colpo! Dovresti smetterla di camminare con quelle maledette cuffiette nelle orecchie, o un giorno o l’altro ci rimetterai le penne!”. Parlava così veloce e così forte che a stento capivo le parole. Avevo un mal di testa insopportabile e le orecchie che pulsavano. 
“Gr..grazie. ho preso una paura quando ho visto l’autobus di fronte a me. Non so davvero come…” 
“non ti preoccupare! Sono felice di averti salvato la vita! Peccato che ti ho fatto prendere una bella botta in testa! Sei andata a sbattere contro il marciapiede. Non ti preoccupare, nessun trauma cranico. Hai solo perso molto sangue”. Mi sorrise. 
Mi portai la mano alla fronte. In effetti avevo una cicatrice proprio sotto la riga dei capelli. Sbuffai. Sarei dovuta andare per forza dal parrucchiere a farmi fare una frangetta laterale.
“adesso devo andare. Il mio treno parte fra mezz’ora. Spero di rincontrarti ancora.. viva! Hahahaha alla prossima!” Mi fece l’occhiolino.
“Grazie ancora. E buon viaggio!” 
Rimasi sola. Fissai la parete di fronte a me per molto tempo, fino a quando non scoppiai a piangere. Avevo mentito. Quando avevo vista il camion venirmi incontro, non avevo avuto alcuna paura di morire.
Ero rimasta indifferente. Vivere o morire. Non c’era differenza per me. 
Da quel momento decisi di cambiare: dovevo dare un senso alla mia vita.

Mi dimisero qualche giorno dopo. Andai dal parrucchiere, mi feci fare la frangetta, e decisi che quello sarebbe stato il primo passo della mia nuova vita. 
Ma dove avrei cominciato? Io non avevo nulla. 
Pensai e ripensai per ore, distesa sul mio letto. Ma non mi venne in mente niente. Non c’era nulla che avrebbe dato un senso alla mia vita, nulla. Ma allora? Allora tanto valeva essere morta schiacciata da quel camion. Ma non era successo. 
Qualunque cosa scandisse il corso degli eventi, Dio, Allah, Buddha, il destino, il Karma, scegliete voi, aveva deciso che per me non era arrivata la fine. Quindi, avrei dovuto sfruttare quel dono al meglio.
Poi alzai lo sguardo verso la mia scrivania e capii.
Possibile che noi, donne e uomini, siamo così sciocchi da affaticarci nel cercare qualcosa lontano da noi, quando basta girare lo sguardo per trovarla?
Mi alzai, sorridendo, e andai piano verso il mio piccolo altare. Presi la foto di Shannon, e poi una dei 30 seconds to mars tutti insieme, e la guardai.
Erano loro l’unica cosa che avevo. Li avrei dovuti rendere DAVVERO la mia vita. 
  
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