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Autore: crazyfred    24/03/2011    14 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
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When you crash in the clouds - capitolo 6





Capitolo 6

As you really are








soundtrack

Io amo il mio lavoro.
Non è una di quelle frasi che si dicono quando si è ai ferri corti con il proprio datore di lavoro e si devono stringere i denti, perché io lo amavo davvero.
Stare in mezzo a quei libri, percepire fragranze diverse da pagina a pagina, distinguere il profumo della carta nuova dall’odore forte ed acre di quella riciclata, mi dava la sensazione di essere in un mondo fatto per poche persone e di essere tra gli eletti. Conoscere tutti gli scaffali, gli autori e i testi che li riempivano mi faceva sentire veramente pieno e soddisfatto. Forse era inutile studiare all’università, visto che avevo trovato la mia realizzazione in mezzo a tutti quei volumi.
Tuttavia in un modo o nell’altro, da me ci si aspettava che prendessi in mano l’azienda di famiglia e, per quanto la cosa non mi esaltasse particolarmente, lo avrei fatto; non per compiacere mia madre, né tantomeno mio padre, il quale non sembrava peraltro ansioso all’idea di passarmi il testimone al timone della compagnia,  ma per portare a termine il mio ormai ben noto progetto di ultimare ciò che Michael, fu mio fratello, non era stato in grado di portare avanti.
Per quanto detestasse lavorare con mio padre, infatti, Michael teneva al nostro futuro, come lo chiamava lui: avrebbe solamente preferito fare tutto a tempo debito e poter avere almeno un minimo controllo sulla sua vita. Questo era quanto ci aveva lasciato scritto in mezzo appunto, accanto al suo corpo penzolante ed esanime.
Al momento però, essendo soddisfatto della mia condizione, cercavo di pensare il meno possibile al momento in cui avessi dovuto sedere al tavolo degli azionisti, puntando piuttosto a ricordare l’ordine preciso del ciclo dei Rougon-Macquart di Zolà.
Tanto perché il supplizio di avere lui e le sue chiacchiere in giro per casa non pareva essere già sufficiente, Aidan, il mio beneamato compagno di casa e di studi, era anche la mia condanna sul posto di lavoro. Certo, il nostro non era un lavoro da definirsi estenuante e, alla fine della giornata, ma anche molto prima, finivamo puntualmente per cazzeggiare bellamente in compagnia l’uno dell’altro, nascosti tra i vari scaffali, e puntualmente ripresi dal direttore della libreria.
Ma la cosa più bella in assoluto? La zona bar: quel genio del boss, infatti, s’era inventato una piccola area del negozio da adibire a zona caffè per clienti e non, dando la possibilità di poter leggere i propri acquisti già dentro il negozio, bevendo del buon caffè e mangiando delle ciambelle più che decenti. Di tanto in tanto vi organizzava anche degli eventi, come presentazioni di libri e letture di scrittori emergenti. Chapeau al capo per essere stato tanto brillante, arrivando per primo ad un’idea che è poi diventata un must per i maggiori book store d’America, naturalmente ricavandone introiti considerevoli.
Quell’area relax consentiva a noi dipendenti anche di rimorchiare, dalla ragazza alla ricerca dell’ultimo libro romantico e strappalacrime alla studentessa dal profilo più intellettuale e malamente sostenuto … e poi le consumazioni per lo staff erano gratis: cosa si può volere di più dalla vita?

Il Natale a New York era praticamente alla porte il 5 dicembre,contando che i maggior centri commerciali aprono mediamente le loro offerte speciali subito dopo Halloween ed il nostro negozio era in piena corsa al regalo, specialmente quando è domenica pomeriggio e il freddo pungente delle strade newyorkesi non permette il passeggio per le strade, ancora per poco spoglie dalla neve, aiutato anche dalla nuovissimo menù di dolci e bevande a prezzi vantaggiosi che stavamo pubblicizzando ormai da due mesi.
Il nostro compito in quella bolgia, quindi, non era solo quello di sistemare i libri, stare alla cassa o, al limite, consigliare l’acquirente ma anche fare la guardia ad eventuali furti.
Io amo il mio lavoro. Lo amavo maggiormente in giorni di promozioni intense come quello, quando il marasma e il caos regnavano sovrani, ed io riuscivo a staccarmi di dosso quella piattola ambulante di Aidan.
Ed era proprio senza di lui che ero andato a fare pausa. La caffetteria era talmente affollata che non mi era possibile applicare la mia solita tecnica per aggirare la fila, la fiumana di gente era così pressante che Genny non poteva vedere, neanche da lontano, quelli che lei riteneva essere degli occhi magnetici ed un sorriso smagliante, che di solito mi consentivano un trattamento di favore; ma, siccome il cliente ha sempre ragione, il mio cartellino identificativo non aveva alcun valore pratico in termini di favoritismi. Di quel passo avrei fatto prima ad andare ad uno dei bar di Downtown.
Quando finalmente riuscii ad avere il mio cappuccino ed un muffin al cioccolato per fortuna appena sfornato capii che effettivamente l’impresa era appena cominciata. Non avendo lo stomaco fisiologicamente adatto a consumare quelle delizie nel nostro stanzino 2x2, puzzolente di scarpe e sudore anche a 40 gradi sotto zero, avrei dovuto trovare un buco per sedermi in quella babilonia. Esclusi i tavoli con le famiglie confusionarie e le vomitevoli coppiette di innamorati, mi fiondai lì dove avevo scorto un movimento sospetto: un mio simile, un nerd topo di biblioteca, che rispondeva al nome di Marc, habitué del nostro esercizio stava alzandosi per andare via dopo aver lasciato i bicchieroni dei suoi cinque caffè sul tavolo ed aver finito la copia dell’ultimo Stephen King acquistato quella stessa mattina. Presi una rincorsa da far impallidire Hussein Bolt e, con un movimento repentino ed elastico mi accomodai nella poltroncina che dava sulla strada mostrando tutto il mio compiacimento per l’impresa riuscita con uno sguardo a tratti strafottente, a tratti divertito, a chi era rimasto in piedi. Presi la mia Moleskine e vi tuffai il muso lasciando che la penna facesse scorrere rapidamente il suo inchiostro.
Era stato da sempre il regalo di Micheal per il mio compleanno e, quando se n’era andato, avevo continuato da me questa nostra piccola tradizione. Da allora avevo preso l’abitudine di usarla come fosse il mio punto di incontro con lui, una linea diretta con il paradiso … una voce così bella non poteva essere la colonna sonora per demoni ed anime dannate …
Alle volte non sapevo nemmeno io cosa gli raccontavo: la mia giornata, la cronaca di New York e del mondo, la mia depressione, ma era anche, e soprattutto, un modo per non impazzire o forse era già andato fuori di testa e non me ne ero reso ancora conto.
“Ehi” una voce femminile mi richiamò all’ordine “ il fatto che sei solo non ti permette di tenere un tavolo per sei tutto per te … voglio dire, questo posto è pieno e non cade il mondo se lasci sedere qualcuno …”
Un momento. Io conosco questa voce. Insolente un po’ roca. No non è possibile! Cosa verrebbe a fare lei qui?
Alzai lo sguardo verso la mia interlocutrice e trovai la persona che meno mi aspettavo, ma che più in cuor mio avevo sperato di vedere, almeno nelle ultime tre settimane. Eppure non era come la ricordavo, era un’altra delle sue mille facce; un’altra lei, quella a cui pochi, forse solo io qui a New York, avevano avuto modo di conoscere. Allison. Il suo volto pulito, senza quella orribile matita carbone a nascondere i suo bellissimi occhi verdi, ora davvero brillanti, a darle quell’aria dura e vagamente volgare, ed i capelli ordinatamente raccolti in un semplice chignon da ballerina.
Sembrava una di quelle ragazzine appena uscite dalla lezione di danza classica, corpicino minuto, a confermare i miei sospetti sulla sua reale età, e tutta felpata pulita e precisa, rigorose anche nell’abbigliamento.
Mi domandai quanti altri lati nascosti possedesse quella ragazza e quanti avrebbe rivelato o tenuti nascosti.
Cercai di farle notare quanto fossi felice di vederla dopo che mi ava cacciato da casa sua ed io senza protestare accusai il colpo e me andai strisciando con la cosa tra le gambe. Eppure guardandola attentamente notai che tra i due la più elettrizzata da quel nostro incontro/scontro fortuito fosse proprio lei. Ma non era stata proprio lei a cacciarmi dal suo appartamento?
“Che … che ci fai qui?” chiesi balbettante tornando a percepire quel disagio e quell’imbarazzo che avevo sentito ad averla al mio fianco la prima volta, nonostante tra noi ci fosse una certa distanza di sicurezza, imposta dal tavolo di un bar, e fossimo circostanti da una folla chiassosa ma decisamente diversa da quella che frequentava il suo locale.
“Ho un po’ di tempo libero” rispose lei quieta “così ho deciso di farmi un giro per la New York bene … a dir la verità pensavo di trovare Aidan qui, non te. Così mi aveva detto Veronica”.
Aidan? Cosa poteva mai volere lei da Aidan. Sapevo che i ragazzi erano tornati in quel locale almeno un paio di volta da quella sera ed io mi ero costantemente  e categoricamente rifiutato di metterci di nuovo piede, quasi a voler prima avere una piano di guerra e poi agire e sferrare l’attacco finale contro le forze del male. Allo stesso tempo però conoscevo bene le serate di Aidan perché, pur non volendo, lo avevo sentito lamentarsi del fatto che nemmeno in quella bettola fosse riuscito a spuntarla con qualcuna. Ergo, non poteva essere una questione di lavoro. Altri giri loschi? Me ne sarei certamente accorto se avesse cominciato a fare uso di sostanze illegali … anche perché probabilmente non sarebbe tornato a casa, ma sarei dovuto andare a cercarlo per ospedali ed obitori.
“Aidan?!” chiesi, rimanendo sul vago, senza mostrare la mia perplessità a riguardo “effettivamente anche lui lavora qui. Se vuoi lo chiamo”. Cercai di essere conciliante, anche se non mi andava a genio che si vedesse con lui; primo, perché a lui avevo messo in chiaro le cose e non tolleravo che la sfruttasse e due, perché stupidamente la consideravo mia; a quale titolo, dovevo ancora scoprirlo.
“No” si affrettò a rispondere “non ce n’è bisogno. Lo cercavo solo in quanto tuo amico”. Come diceva Cartesio? Ah, sì, sogno o son desto?. Per quanto mi sentissi inorgoglito dalla sua affermazione dovevo rimanere con i piedi per terra e non farle capire quanto fossi felice che, per qualche motivo, mi stesse cercando.
“Ah sì?” chiesi, fintamente sorpreso. “Sì” rispose affermativamente, abbassando lo sguardo, come se avesse timore di una tale rivelazione. Avrei voluto tenderle la mano, farle capire che le ero vicino e che con me non aveva nulla da temere. Ma capii le sue paure, soprattutto alla luce dei nostri trascorsi; ancor di più, doveva capire che non ce l’avevo con lei per come ci eravamo salutati l’ultima volta: certo c’ero rimasto male, ma non potevo biasimarla, non si può pretendere di essere sconosciuti ed essere accolti da subito con un tappeto rosso e grandi onori, il rispetto e la fiducia devono essere guadagnati a piccoli passi e gesti. Ed era proprio quello che avevo intenzione di fare, mosso a nuova speranza da quell’incontro.
“Avevo bisogno di parlarti e stavo aspettando solo di avere del tempo a disposizione per venire a cercarti. Devo chiederti scusa … per come mi sono comportata quella mattina a casa mia …” si era fatta piccola nel suo posto a sedere, finendo quasi per sotterrarsi letteralmente dalla vergogna per quanto aveva fatto. Ma non era stato commesso nessun delitto e, per quanto potessi essermela presa allora, era passato un mese ed avevo smaltito la rabbia, o qualsiasi cosa fosse, e dovevo farle capire che non c’era nulla da perdonarle. Ma non mi guardava, restava fissa con lo sguardo verso il basso, probabilmente ponendo la sua attenzione verso le mani che non la smetteva di torturare, almeno da quanto si poteva distinguere dal movimento scomposto delle sue braccia.
Raccolsi quelle poche briciole di coraggio e sfrontatezza che avevo e le incanalai tutte verso il mio braccio, tendendolo verso di lei. “Allison” la chiamai, ma senza successo “Allison!”. Finalmente mi rivolse lo sguardo e notai quanta sofferenza e speranza vi custodisse, ed erano dilatati ma alteri, colmi di lacrime che aveva ricacciato indietro e che si erano fossilizzate, appesantendo il suo cuore di rancore e malinconia. Chiedeva aiuto e tutta la comprensione che sapeva avevo da offrile, essendomi già proposto una volta. “Non è successo niente, io non ce l’ho con te, capito?”.
Annuì, tirando su col naso e imponendo alle sue lacrime di tornarsene da dove erano venute per l’ennesima volta: mi chiedevo per quanto tempo avrebbe retto nella strenua ostinazione di dover modulare e tenere a bada le sue emozioni. Timidamente prese la mia mano con le piccole mani, con un gesto che mi ricordava la dolcezza disarmante dell’infanzia, quando i bambini stringono le grandi mani adulte con le loro dita minute, scoprendo la novità di quel contatto così speciale. Il mio palmo avrebbe voluto spingersi ben oltre la vicinanza scontata di una stretta di mano: correre su per il suo volto ed accarezzarlo, rinvigorire le sue spalle, scuotendola da un torpore che l’aveva resa schiava di uomini senza scrupoli. Una cosa avevo capito con lei: aveva bisogno dei suoi tempi, probabilmente aveva bisogno di scoprire di nuovo il mondo e di riprendere confidenza con le persone; sapevo che ci sarebbero stati momenti in cui avrebbe mollato la presa, in cui avrei dovuto correrle di nuovo incontro, ma aveva accettato la mia mano e non avevo intenzione di tirarmi indietro. Quella non era una presa come un’altra, era l’attracco ad un porto sicuro, l’inizio di un qualcosa di importante, per lei e per me. Perché avevo di nuovo una maratona in cui valesse la pena di gareggiare, della quale non conoscevo il tragitto, ma di sicuro sapevo la destinazione, e non era l’infinito.



Michael, fratello mio, non avertene a male se do la precedenza a lei, piuttosto che a te. Ti voglio bene e non ti dimenticherò mai, ma lei è viva, ed io sono vivo con lei, ed è l’unico modo che conosco al momento per distruggere i miei fantasmi. Ti voglio bene e non ti dimenticherò mai, ma tu sei uno di questi ed io devo vivere. Se non per me, almeno per coloro che a me ci tengono. Forse non tu non la vedevi così, ma c’è un mondo di persone per cui vale la pena di vivere e non è per quei due o tre bastardi che ci mettono i bastoni tra le ruote che dobbiamo smettere di combattere per ciò in cui teniamo. Io vado a vivere Michael, ci sentiamo quando avrò buone nuove.



Questa fu l’ultima nota scritta sul mio diario prima di accorgermi che si era ormai fatto tardi e la mia pausa era scaduta da almeno 10 minuti; dovevo solo ringraziare la folla di quella domenica se il direttore non si era ancora fatto vivo per tirarmi le orecchie e trascinarmi al lavoro a suon di pedate. Allison era rimasta al mio fianco, silenziosa, bevendo il suo caffè e mangiando una ciambellina. Io nemmeno mi ero comportato tanto diversamente: dopo il nostro simil chiarimento avevo avuto poco da dirle e non volevo compromettere il nostro rapporto, già di per sé abbastanza precario, con frasi da mordersi la lingua a sangue come avevo fatto in precedenza. Per cui, aspettando un buon argomento di conversazione che non sarebbe comunque piovuto dal cielo mentre noi restavamo in silenzio, io mi immersi di nuovo nella scrittura e lei rimase pensierosa di fronte a me. Rendendomi conto dell’orario di break altamente sforato, mi alzai dal tavolo radunando quelle quattro cianfrusaglie che avevo portato con me: “Devo tornare al lavoro” annunciai, esagerando forse con un tono di voce avvilito “magari potremmo rivederci qui nei prossimi giorni se ti fa piacere” proposi “che ne dici?”.
“Posso venire con te in libreria ora?” mi supplicò “faccio un giro tra gli scaffali e non ti do fastidio, prometto!!!”. Era così strano sentirla parlare a quel modo, non la ricordavo così docile e remissiva; mi ricordava la piccola Caroline, quando aveva voglia di stare con me ed io dovevo studiare e mi supplicava affinché al facessi restare con me: c’era lo stesso tono zuccherino nella voce, lo stesso sguardo adulatore ed ammaliatore, ma senza quella malizia che la contraddistingueva. Finalmente si era rivelata per quello che era veramente, una ragazzina cresciuta per forza, a cui le miserie del mondo avevano reso la bocca amara e che manteneva dentro di sé la voglia di tornare a giocare; bastava solo che qualcuno le mostrasse dove fosse il parco giochi.
Era difficile non volerle bene e non sorridere davanti a quel visino contorto in una smorfia di implorazione, che divertiva anche lei; se avesse aggiunto un “ti prego ti prego ti prego!!!” cantilenando, l’avrei ribattezzata Caroline due - la vendetta, probabilmente era quello il motivo che mi aveva spinto come una calamita verso di lei: un’attrazione a pelle, un vincolo quasi di sangue.
Scoppiai in una risata che lasciava intendere una risposta affermativa e mi diressi verso la mia area di libreria, lasciando di mancia alla cameriera che puliva i tavoli un misero occhiolino. Non ero sicuro di conoscerla, ma Pat alla cassa della libreria garantiva che tutte lì al bar mi sbavassero dietro, ragion per cui avevo ottenuto il massimo risultato con il minimo sforzo.
“Ma fai sempre così con le donne?” mi chiese Allison mentre mi seguiva su per le scale che portavano alla sezione Letteratura Europea. “Così come?” domandai. “Lo stronzo. Le illudi con uno sguardo o un sorriso … magari lei ti ha anche lasciato il numero da qualche parte … quando invece ci scommetto quello che vuoi che tu non sai nemmeno il suo nome!” “Beh, ci hai preso” risposi onestamente “ma non per questo sono uno stronzo. Pensa alla gente che frequenti tu piuttosto. Se io sono stronzo, cosa sono loro?” Ecco che me ne uscivo con un’altra delle mie cazzate infelici, roba da prendermi a calci e rendermi neutro definitivamente: aveva ragione lei, ero uno stronzo. Ma, sorprendendomi piacevolmente non si arrabbiò; probabilmente era alticcia, o semplicemente comprese che nella mia espressione non c’era niente di offensivo nei suoi confronti.
“Quelli sono maiali, è leggermente diverso … comunque, e così tu lavori qui?” “Sì. Letteratura europea, la mia preferita”. Andavo tremendamente fiero della mia postazione, soprattutto quando qualcuno mi chiedeva qualche consiglio ed io potevo sfoderare tutta la mia conoscenza a riguardo, oppure quando dovevo sfoderare gli accenti stranieri per pronunciare i titoli dei libri; non parlavo né francese né tedesco, anche se il mio curriculum scolastico a quanto pare riporta ben 8 anni passati a studiarli, ma il mio accento, enfatizzato a dovere, faceva sempre effetto.
“Anche a me piace, Baudelaire è il mio poeta preferito. Per la prosa invece non ho nessuno in particolare, forse Oscar Wilde …”
“Davvero?” chiesi, sinceramente sorpreso “non ti facevo una lettrice così impegnata!” “Quando ancora andavo al liceo in letteratura avevo tutte A e non dovevo impegnarmi particolarmente … li vedi questi libri?” mi disse, indicando la mensola dedicata alla Austen e alla Bronte “letti tutti dagli 11 ai 14 anni. E questo” disse prendendo in mano il tomone del Signore degli Anelli di Tolkien “fatto fuori a 13 anni in 3 mesi. Ero una delle frequentatrici più assidue della biblioteca della Contea ad Indianapolis”. C’era una punta d’orgoglio nelle sue parole, un vanto neanche troppo nascosto per aver fatto qualcosa di buono e normale nella sua vita. Si sentiva bene in mezzo a quegli scaffali e faceva avanti ed indietro tra le pile di libri come un bimbo dentro un negozio di giocattoli. Conoscevo una sola persona al mondo con la stessa febbrile passione per i libri: me stesso; non era quindi così difficile per me capirla ed ero ben lieto di aver trovato un punto comune da cui partire alla scoperta reciproca.
Eppure c’era ancora qualcosa che non andava, una malinconia di fondo che persisteva. Si fermò quando vide un libro in particolare: lo prese in mano ed iniziò a sfogliarlo, accarezzandolo pagina per pagina, divorando le parole ad una ad una, come si fa sempre quando si cerca la propria citazione preferita da un testo. Erano i Promessi Sposi, dell’italiano Manzoni. “Questo è stato l’ultimo libro che ho letto … ma non l’ho mai finito” confessò con quella ormai tipica punta di inquietudine mista a rabbia che caratterizzava ogni cosa dicesse “ricordo ancora l’ultima pagina che ho letto: Addio monti sorgenti dall'acque … Non ho mai saputo se Renzo è riuscito a sposare Lucia”.
Ebbi quasi voglia di piangere per lei, che di lacrime non c’era verso che ne versasse. Aveva pronunciato a memoria quelle poche parole, trascinando con sé quella carica emotiva che il testo necessitava, come se fosse stata lei a dover addio alla sua casa, alla sua famiglia e dover voltare le spalle ai luoghi della sua infanzia e dei suoi affetti, lasciando che il dolore scavasse goccia a goccia dentro di lei. Forse aveva dovuto farlo davvero.
Mi avvicinai a lei cauto, capendo quanto personale fosse quel momento per lei. Ho sempre considerato sacro il rapporto tra un lettore ed il proprio libro, pensato che ogni pagina avesse il potere di racchiudere in sé tutte le emozioni ed i ricordi del momento, impreziositi da dettagli che il tempo abbellisce, rendendo il passato roseo alla nostra memoria. Probabilmente essendo stato l’ultimo, portava con sé ricordi poco piacevoli: non avevo idea di cosa avesse passato, né come era finita in quel giro poco rispettabile, ma certamente non era per divertimento che si era data a quella vita, lasciando famiglia e affetti. Eppure anche quel ricordo, potenzialmente doloroso, si era trasformato in un dolce souvenir.
Lasciai che le mie mani si fondessero lentamente con le sue, carezzando la loro pelle delicata e diafana, riscaldandole dal gelo che non erano ancora riuscite a smaltire. Chiusi il libro tra i nostri palmi ed attesi che alzasse lo sguardo verso di me. Quegli occhi mi parlavano di un mondo che con lei avevo conosciuto, fatto di miseria ed ignoranza, ma anche di uno che invece conoscevo bene, pieno di lussi e sprechi e che forse aveva conosciuto anche lei e di cui era stata privata.
“Tienilo” sussurrai, sorridendole “non c’è modo migliore per scoprire come va a finire un libro che leggerlo”
“Questa non è una biblioteca Tyler” affermò amareggiata “i libri non si possono prendere così. E sai benissimo che i soldi mi servono per ben altro”
Almeno qualcosa di lei ora la sapevo; non potevo dire di conoscerla quella sì che sarebbe stata una parola grossa ma era già u’inizio. Sapevo che adorava leggere, passione che evidentemente condividevamo e che con il suo nuovo lavoro aveva dovuto rinunciarvi, perché come giustamente dicevano i sempre pragmatici latini le parole volano, sono altre le cose che riempiono lo stomaco. Certo, non di solo pane vive l’uomo, qualcuno avrebbe potuto obiettare, ma che te ne fai di un libro quando stai morendo di stenti?! Ma si vedeva che quella rinuncia le costava parecchio, soprattutto ora che si trovava in quello che era il paradiso, per gente come noi, e forse per la prima volta si rendeva conto del male che aveva procurato a se stessa; non per quella rinuncia in sé, quanto piuttosto per essersi ridotta a quello stato, mentre oggi forse avrebbe potuto essere già al college o all’ultimo anno di liceo, a scattare foto con i compagni di una vita e a fare progetti per il futuro.
Ma aveva afferrato la mia mano, ed io ero il suo contatto nuovo con quel mondo che aveva perso, o forse non aveva mai conosciuto. Non saprei dire se sia un mondo perfetto, ma di sicuro migliore dell’inferno in cui già bruciava.
“E secondo te che ci sto a fare io qui? Vieni con me” le dissi trascinandola mano nella mano tra gli scaffali del quell’enorme store. La costrinsi ad attingere a quei ripiani e buttare dentro una piccola sporta di lino tutto quello che voleva: tra i mille benefici del lavorare in quel posto c’era anche lo sconto su tutti i volumi; della restante parte non me ne sarei accorto sin quando lo stipendio non fosse arrivato smezzato a fine mese. Ma succedeva così ogni mese, quindi niente drammi.
Così Allison fece incetta di volumi, dai classici alla contemporanea dai trattati filosofici alla narrativa per ragazzine. “Ho un po’ di arretrati” si giustificò, arrossendo alla mia faccia attonita davanti ai 30 libri che aveva scelto “ed io sono una lettrice incallita, non smetto fin quando non leggo la parola fine”. A quanto pareva, avevamo un’altra cosa in comune: non conoscevamo le mezze misure.
Mentre per tutte quelle persone che gironzolavano distratte era solo l’ennesimo pomeriggio di pioggia e noia a New York, per lei sembrava essere davvero la vigilia di Natale.
“Però poi me li presti … anzi” le proposi, quando passai alle casse per farmeli addebitare “perché non vieni qui a leggerli? Ti prendi un caffè e quando sono in pausa ci facciamo una chiacchierata …”
“Non so se posso …”
Eccola di nuovo che si tirava indietro; ma io imparo in fretta, dispettosa e diffidente Allison, e so come affrontarti. “Ma si che puoi, piccola come sei tra gli scaffali ti nascondi benissimo e di norma durante la settimana posso concedermi molte più pause … e non costringermi a passarle tutte con Aidan, ti prego! E poi scusa” le domandai “non avevi detto di avere qualche giorno libero?”
“Sì” confermò, quasi stupita che lo ricordassi, o che fossi stato anche ad ascoltarla; “sì” rispose forse più a sé stessa, persuadendosi probabilmente di star facendo la cosa giusta “direi che si può fare. Però ora è meglio che vada. Non conosco bene questa zona di New York ed è meglio che mi muova quando c’è ancora parecchia gente in giro …”
“Suona strano” la canzonai “detto da una che se ne va in giro per il Bronx tutta sola”. Per fortuna rise anche lei.
“Ma mica per paura scemo” mi rimproverò divertita, dandomi una botta sulla spalla. Cavoli se faceva male, menava davvero forte, dovevo ricordarmi di non provocarla mai “è solo perché non so orientarmi bene”.
Fu a quelle parole che mi si illuminò la lampadina e all’omino che ogni tanto di ricordava di abitare nel mio cervello venne un’idea potenzialmente geniale, se lei avesse reagito bene: questa era la vera incognita. Guardai l’orologio e mi accorsi che erano ormai trascorse qausi due ore dalla mia pausa caffè e che tra vreve avremmo lasciato la libreria ai ragazzi dei turno serale.
“Ascolta, se mi aspetti tra una mezz’oretta finisco il mio turno e sono libero. Ci mangiamo qualcosa in un posticino carino dietro l’angolo e poi ti accompagno io a casa” le proposi “che ne dici?”
Aspettai la sua risposta con il fiato sospeso, come se da questa dipendesse la mia esistenza e quella del mondo intero; non avremmo interrotto di certo la nostra conoscenza, semmai avesse risposto con un no, non l’avrei mai permesso, ormai c’ero troppo dentro, ma certo sarebbe stato bel un colpo, considerando il nostro muto patto di aiuto ed amicizia che c’eravamo scambiati quel pomeriggio.
Lei sembrò presa in contropiede dal mio invito e rimase, credo, un attimo senza fiato. Anch’io mi resi conto in quel momento di essere rimasto a corto di ossigeno ma, per quanto mi sforzassi, non riuscivo a far ripartire la mia respirazione, almeno fin quando lei non mi avesse risposto.
La vidi prendere un grosso respiro ed i suoi muscoli facciali andarono a rilassarsi e comporsi in un’espressione serena “Sì, assolutamente”.






NOTE FINALI

Per la prima volta da quando ho iniziato questa storia non sono soddisfatta per nulla del mio lavoro. Forse avevo bisogno di più tempo, forse ho spero troppo tempo in discorsi inutili e ripetitivi.
Ditemi voi cosa ne pensate, perché ho bisogno di rivedere la mia scrittura e solo con il vostro aiuto posso farlo. Oggi però non voglio vedervi con musi tristi...Allison e Tyler si stanno dando una possibilità, si stanno rivelando l'un l'altro per cio che ... sono veramente...


à bientot


 Federica

   
 
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