Capitolo
secondo.
Lascia
che sia.
She is
standing right in front of me
Speaking
words of wisdom: let it be.
-
The
Beatles.
Avevo una ragazza, si
chiamava Sofia.
Stavamo insieme da
qualche settimana, e mi piaceva molto. Aveva i capelli neri, lunghi e lisci e
due occhi marroni bellissimi, che risaltavano particolarmente quando lei li
contornava con il trucco, cioè, praticamente sempre.
Era davvero bello
passare il tempo con lei: espansiva, vivace, non mi avrebbe mai deluso. Con i
miei amici non si trovava mai in imbarazzo, e credo fosse per questo che stava
molto simpatica anche a loro.
Quel giorno, prima di
iniziare il concerto, lei venne da me ad augurarmi la buona fortuna, ed io ero
talmente agitato che mentre cercavo di darle un bacio sulle labbra, mi scontrai
con il suo naso, facendola ridere.
« Dai, Riccardo,
andrai benissimo, già lo so! » mi disse e scappò via con le sue amiche a
cercare un posto all’interno dell’aula magna.
Era enorme quel
posto. L’avevo sempre adorato, perché aveva il pavimento inclinato verso il
basso, con una marea di posti a sedere. Mi sentivo sempre piccolo ad entrarci,
ma quel giorno, iniziando a preparare le mie cose al centro esatto della
stanza, più che piccolo cominciai a sentirmi davvero insignificante.
Mentre iniziava
l’affluire dei ragazzi delle varie classi, io mi agitavo sempre di più. Nicola
alla mia destra stava accordando il basso con aria svogliata, tremendamente
tranquillo. In tutto il tempo che lo conoscevo non ero mai riuscito a beccarlo
una volta che fosse una con un po’ di agitazione. Per questo un po’ lo
invidiavo, ad essere sincero: era sempre se stesso, e riusciva a controllare le
sue emozioni.
Il cantante invece,
Paolo, era a parlare con i professori, e si stava mordicchiando un labbro. Era
completamente l’opposto di Nicola, lui non era mai sicuro di se stesso,
l’emotività prendeva sempre il sopravvento sul suo cervello.
E poi c’ero io, la
via di mezzo. Io che, d’altro canto, quel giorno ero l’ansia fatta persona.
Non riuscivo nemmeno
ad accordare bene la mia Fender, anzi, proprio non ne ero capace. In quei
momenti di solito c’era Giacomo che mi tranquillizzava con le sue pessime
battute, ma quel giorno lui non c’era.
« Dammi » mi disse
una voce femminile alle mie spalle.
Mi girai, ed Elena
tendeva il braccio indicando la mia chitarra.
Spontaneamente la
strinsi ancora di più a me.
« Eh? No no, mi arrangio, sta pure tranquilla. Piuttosto, lì ci sono
le bacchette con cui puoi suonare » e gli indicai il paio di Vic Firth sopra
alla sedia della batteria.
La vidi scrutarle per
un attimo, poi le prese, con un gesto lentissimo. Sembrava quasi che ci stesse
parlando insieme grazie ad un contatto visivo. Si girò verso di me e mi scoprì
osservarla, al che arrossii molto e, per evitare di parlarci insieme, mi
sedetti sopra al mio amplificatore e continuai a strimpellare la chitarra
cercando di accordarla.
« Sei troppo agitato
» notò Elena, accucciandosi vicino a me.
« Ci tengo molto,
tutto qui » le risposi.
« Se vuoi te
l’accordo io ».
« No, grazie ». Non
riuscivo a capire bene il perché ma ancora diffidavo di quella ragazza.
« Come ti pare »
rispose alzando le spalle.
Dopo cinque/sei
minuti però mi ritrovai a doverle chiedere aiuto, con la coda tra le gambe.
« Sai suonare anche
la chitarra? » le chiesi, quando mi restituì
« Io sono una
batterista. Mio padre era un chitarrista e mi ha insegnato qualcosina; come per
esempio come accordarla. Ma non chiedermi altro, a parte le note e qualche
accordo qui e lì, mi perderei ». Sorrise.
« Grazie » mormorai
imbarazzato.
« Figurati. Ti fai
prendere sempre così dall’ansia? »
« Più o meno… Di
solito c’è Jack, con lui sono più a mio agio » le spiegai, accarezzando il
manico della chitarra.
« Ah, capisco. Beh,
non sono Giacomo, ma un consiglio te lo do comunque. Lasciati trascinare.
Lascia che sia la musica a comandare ».
La guardai
stupefatto, ma prima che potessi dire alcunché il preside della scuola prese
parola.
Persino Paolo era
pronto.
E quando le prime
note di Let it be iniziarono ad avvolgere l’intera sala, chiusi gli occhi e
sentii le parole di Elena risuonarmi nella mente.
Lascia che sia la musica a comandare… Lascia che sia la
musica…Lascia che sia… Let it be.
Finalmente anche
quella canzone aveva un senso.
Scoprii ben presto di
dovermi ricredere su Elena.
Era perfetta. Stava a tempo, mi sentivo bene come quando suonavo con Giacomo, ma
la sua musica era diversa.
Faceva qualcosa di
strano mentre suonava il charleston, non riuscivo ben a capire che cosa, ma era
come se stesse dando un colpo più leggero e in un tempo breve subito dopo al
colpo normale e standard che segnava il susseguirsi degli ottavi.
Non sapevo
spiegarmelo bene in realtà: il mio mondo era fatto di assolo, di corde
strimpellate, non di bacchette, piatti e tamburi.
Però c’era qualcosa
di speciale. Lei contribuiva a rendere la musica più vera, come se la sentisse
propria, come se fosse lei stessa parte integrante della canzone.
Mi girai più volte ad
osservarla, ma la vidi semplicemente intenta a suonare, con un sorriso un po’ triste, e gli
occhi – stavolta ne ero sicuro – tremendamente lucidi.
Una dopo l’altra le
canzoni si susseguirono, e non saprei dire quale venne meglio. Sbagliai qualche
nota, ma fui bravo a camuffare i miei errori, perciò non me ne preoccupai:
l’importante era non fermarsi. L’importante era continuare a suonare, cantare e
sorridere. L’importante era non cadere in panico.
Nient’altro
importava.
Nothing else matters…
Con le note di
quell’ultima canzone si concluse quel piccolo concerto.
Sentendo gli applausi
mischiati ad alcuni fischi di ammirazione mi risollevai e sorrisi, fiero.
Era quello che
desideravo per me, per la mia vita.
Mi girai per
ringraziare Elena. Era stato tutto così perfetto, proprio come avevo
desiderato, e solo grazie al suo aiuto. Ma prima che potessi anche solo vedere il
suo volto, mi passò davanti mentre fuggiva via, lontana, diretta verso la porta
d’uscita, ed un attimo dopo di lei non rimase nulla.
Quando mi era passata
vicino, l’avevo sentito chiaro e forte, inconfutabile, triste.
Un singhiozzo.
Non so per quale
motivo, ma poggiai la mia chitarra vicino al muro e la seguii.
Nel corridoio però
non c’era nessuno.
Mentre tornavo
all’aula magna, Sofia mi raggiunse e mi disse: « Ehi,
sei stato bravissimo, lo sapevo! »
« Grazie
cara » le risposi sfiorandole le labbra con un leggero bacio.
« Ma perché te ne sei
andato via in quel modo? »
« Eh, sai la ragazza
che ha sostituito Jack? »
« Sì ».
« È fuggita via appena
finito il concerto senza neanche lasciarmi il tempo di ringraziarla, volevo
vedere se riuscivo a beccarla in corridoio, ma evidentemente è già scappata da
qualche parte. Fa niente » dissi, scrollando le
spalle.
« Ah, forse aveva un
impegno! » mi rispose Sofia, quasi come se lo
ritenesse ovvio. « Forse ha un ragazzo che la aspettava… »
Pensai alla collanina
con la lettera D che avevo notato quella mattina.
« Sì, hai ragione ».
Per qualche strano
motivo però sentivo che non era così.
Insomma, perché quel
singhiozzo allora?
C’era qualcosa che
non quadrava bene in quella storia, ma decisi di lasciar perdere.
« Vieni a pranzo con
me, Paolo e Luca? Pensavamo di restare qui a scuola a mangiare un boccone, e
poi andare a fare un giro nel negozio di dischi che c’è in centro » dissi a Sofia.
« Volentieri. Aspetta, avviso Maria che vengo con voi allora. Aspettami al
bar » disse prima di scomparire tra la folla.
Ritornai con i
pensieri ad Elena.
Chi era? Chi era D?
Cos’è che faceva col charleston? Ma soprattutto, perché aveva singhiozzato?
Quel pianto, quasi
sussurrato, e la sua esile figura che spariva dietro la porta di ingresso mi
aveva mandato il cervello in tilt.
{ Spazio HarryJo.
Cercando di pubblicare un capitolo a
settimana, eccomi di nuovo qui!
Allora, che ne dite? Sono riuscita ad
incuriosirvi almeno un po’?
Spero tanto di sì. Fatemi sapere cosa ne
pensate del capitolo con una recensione, se vi va.
Ah, devo ringraziarvi, siete davvero tanti
già adesso che mi recensite/seguite/ricordate/preferite.
*Erica si inchina onorata*
Grazie mille per tutto
ragazzi, a presto!
Erica