Film > The Phantom of the Opera
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Autore: BigMistake    26/03/2011    1 recensioni
Dal prologo:«Sapete Colas, mia madre mi diceva sempre di aver paura dei vivi non dei morti!» le labbra truccate si distorsero in un sorriso sadico. «Non temo i fantasmi!»
Ispirato al musical cinematografico del 2004: Mentre si consuma il dramma del Fantasma dell'Opera la Parigi del 1870 sta cambiando. Gli ideali della Rivoluzione sembrano essersi dispersi, i ceti medi vanno via via scomparendo mentre la borghesia ed i nobili si preoccupano solo delle proprie tasche. Gli assetti della società mutano in maniera drastica, vecchie fazioni amiche si trovano su fronti diammetralmente opposti. La Guerra incombe sulla Francia con la sua scia di morti innocenti e corpi straziati, viziando il giudizio del popolo sull'Imperatore e decretandone il declino. Nell'ombra i vecchi giochi di potere e politica continuano a muovere i fili dei propri burattini. Questo è lo scenario mentre l'Opera Garnier è al rogo. Qualcuno osserva la scena, attende risposte da tempo. Ci sono mostri mascherati da Angeli, Angeli caduti che cercano di rialzarsi, ali strappate... Ed al Fantasma dell'Opera non resterà che adeguarsi al mondo che l'aveva rifiutato ...
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Christine Daaé, Erik/The Phantom, Madame Giry, Nuovo personaggio, Raoul De Chagny
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Lumière Noire - Deux anges tombés'
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Note dell'autrice extra: Cof! Cof! No, non è un miraggio se ve lo state chiedendo ... sono tornata. Il ritardo è dovuto ad una grave malattia detta morte del computer con conseguente ricerca dei back up dei miei appunti ecc, salvataggio dei capitoli precedenti e successiva sistemazione degli stessi. Avevo scritto anche dei capitoli extra che forse riscriverò in maniera tutta diversa (a meno che non riesco a smontare l'hard disk per tempo). Mi rendo conto che il tempo trascorso vi può aver decisamente scandalizzato (in tema vcon il prox capitolo) però vorrei aiutarvi con un piccolo suntino delle puntate precedenti:

Dopo due giorni dal rogo dell'Opera di Parigi, Erik torna alle macerie del suo teatro dove viene catturato da due loschi figuri, una donna, Malice, ed un uomo, Colas. Entrambi appartengono ad una polizia segreta chiamata La Surete e vogliono coinvolgerlo nella vita politica di Parigi facendo leva sulla sua rivalità con i de Chagny. Infatti Philippe, fratello maggiore di Raoul, sembra sia coinvolto nei complotti imperiali per bloccare l'ascesa della Commune.

Erik si troverà a dover rivaleggiare con una personalità molto simile alla sua impersonificata in Malice. Infatti la mercenaria assassina inizierà con lui un viaggio alla riscoperta di sé stessi ceercando di primeggiare sull'altro, finendo poi in un coinvolgemento sentimentale turbato e poco chiaro fina dall'inizio, soprattutto perchè il fantasma di Christine sembra non voler abbandonare la testa del Fantasma.

Non aiuta la permanenza della giovane cantante alla villa dei de Chagny e la successiva amicizia con Constance - la borghese padrona del vigneto limitrofo alla proprietà del conte de Chagny-, che altri non è Malice.

Penso di aver detto più o meno tutto.

Spero che sia una sorpresa gradita.

Un bacione ci vediamo in fondo.

 

CHAPITRE TREIZE: Le froid de la mémoire. 

 

Se ne stava immobile di fronte a quella porta della quale temeva sempre la risposta, attendendo che quell’attimo infinito passasse incolume. Madame Bonnet le aveva detto di avvertire monsieur Le Masquet e quando aveva provato ad opporsi, il suo sguardo gelido e il suo silenzioso rimprovero le aveva praticamente tagliato l’anima in due parti nette.

Era un evidente, no.

Il pugno esitò. Il violino si evolveva in una sublime catartica opera che da quella stanza espandeva tutta la sua dirompente forza, la sua rabbia, la sua frustrazione.

Alzò di nuovo il pugno con un rinnovato coraggio prima che il tempo concesso dall’esigua pazienza della sua governante si esaurisse miseramente.

Batté tre volte timidamente. Le note sovrastavano la sua presenza, quasi non fosse mai esistita, invadenti, prorompenti come un’onda grossa del mare in tempesta.

Batté di nuovo, con più energia quasi la prima volta fosse stata l’iniziale overture.

Un rumore sordo, secco di silenzio che tagliò l’aria attorno alla piccola ed esile figuretta della ragazza.

Un soffio gelido che le fece raffreddare il sangue e le ossa.

Attendeva un invito, un qualcosa, una voce calda e suadente che sapeva essere terrificante nella sua bellezza irretente.

Mai fare un patto con il Diavolo, subdolo ed infido rinnegatore di Dio.

Vuole sempre qualcosa in cambio. Non lasciare che ti abbindoli con il Cavall Bernat1.

Invece le risposero dei passi, calmi ed eleganti che si avvicinavano calpestando il suolo con indefinito ritmo.

La porta si spalancò quasi di scatto, improvvisamente con la sorpresa che l’atterriva nel cuore.

«Cosa volete?»  interromperlo nei suoi deliri artistici non era auspicabile, benché meno in quell’istante di tripudio delle sue emozioni. Si chiudeva su di lei con quegl’occhi imperscrutabili, ogni cosa parve tremare contro la sua ombra che avanzava minacciosa nel corridoio. La voce adirata, contrita nello sforzo di non urlare.

«Perdonatemi señor!» rispose titubante ed incerta, temendo che ogni sua parola potesse aizzare il fuoco che vedeva ardere nei suoi pallidi occhi, sfiancati dalle molte ore di fronte a fogli, carte ed inchiostro. «ElSeñor Saint - Simon chiede a che pu …»

Non le fece nemmeno finire la frase, la porta ritornò al suo posto dirompendo nel silenzio con un contraccolpo fortissimo al quale Pilar sembrò cedere barcollando sulle proprie gambe.

Ricorda è solo un uomo …

Sì, solo un uomo che amava la musica, che però terrorizzava il cuore di una giovane ingenua preda delle superstizioni. Non era mai stato molto più che scostante, quasi impercettibile con la sua presenza in casa, mai l’aveva offesa direttamente,  ma la sua maschera, quell’inquietante mezzo volto bianco, le incuteva una paura infantile che riusciva a malapena a spiegarsi. Una diffidenza naturale che nacque tra le braccia della madre nella notte, le raccontava di un’antica leggenda della lontana Catalogna.

In terra straniera fredda e piovigginosa si sentiva indifesa.

Avrebbe solo voluto tornarsene ai suoi compiti: spazzare, cucinare, pulire la biancheria. Le sue mansioni e poche altr,e che lei diligentemente svolgeva con operosità ogni giorno sotto lo sguardo arcigno di Madame Bonnet.

Non c’era errore a cui concedersi sotto la sua custodia, aveva visto un’altra cameriera licenziata per aver urtato un tavolinetto con la scopa e sfregiato il delicato legno.

Madamoiselle Álvarez, esigo la massima solerzia quando impartisco un ordine.

Non avrebbe ritentato la sorte e per quanto gli stesse a cuore il suo lavoro, in quel caso decise che il rimbrotto di Madame Bonnet sarebbe stato il male minore, senza realmente accorgersi che orecchie argute erano tese.

Orecchie intente nell’ascoltare i leggeri, timorosi piccoli passi della cameriera allontanarsi.

E lui? Avrebbe potuto ignorare il richiamo della domestica, avrebbe potuto.

Non gli era mai interessato realmente cosa gli stesse accadendo attorno mentre componeva, eppure si era concesso una pausa per risponderle, non lasciando incolume la povera giovane ragazza dalla sua mostruosità.

Riprese l’archetto e il violino e li osservò per lunghissimi istanti, quasi con dolore, seduto a fronte della scultorea scrivania invasa da spartiti disordinati e corretti in più punti.

Lui non aveva mai avuto bisogno di correggere.

Lui non si fermava mai.

Nella sua vita non ricordava di essersi mai concesso il privilegio di interrompere il flusso del fiume in piena della sua creatività, persino il bisogno di mangiare o dormire ricadevano nel dimenticatoio quando la musica prendeva vita nella sua mente.

La musica, il suo unico nutrimento e il suo riposo nella valle desolata immersa nella solitudine di una grotta umida.

Stava forse rinnegando anche la sua unica e vera compagna? La sua aria, il suo respiro, colei che unica gli permetteva di sopravvivere alla magra esistenza a cui era destinato, stava per divenire qualcosa di deleterio?

La sua musica che si divertiva a sfiancarlo, che irrompeva nella sua mente come il turbinio dai mille volti e facce che percorrevano il suo stesso sentiero. Quello stesso vortice di persone, parole, gente ora si era mutato in uno strano senso univoco in cui comparve solo ed esclusivamente un viso.

Aveva bisogno di lei, la sua musa, il suo Angelo della musica.

La sua devozione, la sua arte, ogni suo piccolo alito di vita era dedicato al suo Angelo.

Non l’avrebbe più tradita.

L’aveva rivista: un debole sguardo fuori della finestra e lei era lì all’ingresso principale della casa in cui era ospitato, rivestita di un abito troppo sfarzoso ed articolato per i suoi gusti così genuini e raffinati. Probabilmente un dono che non aveva saputo rifiutare, magari del damerino ingessato.

Così vicina eppure così lontana.

I piedi divennero pietra, i suoi arti le colonne edificate di un antico tempio pagano dove ogni parte del suo corpo era sacrificato all’altare di quello che un tempo avrebbe chiamato una divinazione.

No, non doveva tornare ad allora, ma ancora più indietro.

Doveva pensare a lei, solo e soltanto a lei.

All’ultima volta che sul suo viso aveva visto la tenerezza e l’indulgenza, il loro ultimo istante come Maestro e Allieva.

Lei  bellissima e fragile, avanzava travolta dal desiderio di superare il punto di non ritorno, gli occhi caldi ottenebrati dalla presenza della loro musica che danzava assieme alle gonne scure delle ballerine. La sua pelle di seta sotto le sue dita, il calore del suo corpo schiacciato contro il proprio0, l’autentica sensazione di averla finalmente per sé nella notte infinita nel tenero abbraccio della sua musica. Davanti a loro il pubblico nel critico silenzio dell’attesa, giaceva inerme come un gigante addormentato o incantato dallo splendore delle loro voci.

La sua Aminta.

D’un tratto, tra quelle persone, in uno dei palchi più vicini al proscenio, due scintille brillarono buie. Occhi scuri ed intensi, occhi sconvolgenti, inebrianti, freddi come il ghiaccio e caldi come una mattinata estiva.

Ed era sola.

Il pubblico scomparve, la gente il mormorio tutto svanito come la notte in cui l’incontrò per la prima volta.

Sentì persino sfuggirgli vellutato il corpo della sua Christine.

C’erano solo gli occhi di quella donna elegante ,la cui figura diventava via via più chiara.

La bellezza sconvolgente di uno sguardo, lineamenti dolci e ingannevoli, un vestito rosso di seta che scivolava su curve morbide, piccoli guanti neri ad adornarle le mani, una lacrima che le disegnava il viso con una scia splendente.

C’era lei, sofferente a riversare il suo dolore con le mani avvinghiate alla balaustra.

Illuminata dalle fiamme sempre più alte, ergendo un muro invalicabile oltre il quale anche lei scomparve, mangiata dalle stesse lingue di fuoco che lambivano il suo teatro.

Non riesci a sostituire la sua immagine con quella di Christine, vero Erik?

No. Non si sarebbe fatto prendere da una nuova ossessione, il gioco tremendo di un’utopia sentimentale non avrebbe lasciato che il suo indomabile bisogno prendesse il sopravvento. Doveva smettere e subito.

Ma tutti i suoi tentativi stavano fallendo miseramente sotto un cumulo di macerie.

Maledette donne.

Sembravano infettarlo con il loro infido veleno, entrare nella sua mente governando da regine indiscusse la sua follia, la pazzia che ora gli permetteva di sentire la stoffa dei suoi vestiti impregnati del suo profumo anche se non li aveva toccati, attraversati dal calore delle sue piccole mani, bruciare intensamente percorrendo il dosso delle spalle fin oltre il petto, il collo, dolcemente, provando un piacere ingovernabile.

Un limite, un confine, sempre più sottile, sempre più inesistente, la voglia irrefrenabile di cancellare il passato pur di continuare a godere di quell’attimo di pace sotto la sapiente manovra della seduzione che solcava gli avvallamenti del suo corpo, insinuandosi oltre il bavero della giacca e del panciotto appena un po’ ad ogni leggera passata. Solo per la sua natura effimera poteva permettersi di abbandonare completamente ogni inbizione sotto le sue attenzioni, attraverso quel suo modo di fare spavaldo, coraggioso nell'approcciarsi ad un mostro come lui, un mostro che non conosceva umanità se non dalle sue mani, gli occhi soavemente socchiusi nell’estasi che quel tocco gli sapeva dare, assieme all’agre piacere di una mera illusione.

Lucia.

Lei, la sua Lucia, non era con Erik in quella stanza. Lontana molto più che con le distanze fisiche, si stava preparando all'ennesimo colpo di scena.

Doveva dimenticarla. Doveva soppiantare quell'insulsa, debole, inebriante fantasia.

Il suo corpo sarebbe stato presto di un altro, la sua voce subdola insinuata in un’altra mente.

È per questa ragione che la stai odiando così tanto, per questo vorresti che tutta questa illusione fosse vera.

Sicuro che sia odio?

Impazziva. Impazziva, nel sapere che presto sarebbe stata nelle sue mani.

Impazziva nel pensare al conte in sua dolce compagnia tra le bianche stoffe dei suoi appartamenti, approfittarsi di lei prendere il suo corpo come un oggetto, una custodia vuota di una donna che nemmeno esisteva.

L’avrebbe chiamata Constance.

Come lui l’aveva chiamata Christine.

Si era imposto di non curarsi di quel destino, quel compito a cui sarebbe stata destinata quella notte quando, alla fine di tutto, si sarebbe concessa al lume di una candela, fingere addirittura che non  fosse mai esistita.

Fingere che non gl’importasse di chi sarebbe stata.

Negare dove sarebbe andata.

Dimenticare i propri errori.

La odi come odi me? Come odi te?

Cominci a capire vero, Erik?

Evocare chi fosse lui, il Fantasma dell’Opera.

Rammentare che lui non doveva niente a nessuno, che la sua vita era fondata sulla privazione della normalità, della possibilità di amare e di essere amato per l’errato disegno del suo volto in parte storpiato.

Ricordare che quelle mani erano solo il frutto della sua immaginazione, che le sensazioni, il sentore del tiepido fiato che si stava infrangendo contro la pelle del proprio collo fosse il parto della sua mente malata e logorata.

Un’illusione, un sogno, un desiderio, che non aveva voglia di far terminare e uccider al tempo stesso.

Perché non riesco a svegliarmi?

Non c’era nessuno, nessuno avrebbe osato entrare ed avvicinarsi a lui.

Nessuno tranne l’unica persona che non nutriva alcun timore nei suoi confronti.

«Non dovresti spaventare così i domestici …»

Nessun frutto della sua fervida fantasia.

Nessun gioco goliardico di qualcuno più in alto.

Quelle mani, quella voce, il calore emanato dal suo corpo era concreto.

Si alzò di scatto quasi la investì con le sue movenze, affaticato e sconquassato dalla realtà con cui era penetrata nel suo mondo.

Si alzò e la vide: i capelli sciolti, il corpetto scuro che strizzava il suo busto in bella vista senza vergogna, il viso pulito, lo sguardo smaliziato ed inconfondibile della serpe capace di trascinarlo ovunque lei avesse voluto con poche semplici attenzioni.

Non l’aveva sentita arrivare, non sapeva nemmeno come avesse potuto farlo dopo che aveva chiuso a chiave la porta dall’interno.

La odi ancora, Erik?

La odi perché è entrata ed ha sconvolto le tue certezze?

La odi perché ti spiazza, ti pone in difficoltà, la odi perché è libera e non la puoi controllare?

«Come sei entrata?»

«Ho attraversato le pareti …» plateale: i suoi gesti, la battuta detta con enfasi, la sua ironia velata che lo avevano provocato fino a farlo ruggire di fronte a quella incredibile farsa. «Mon Ami, so essere silenziosa quanto e come voglio e poi dimostri di non conoscere così bene la nostra provvisoria casa. Che peccato …»

Davanti a lui non vi era la Lucia conosciuta nel cuore della notte.

La giostra aveva ripreso a girare e lei si era cambiata d’abito per interpretare l’arcigna assassina.

Era di nuovo Malice con quel suo sguardo accattivante, il sorriso sghembo e l’aria sicura di chi ha il coltello a suo favore.

Da troppo non si erano scontrati con il loro perpetuo gioco, da troppo si stavano abbandonando l’un con l’altra per la paura di rivedere il loro dolore accrescere assieme alle consapevolezze di una vita vissuta inutilmente.

Abbastanza da non sentirsi in grado di controllare nemmeno la situazione, abbastanza che Erik non riuscisse a fermarla se non con qualche secondo di ritardo dallo studiare con sufficienza i suoi spartiti, prenderli fra le mani ed aggiungere confusione al caos.

«È la prima volta che entro qui! Non è molto diversa dalle altre … non so mi aspettavo quasi un fossato con i coccodrilli conoscendoti …»

Doveva cacciarla, prendere il plico di fogli dalla sua riesamina e strapparglieli dalle mani in malo modo, non la voleva in quella stanza, non voleva averla di fronte in quel modo, non voleva che si approfittasse della sua influenza sulla propria volontà. Non voleva che lei gli stuzzicasse il lato combattivo, fiero ed orgoglioso del suo ego.

Non lei, non con lui che la conosceva ormai sotto molti più aspetti di quanti gliene avesse effettivamente mostrati.

«Non sono cose che vi riguardano! Ed ora uscite da qui!» e fu quasi un ringhio imperativo al suo indirizzo.

L’angolo destro della bella bocca si sollevò adagio, torturando la volontà di qualsiasi uomo normale l’avesse visto. Segnava il suo angelico viso con un arco arcigno, menzognero, diafano come il cuoio che Erik portava sulla faccia per nascondere il proprio volto deforme.

Irriverente, provocante, maliarda.

«Non sono cose che m’interessano realmente, caro il mio Fantasma …» Lo superò indifferente al suo ordine. Lo superò guardandosi attorno, come una bambina nel paese dei balocchi, offrendogli le spalle baciate dai morbidi capelli che si muovevano su di esse quasi fossero animati. No, non era lei, non più.

I desideri di Lucia erano ben altri.

«E poi non dovresti trattare così nemmeno me …» era forse amarezza quello che tingeva le sue parole? Proprio quando Erik sembrava essersi arreso nel trovare ancora un briciolo della sua Lucia, era riuscito a leggere del suo lato oscuro nascosto da qualche parte. «Mon cher ami, io sono la soluzione a tutti i tuoi problemi …» La soluzione? No, tutt’altro. Lei era il suo problema. Il più grande, infido, invalicabile problema che avesse mai avuto.

«Non è più una partita fra me e te, Erik! Oggi è il giorno decisivo, non abbiamo possibilità d’errore, se rivuoi la tua libertà, la tua vendetta ...»

Un piccolo passo, un intreccio di dita che correva lungo il filo, fino a scendere nell’incavo al centro del petto di lui, un nuovo percorso sulle docili spalle sovrastate dall'imponenza della sua mole e dai suoi palmi così grandi in confronto alle deboli curve modellate sotto di esse.

Restale vicino.

Troppo vicino.

Vicino, terribilmente crudele, bollente.

Gioca con lei come fa con te, falle sentire ciò che nega come te lo stai negando tu.

Lo sai cosa prova, Erik.

Lo sai perché è lo stesso tumulto che senti su di te,

vibra nel desiderio che hai del nutrirti delle sue labbra, di respirare attraverso il suo respiro.

«Dovresti prepararti Lucia. È la grande serata, giusto?»

Vicina troppo vicina. Ma chi era realmente troppo vicino?

La sua mano dispettosa sul lembo della camicia trascuratamente aperta, sul brivido attraverso cui lo stava soggiogando di nuovo.  

Hai detto che non l’avresti più tradita, la tua Christine ...

O abbandonati definitivamente alla sua saggezza …

«Non devi permetterle di ferirti di nuovo Erik e sarai libero: libero da lei, libero da noi … libero da me …»

Sovrapposta al tormento, alle fiamme di una vivida realizzazione di ciò che è vero, il romanzo triste e sconvolgente di chi è disillusa. Il fascino di ciò che è proibito, inaccessibile come un cuore divenuto di pietra.

Una corazza impossibile da scalfire.

Una barricata da superare.

Forse già superata.

Perché io ho già scelto e la mia scelta ha una sola via d’uscita.

Due morbidi palmi sul proprio viso dimezzato, delicati come petali di rosa sul pelo dell’acqua di una fontana abbandonata.

E i suoi occhi meravigliosi fendevano l’aria divenuta capillare, inutile, uno strano, stranissimo bagliore pallido e translucido come il gioco di un raggio luminoso su di una superficie opacizzata dal tempo e logorata dall’usura.

Un lampo d’apprensione che lo fece indietreggiare, barcollare come ubriacato dal senso d’incompiutezza che sentiva invadergli ogni parte di lui,  sotto il sottile strato di seta del suo sguardo così impropriamente infantile che l’osservava dal basso ad impartirgli una lezione che forse non avrebbe dimenticato, spogliato di quella durezza da cui era caratterizzato durante ogni loro incontro.

«Sarai sufficientemente concentrato stasera, Erik? Ci saranno ricordi dolorosi, dolci occhi castani a distrarti, il suo  profumo nell’aria. Ti sarà così vicina … ed io ho bisogno di …»

Prendi le sue mani, allontanala, prima che pronunci quella sola sillaba che potrebbe farti naufragare.

Tutto da lei, odio, disprezzo, rancore. Ma non quella sillaba.

Si era lasciata scappare troppo.

Luce ed ombra di un animo lacerato dal ricordo più vivido che avesse. Il più recente, il più sofferto.

Lucia.

Christine con il suo sguardo smarrito mentre osservava il vigneto e il suo abbraccio così sincero con una donna che la manovrava come una pedina.

L’aveva spiata per vederla un’altra volta, per quel poco che la nostalgia gli potesse riempire i vuoti lasciati ad una fugace occhiata tra i buchi di una piccola grata d’areazione fasulla.

Le vide una di fronte all’altra.

Conversavano piacevolmente come fossero amiche consumate, come se al mondo non esistessero due visioni della Natura contrastanti.

L’una benefica e l’altra subdola.

Non è cambiata di molto la tua Christine …

Era stato nel salotto che l’aveva ospitata.

Si sbagliava.

Tutto al suo passaggio parlava di lei.

Il cuscino deformato lungo il suo fianco, la tazza del thé abbandonata sul piattino, i fogli dimenticati con piccoli promemoria che Malice le ordinava. Se solo le avesse potuto rivolgere una parola, una soltanto.

Dirle che il suo Angelo vegliava su di lei sempre, che il suo cuore impazziva a saperla anche solo in un’altra stanza.

Un Angelo pronto a sovvertire ogni santa legge del Paradiso.

O dell’Inferno.

«Che Dio abbia pietà di me, Erik per quello che sto facendo a questa povera ragazza ...» L’aveva affiancato mentre osservava la carrozza con sopra l’effige dei de Chagny allontanarsi con la sua aura nefanda di dolore roboante nel suo cuore.

«Sempre alla ricerca di una guida. Il giovane Raoul non potrà sostituirti, ma non ti sto dicendo nulla di nuovo ...»

Non riusciva a dimenticare quelle sue parole, che fossero sincere o meno.

«Ora vede in me quello che eri tu. Pende dalle mie labbra esattamente come pendeva dalle tue. Per quanto sarete lontani, ovunque provi a nascondersi che sia dietro un matrimonio d’amore o tra i salotti di Parigi, lei sarà sempre tua. Non ti avrà amato come uomo, ma di sicuro sei stato il suo punto fermo. È ancora la bambina a cui facevi compagnia nelle veglie notturne, Erik. Un’ingenua bambina che gioca a fare la donna, ma pur sempre troppo infantile per destreggiarsi in un mondo meschino come il nostro.»

Era una bambina. Candida e pura come soffici nuvole in un limpido cielo estivo.

Di questo lui ne era consapevole. Come era consapevole dell'influenza che aveva avuto nella sua esistenza, di come l'aveva in fondo amata proprio per la sua tenera innocenza, la sua cieca fiducia in un amore che lei credeva paterno ed invece nasceva nella passione viscerale di un uomo che in lei vedeva la purezza tra il marcio.

« Ed io ho bisogno di …»

Quella sillaba sarebbe morta così, nella gola della gelosia e del rancore nel tentativo di placare la sua indole di umana misericordia nei confronti di un uomo distrutto almeno quanto lei.

Uomo appunto. Non un mostro o qualsiasi cosa di cui si fosse convinto di essere.

Lui era un uomo.

Un uomo.

Erano finiti i tempi in cui Erik era solo un compito per lei, forse non erano mai iniziati.

Un uomo, si ripeteva.

Ed io cosa sono ora?

Una donna che non poteva influenzare, più forte del ferro, dura come l'acciaio con mani artigliate come quelle di una fiera selvaggia ed in grado di squarciare il ventre.

Una donna in grado di essere debole come un giunco rinsecchito dalla siccità, una donna che era capace di calore e passione, di fredda consapevolezza e d'infinita saggezza.

Di divenire una viscida serpe maledetta. Ma che era mutata in una lastra trasparente, fragile più del cristallo, tagliente come uno dei suoi resti dopo che fosse crollato al suolo.

Che avrebbe desiderato per una volta essere vista come tale.

Non era mai stata la pulzella da salvare, nemmeno quando il suo nome era un altro. La interpretava, la rendeva tale, ma era lei a decidere i chi e i come.

Dirigeva magistralmente le sue personalità esclusa una, che poteva vantare di aver soppresso molto tempo prima finché un giorno non aveva incontrato lui.

«No, non ho bisogno di nulla. Voglio solo che questa storia finisca, che le nostre strade si dividano.» Fu lei a distanziarsi ricercando a vuoto di un crocefisso estirpato dalla pelle lattea del suo petto, allontanandosi abbastanza per respirare ma non per togliersi il senso di torpore delle inibizioni che lasciava al suo passaggio. Un distacco troppo freddo, repentino, il suo sguardo scintillante, rovente come quello di un gatto forastico intento nel difendersi. E di rabbia. Di quelle che si rivolgono principalmente a sé stessi per  non saper governare le proprie reazioni.

Fuori, via, lontano da lui.

Ti credi superiore, Erik? Pensi che io possa abbandonarmi all’ipnotico suono della tua voce roca?

Che mi lasci ingannare così, da un “pivello”?

No, Erik.

Vivo nel mondo reale da prima di te. Questo non è il tuo teatro, non ti scontrerai su di uno scenario ripetutamente visto a più rappresentazioni.

Non ci sarà lo sfarzo ed il lusso fittizio di un sogno.

Nessuna vernice dorata, nessun drappo di elegante velluto rosso.

Dovrai imparare a masticare lame affilate ed ottenere gli scarti di ciò che ti offrono.

Noi stessi siamo gli scarti.

Oggi imparerai che la finzione nella realtà ha un altro sapore, più agre e difficile da deglutire sulla gola ferita.

Imparerai che la Vita, quella al di fuori del tuo mondo protetto ed abbracciato dalle materne membra dell’Arte, ha una connotazione pallida ed emaciata come il volto della Morte.

 

 

Organizzare quella festa per lei significava riaprire vecchie ferite in realtà ancora sanguinanti, ma l’aveva fatto. Aveva seguito alla lettera ciò che una persone più grande ed esperta di lei le aveva suggerito.

Le sue gambe erano ancora troppo incerte per muoversi agilmente come quella che considerava la sua nuova amica.

Meg e quella che considerava una madre purtroppo non le era concesso rivederle se non furtivamente aiutata da Raoul. Non solo per gli impellenti doveri di una futura viscontessa, che non prevedevano l’intrattenersi con una ballerina, personaggi che secondo le leggende metropolitane erano di dubbia moralità, e una direttrice di balletto coinvolta nei crimini del Fantasma dell’Opera, ma anche per il dolore che in forme diverse avvelenava le anime delle tre donne.

Chi per aver perso due figli.

Chi per aver perso una madre ed una sorella.

Chi per  aver perso troppo in una sola notte.

La povera, dolce, ingenua Christine.

Non doveva sforzarsi di essere qualcun’altra. Raoul era sincero quando le diceva che era perfetta anche così, che non doveva cambiare per nessuno, tantomeno per lui.

Eppure, su di sé, sentiva il peso di quel titolo che sembrava si stesse appendendo alla proprie caviglie con una catena indistruttibile. Voleva a tutti i costi che il suo futuro marito non dovesse subire le pene dell’inferno per le sue umili origini. Che bello sarebbe stato in un mondo diverso, in cui titoli nobiliari e mestieri fossero considerati su di una linea retta, in cui fosse solo il loro amore ad importare e non quanto poco denaro una dote potesse portare alla cassaforte della famiglia.

Il giovanissimo visconte in realtà si riteneva un uomo davvero fortunato. L’amava immensamente, non era da tutti godere di un matrimonio per amore. Era certo che sarebbero stati felici, un lusso che il denaro di solito non concedeva.

Lo aveva visto con le sue sorelle, tristi ed annoiate signore costrette a farsi amanti per soddisfare il proprio bisogno d’affetto, ma che in linea con i vincoli familiari si erano trovate patrimoni ingenti con cui continuare la vita agiata che il duro lavoro del fratello contribuiva a portare avanti dopo la morte dei genitori.

Lo aveva visto con Philippe, sposato con il dovere per quasi una vita intera, che aveva riacquistato la serenità solo dopo aver incrociato le strade con la bella Constance.

Lo aveva visto ripetuto in milioni di circostanze: amici, parenti, conoscenti.

Tutti che dietro al matrimonio avevano solo un contratto, un debito da saldare, un credito da riscuotere.

Sì, era decisamente fortunato ad avere la sua Christine.

Per quanto quel rapporto portasse pettegolezzi e lasciasse una scia di bisbigli, quello che a lui importava seriamente era la sua bellissima sposa che nelle sue stanze al terzo piano della villa si preparava per il suo debutto. Sapeva che una volta presentata avrebbe conquistato con il suo carisma innato e la sua tenera timidezza.

Tra la folla di vecchie casacche decrepite e maschere scolpite tra le facce di una nobiltà sempre più borghese l’attendeva impazientemente, mentre distratto ascoltava i frivoli commenti di quegl’uomini con cui il fratello ancora si contornava solo per una piacevole caccia di mese in mese.

«Che ottimo champagne! Non ne assaggiavo di tali nella tua casa dai tempi in cui tuo padre era un ragazzo e più avvezzo alle piccole passioni di un uomo!»

Era davvero ottimo.

Il barone sarà stato anche un uomo viscido e spiacevole, ma era un gran intenditore di vini da quando fu costretto ad aggrapparsi alla bottiglia per sopperire ai suoi guadagni mancati. Ciò non toglieva come ad entrambi i fratelli non piacesse granché la sua compagnia, già sgradita in precedenza, quando frequentava la loro casa nel periodo più florido della sua miserabile esistenza sperperata tra gli sfarzi e i lussi di un meschino commerciante di vite umane. «Già, ma ormai il nostro amico conte diverrà un esperto di vini e liquori! Giusto, Raoul?» Con in testa quel muso di un cavallo poi, sulla sua figura allampanata, dava una sorta di caricatura stirata di un ronzino. «Sembra di sì, tutto a vantaggio degl’amici e della famiglia!» risero grosso. Nella scultorea armatura in cui le membra grassocce esplodevano e il viso incorniciato dall’elmo inequivocabile che richiamava gli antichi eroi romani, il rubicondo ed immancabile marchese, scuoteva la pancia ingombrante, sussultando come un atollo di terra scosso da un violento terremoto, con un movimento che avrebbe divertito anche senza il sonoro clamore della battuta pronunciata dal visconte.

«Porterete vino ed intrattenimento con la graziosa Christine. Ho sentito dire che la sua voce è più bella di quella di Angelo. Purtroppo non ho mai avuto l’onore di poterla ascoltare a teatro. Magari stasera ci delizierà con essa, che ne dite Philippe?» Un mecenate, mancato poeta incapace, che vedeva nelle sue reclute quello che lui non sarebbe mai divenuto. In fondo lui era un uomo dall’animo buono, ma che si era dovuto sempre nascondere dietro quell’aria di diffidente alterigia per difendersi.

«Ne sarei onorato …»

«Invece, quando arriverà la nostra bella vignaiuola?»  La ragione per cui il conte accettasse la vicinanza del barone alla sua casa era una soltanto: onorare la memoria del padre in nome della vecchia amicizia che aveva con lui. Da quando era caduto in disgrazia qualche anno prima- dopo che alcune sue piantagioni di cotone furono distrutte durante la Guerra civile nelle Americhe ed il suo commercio clandestino divenuto impossibile con le nuove leggi sulla tratta degli schiavi – non faceva altro che chiedere prestiti di denaro a Philippe, il quale non si sentiva di negarglieli.

«Presto, mi auspico …»

«Suvvia, conte l’avrete vista solo ieri e già siete così smanioso di incontrarla di nuovo?» Non gli piaceva lo strano e morboso interesse che nutriva nei confronti di Constance: il suo cercarla di continuo, la sua completa disposizione, la sua ambigua  nomea di uomo poco d’onore quando si trattava di allungare le mani su di una donna.

«Scommetto che dopo sposato la penserà diversamente!»

«Propongo un brindisi alle donne prima del matrimonio!» disse all’improvviso il barone alzando il calice di cristallo verso i suoi interlocutori. «Che rimangano il più possibili tali anche dopo!»

«Speranza vana, amico mio!» concluse amaramente il marchese.

Risero ancora tintinnando con il bordo dei loro bicchieri fra il brusio concitato degl’invitati divertiti ed intenti in danze e piacevoli conversazioni, vibrando il delizioso liquido paglierino e perlaceo al suo interno.

Philippe non pensava che con tutte le voci, i sussurri, lo sdegno provocato dalla vicenda che aveva coinvolto Raoul e madamoiselle Daaé  potesse riscuotere un così evidente successo, invece alcun invito era stato rifiutato. Il conte sembrava davvero soddisfatto, orgoglioso di quello che sembrava un piano sociale ben congeniato.

La vita di una notte era ai suoi albori, stordita dall’avvicendarsi dal flusso delle carrozze in una strada battuta e frequentata solo da coloro che erano i suoi abitanti e qualche visita sporadica. C’era una guerra in atto, ma per nelle successive ore le poche persone a cui importava si sarebbero abbandonati agli sfarzi e i futili lussi della mondanità. Erano anni che la suntuosa villa de Chagny non riceveva una festa così maestosa.

Con la morte della madre e le due sorelle ormai maritate, chi avrebbe potuto mai organizzare un tale evento.

Philippe era rimasto folgorato da quanto in poco tempo Christine era riuscita a destreggiarsi in una così delicata e importante mansione, perché si sa come il piacere di balli e vino possano mietere amicizie importanti in quel mondo fatto solo d’apparenza anche se da principio l’idea di trasformare una festa di fidanzamento di un visconte in una volgare masquerade, la temeva.

Invece la provocazione che aveva scaturito, era diventata oggetto di curiosità e ammirazione.

In questo Constance aveva avuto pienamente ragione.

Chissà che non ci fosse proprio la sua firma su quel piccolo miracolo che avevano  adoperato.

Lo scandalo paga bene, ma il non temerlo paga ancora meglio.

Lo aveva convinto con queste parole, così come aveva convinto la titubante Christine.

L’intera sala ricca di festoni fioriti divenne una scultura di sale.

Persino le sfarzose composizioni di fiori che ricadevano a cascata celebrando una primavera infinita ed abbandonata, si mossero come tremanti.

I grandi candelabri scolpiti con putti ed angeli in uno stile tra il barocco ed il neoclassico che sorreggevano le candele traballarono come le fiammelle che alimentavano l’illuminazione quasi irreale.

Un incubo di certo. Un incubo collettivo perché non poteva essere possibile.

Philippe non sapeva ancora a quanto scalpore avrebbe spinto la cara Constance finché tutta la grande sala da ballo della villa si ammutolì.

Di stupore.

Di terrore.

Di orrore.

Tutti conoscevano la leggenda, tutti sapevano cosa accadde mesi prima.

Anche se nessuno osò pronunciare alcuna parola, anche se nessuno ebbe il coraggio di gridare, fuggire o terrorizzarsi, non ci fu una sola mente che si esulò da pensare che quell’uomo fosse davvero un essere ultraterreno.

Era davvero tornato? O solo giocava la suggestione comune di quel rievocare vecchie faccende che lo vedevano come protagonista?

Era uno scherzo forse?

Non accennava ad andarsene, se fosse stato solo un brutto sogno sarebbe dovuto svanire nel nulla così com’era apparso.

Eppure era lì avvolto dal velluto rosso e con gli occhi scavati in uno scheletrico cranio modellato sul suo viso, il suo lungo mantello lo seguiva come un fiume di sangue a cui non sembrava rinunciare.

Il Fantasma dell’Opera era tornato proprio il giorno del fidanzamento di Christine e Raoul.

Forse per vendicare il suo cuore spezzato.

Forse per punire l’onta ricevuta.

Forse.


1) La leggenda del "IL CAVALL BERNAT" viene dal Montserrat in Catalogna.Si racconta che il boscaiolo diceva al cavallo : Cavall Bernat, Cavall Bernat, baixa la llenya al Llobregat", Cavallo Bernat  Cavallo Bernat, porta la legna a Llobregat. Ma chi fa patti col diavolo qualcosa deve dare in cambio. La condizione imposta dal diavolo fu che dopo dieci anni, il boscaiolo doveva restituirgli cavallo con caratteristiche simili.Il boscaiolo diventò ricco con l'aiuto del "Cavall Bernat", ma il giorno che scadevano i dieci anni, il diavolo gli ricordò la promessa che per altro il boscaiolo aveva dimenticato. Davanti a questo, la moglie del boscaiolo temendo il peggio, si mise a pregare la Vergine che accolse le sue preghiere ed una luce intensa illuminò tutto il recinto causando la scomparsa del diavolo e del  "Cavall Bernat". Un'enorme pietra comparve in quel luogo, e tutt'oggi la chiamano la cima del caval bernat. In seguito venne posta anche l'immagine della Moreneta, la Vergine del Montserrat. (fonti: Portal Turismo Hotel - Leggende di Montserrat)

 

Note dell'autrice: Eccoci qui! La suspence è tutto in questo passaggio, non posso che rimandare ulteriori chiarimenti. Non mi sono dilungata molto sulle descrizioni in quanto, il prossimo sarà la liaison di questo e quindi ci sarà qualche particolare in più rispetto a questo.

Vi ringrazio con tanto, tantissimo affetto e vado a mettermi subito all'opera per il prossimo nostro appuntamento.

Il Master ringrazia.

 

I remain, Gentlemen. Your obedient servant.

Mally


   
 
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