Era
da due mesi che andava avanti così. E quella mattina non faceva
eccezione.
Alle sette meno un quarto mi alzavo, senza nessuna
voglia di farlo, e mi vestivo con una lentezza che qualcun altro
avrebbe definito esasperante, alle sette e mezza svegliavo Andrew e,
dopo avergli fatto fare colazione, lo accompagnavo a scuola,
riuscendo a tornare a casa per le otto e un quarto circa e sfruttando
il tempo in cui viaggiavo in macchina per far addormentare mia
figlia.
Viaggiare in macchina faceva a Lidia lo stesso effetto che
faceva a me guardare il Grande Fratello, coma profondo, e quando si
svegliò (più o meno nel momento in cui spensi la macchina) reclamò
giustamente la sua poppata del mattino che, di solito, terminava in
meno di dieci minuti.
Ecco, quell'ultimo atto dichiarava la fine
delle mie attività da mamma, facendo invece partire quelle da
disoccupata sull'orlo del lastrico.
Non
ne avevo voglia, non ne avevo voglia proprio per niente, ma le buste
ancora intatte delle bollette da pagare mi fissavano in maniera
alquanto minacciosa e potevo solo limitarmi a sospirare e ad aprire
il giornale sulla pagina degli annunci di lavoro. Lidia, comodamente
sdraiata nella poltroncina a dondolo che avevo appoggiato sul tavolo,
emetteva ogni tanto dei versetti: era l'unica in quella stanza ad
essere felice e, sinceramente, avrei dato qualunque cosa per essere
al suo posto.
Il
giornale di quel giorno aveva ben due pagine dedicate alle offerte di
lavoro, un'autentica benedizione, e così, munita di pennarello e
telefono, cominciai a cerchiarne qualcuno. Sembrava facile, e invece
no, per niente.
Trovare lavoro nella Westside di Los Angeles o,
dove vivevo io, Beverly Hills, era facile come scegliere di farsi
operare di trombosi senza anestesia, oppure scegliere di farti fare
un'epidurale quando sei agofobica a livelli patologici... esperienza
che non ripeterò mai più.
La maggior parte dei cerchi rossi li
avevo fatti a caso non appena leggevo “non necessariamente con
esperienza”, ma poi vedevo che si trattava quasi sempre di un
lavoro come assistente in linea per le compagnie di Internet e
telefonia mobile, il che implicava orari di lavoro assurdi e una paga
da schiavi, quindi li scartai subito.
Ma tutti quegli annunci da
“non necessariamente con esperienza” mentivano, verità
constatata e arci risaputa. Vogliono esperti in computer, esperti in
lingue, esperti di speakeraggio, esperti di dattilografia eccetera
eccetera; persino i negozi di abbigliamento cercano solo commesse con
esperienza. Ma se nessuno dà lavoro, come facciamo noi a fare
esperienza? E poi, cosa ancora più importante, le commesse dei
negozi di abbigliamento non dovrebbero avere unicamente buon gusto e
una spiccata capacità di rifilare al cliente sprovveduto qualsiasi
cosa? Ma vabbè...
Quante
ore avrò passato china sui giornali nelle ultime settimane? Almeno
una trentina. Era sempre la stessa storia, da due mesi mi sembrava di
seguire un percorso prestabilito e, diciamocela tutta, piuttosto
bastardo: trovo un annuncio perfetto, chiamo, mi presento al
colloquio, mi scartano entro i primi venti minuti e il ciclo
ricominciava. Sempre che non mi scartassero direttamente al telefono.
Evidentemente la mia dose di sfiga non si era ancora conclusa.
-Ehm, sì chiamo per quell'annuncio di lavoro sul giornale...
-Sì, chiamo per l'annuncio di lavoro sul giornale...
-...quello “spiccata personalità, bella voce... “
-...non ho una vera esperienza nel ramo vendite...
-...ecco, io non sono esperta di computer, ma...
-Ah, ma credevo, credevo che fosse il negozio di zona...
-Ah,
va bene, grazie lo stesso...
Lo squillo del telefono mi
svegliò di soprassalto, facendomi venire un coccolone degno
dell'ultimo film di Saw, e quando sollevai la testa mi accorsi di
avere la pagina del giornale sul quale stavo diligentemente cercando
un annuncio attaccata al viso. Schiacciai subito il pulsante per
l'apertura della chiamata prima che svegliasse Lidia, se avesse
cominciato a piangere proprio in quel momento... penso che avrei
rischiato un crollo nervoso.
-Pronto?
-Eva, sono Melanie.- non potei fare a meno di tirare un sospiro di sollievo, finalmente una voce amica che non mi avrebbe mandata a quel paese... no, un momento, Mel lo faceva senza problemi.
-Ehi, come va?- domandai, sinceramente felice di sentirla.
-Ho finito di lavorare alle tre del mattino e, indovina, sono appena entrata al locale per ricominciare un nuovo turno. Tu invece?
-Sarò sincera, sono disperata e a tanto così dal tornare al 232. A costo di dover pregare Nicole in ginocchio sui ceci surgelati.
-Tesoro, se non avessi il terrore che ci ammazzasse tutte e due ti aiuterei anche... ma temo che Nicky non abbia ancora digerito la scenata di Daniel...
-Daniel mi ha lasciata, se ne è andato proprio quella sera. Ma immagino che non gliene freghi proprio niente.
-Comunque, come mai hai chiamato?
-Mi serve un favore.
-Dimmi.
-Ho un problema con Darren Reynolds. La sua agenzia ha smesso di inviarci le bariste, è da una settimana che il 232 serve dei cocktail a dir poco disgustosi. Ho provato più volte a chiamarlo ma non mi risponde al telefono, così ho pensato: visto che tu hai una sorta di legame con lui... che avresti potuto pensarci tu.- mi sentivo insultata e, in un attimo, tutto il sangue che avevo in corpo affluì al cervello, annebbiando tutti i miei pensieri più razionali e meno carichi di imprecazioni.
-Sei andata fuori di testa?! Non ci penso neanche morta! È anche colpa di quel pezzo di merda se sono disoccupata e single.- neanche sotto tortura sarei andata a parlare con Darren, quello stronzo mi aveva rovinato il matrimonio e la carriera in un colpo solo.
-Ti prego! Io degli incarichi alla reception non so nulla, questo era il tuo campo e lui era un tuo cliente! Quando Nicole ti ha buttata fuori ha piazzato me all'assistenza e ha cancellato quasi tutti gli appuntamenti che avevo con la scusa di avere fin troppe ragazze e che la reception era gestita da cani!
-Che stronza!- ma in fondo la capivo. Offesa a parte, Nicole Lenwood era il mio capo e, insieme a suo padre, aveva creato dal nulla il 232, facendolo diventare in poco tempo uno dei locali più rinomati del suo campo. Circa il settanta per cento dei politici, degli avvocati e dei manager della città degli angeli erano degli abituè del 232 quasi dal giorno dell'apertura. La rissa che avevano messo in piedi Darren e Daniel quella notte di due mesi fa fece scappare a gambe levate alcuni dei clienti più facoltosi. Nicole andò su tutte le furie ed fu costretta a chiamare per la prima volta la polizia, cosa che la innervosiva parecchio perché infastidivano i clienti. Il tutto si concluse in centrale, dove io dichiaravo che né Darren né mio marito erano dei pazzi assassini e che il loro scontro è avvenuto perché quest'ultimo si era trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato. Nicole era una stronza coi controcazzi, ma sapeva come badare ai suoi affari meglio di suo padre e ci teneva al loro locale, anzi... ci teneva ai loro soldi.
-Ti giuro che lei non ne sa niente, è un favore che ti chiedo io, odio stare chiusa qui dentro... tu lo sai meglio di chiunque altro, ti preeeego!- il suo tono supplichevole mi fece traballare, non ero mai stata in grado di dirle di no. Era un po' come avere un'altra sorella minore, come se una non fosse già sufficiente.
-Mel, sto ancora cercando lavoro, non posso occuparmi anche di qualcos'altro...- tentai di svicolare, anche se sapevo bene che con lei non ci sarei mai riuscita.
-Ma ti pago! Ti do il compenso di una giornata di lavoro qui.- propose senza esitare. A quel punto non potevo rifiutarmi, una giornata di lavoro al 232 mi avrebbe consentito di tirare avanti un'altra settimana senza troppi problemi. Anche se il prezzo da pagare era trovarmi davanti a Darren Reynolds.
-E va bene, lo farò... ma solo per questa volta!
-Grazie, grazie, mi hai salvato il culo!- esclamò tutta esaltata, evidentemente era davvero in difficoltà con tutta quella storia della reception.
-Penso che per il tuo culo sia un po' tardi...- commentai, sperando di stuzzicarla un po'.
-...spiritosa. Dai un bacio ad Andrew e Lidia da parte mia!
-Senz'altro, ciao.
Tenendo
i gomiti pigramente appoggiati al tavolo riaprii nuovamente la linea,
premendo leggermente i tasti di gomma sul telefono, e me lo appoggiai
all'orecchio incastrandolo tra esso e la spalla. L'avevo usato
talmente tanto che ormai era andato in equilibrio termico col mio
corpo. Rimasi in attesa per qualche secondo poi, dall'altra parte
della linea, rispose un'annoiata voce femminile che rischiai
sinceramente di scambiare per un messaggio preregistrato della
segreteria. Per non dire a che livelli di nervoso ero arrivata...
Mi venne una leggera fitta allo stomaco, forse non era una buona idea chiamare... e se poi non mi avesse risposto? O peggio, e se mi avesse risposto? Che cosa avrei potuto dirgli dopo il modo in cui ci eravamo lasciati l'ultima volta?
-Buongiorno, avete chiamato la Reynolds' catering& public relationships. Sono Kate, come posso esservi utile?
-Salve, chiamo per conto di una cliente e dovrei parlare con Darren Reynolds.- borbottai passandomi una mano nei capelli, il suo nome mi faceva ancora un certo effetto. Una perfetta metà tra la rabbia più nera e il rimorso represso... e no, non ho invertito l'ordine.
-Attenda prego.
-Grazie.- poi partì una di quelle odiose melodie polifoniche degne di una pubblicità per compagnie di telefonia mobile. Cominciai a picchiettare le unghie sul tavolo, giusto per resistere alla voglia di riattaccare. Rimasi in attesa per un paio di minuti almeno, nel frattempo avrei potuto scaldarmi al microonde una brioche o mangiare un vasetto di yogurt, il mio stomaco si stava letteralmente contorcendo su se stesso emettendo delle piccole bolle d'aria facilmente scambiabili per rutti da coca-cola, solo che erano dovuti alla fame e non all'anidride carbonica.
-Spiacente,
il signor Reynolds non può rispondere, vuole lasciare un messaggio?
-Sì, grazie. Eva Van DeMason del 232, avrei bisogno che mi
richiamasse al più presto.
Un'ora
dopo riprovai a chiamare e, per un attimo, mi sembrò di aver avuto
un dejavu. Stesso identico copione, stavolta l'impiegato si chiamava
Russell.
A mezzogiorno la solfa non era cambiata, l'impiegata di
questo turno era Patricia.
-Darren Reynolds per favore.
-...ma, lavora ancora lì?
Senza nemmeno avere il tempo di accorgermene si era fatta l'una e dovetti andare a prendere Andrew a scuola. Cavolo, se ero già priva di forze a quest'ora... stasera sarei stata una mummia vivente. Meglio lasciar perdere i colloqui di lavoro per questo pomeriggio. Ne avrei approfittato per stare più tempo con Andrew e Lidia. Da quando erano iniziate le pratiche per il divorzio non riuscivo a passare molto tempo a casa e non volevo che per nessun motivo si sentissero trascurati. Lidia a stento se ne sarebbe accorta, ma Andrew era piuttosto sensibile al fattore “presenza”e, del resto, i bambini di sei anni cominciano già a capire che cosa gli accade intorno. Il mio compito era quello di creare un ambiente familiare il più confortevole e tranquillo possibile, anche se l'assenza di una figura paterna mi aggravava il compito. Ma ce l'avrei fatta, avrei superato anche questa e stavolta senza l'aiuto di mia sorella Angie.
Mentre
Andrew se ne stava seduto in sala da pranzo a guardare la tv, Lidia
era comodamente sdraiata nella sua poltroncina a dondolo all'altezza
del tavolo a guardare me che preparavo il pranzo. Aprii il rubinetto
del lavandino e lasciai che l'acqua riempisse la pentola. Mi bloccai
un attimo a guardare il mio riflesso nell'acqua e mi accorsi,
soffermandomi sulla pelle secca e sulle occhiaie che mi contornavano
gli occhi come si fossero tatuaggi, di come mi fossi ridotta. Il viso
sciupato dalla stanchezza, i capelli scompigliati e bisognosi di uno
shampoo come dio comanda, non era la descrizione di una ragazza di
ventiquattro anni, era quella di una donna psicologicamente frustrata
in menopausa e, sinceramente, mi facevo abbastanza schifo. Se avessi
accettato l'aiuto di mia sorella ora non sarei ridotta così. Ma non
potevo.
Non potevo obbligarla a sopportare anche questa.
Angelica
era la sorella migliore che avessi mai potuto desiderare: dolce,
premurosa, affidabile e sempre con una buona parola per tutti. Gli
ultimi dieci anni non erano stati facili per nessuna delle due, e lei
si meritava più di me di essere felice, dopo quello che aveva
sopportato da quando ci eravamo trasferite a Los Angeles.
Se
nostro padre fosse stato ancora vivo non sarebbe successo niente di
tutto questo. Niente.
Provai costantemente a rimuovere i dettagli
più brutti della mia vita, ma più mi sforzavo più essi si
imprimevano a fuoco nella mia testa, il dolore raddoppiava la sua
intensità e io mi sentivo bruciare dall'interno come se fossi fatta
di carta.
Non appena mi accorsi che la pentola stava traboccando
acqua, spensi in fretta il rubinetto e la misi sul piano cottura.
Lidia, che era stata tranquilla fino a quel momento, iniziò la sua
personale sequenza di versi che avrebbero inevitabilmente sfociato in
un pianto nervoso finché non le avessi dato da mangiare.
Cominciò
coi gorgoglii, poi coi versetti acuti per richiamare la mia
attenzione, seguì l'allungamento della durata dei suddetti e infine
degli urli da soprano in grado di frantumare vetri e cristalli.
-Sì,
sì, ho capito. C'hai ragione.- Come la presi in braccio subito si
calmò e mi fece un altro dei suoi sorrisi a tutte gengive, la mia
piccola demonietta infernale. Non avevo voglia di sedermi sulle
rigide sedie della cucina per darle da mangiare, scomode com'erano mi
sarei ritrovata con l'impronta delle nervature del legno sulle
chiappe, così raggiunsi Andrew nel salotto e mi sedetti sul morbido
divano di fianco a lui che, nel frattempo, guardava i cartoni del
primo pomeriggio. Di solito, quando eravamo in compagnia gli parlavo
in inglese, ma quando eravamo in casa da soli gli parlo solo in
italiano, era giusto che conoscesse entrambe le lingue delle sue
origini, e poi si trattava anche di orgoglio personale.
-Tesoro,
come è andata a scuola?- gli domandai mentre abbassavo in fretta la
spallina del top e mi sistemavo meglio meglio Lidia tra le braccia
per darle da mangiare.
Mi scappò una smorfia, man mano che la
mia piccoletta cresceva la sua morsa diventava sempre più forte; fra
poco sarò costretta a passare definitivamente ai biberon e quella
prospettiva non mi piaceva per nulla. Se nella cucina per adulti
facevo danni più della tempesta, in quella per neonati ero anche
peggio; sbagliavo le dosi della pastina, bruciavo i brodini e l'odore
del latte in polvere mi faceva venire da vomitare.
Lo vidi fare
spallucce senza emettere un suono di risposta. Gli si chiudevano gli
occhi dalla stanchezza e si era appoggiato al bracciolo del divano
con una spalla, accoccolandosi sui cuscini, gli accarezzai i capelli
con la mano libera per tentare di scioglierlo un pò.
-Che ti
succede cucciolo?
-Niente, sono stanco.- bofonchiò debolmente,
stropicciandosi un occhio con la manina
-Dopo pranzo ti va di
andare a fare un sonnellino?- gli proposi allora io.
E li vidi
finalmente sorridere. Lo capivo, erano mesi che non passavo un'intera
giornata con loro, era meglio approfittarne quando potevo o i miei
figli non mi avrebbero più riconosciuta. Non volevo che finissero
col preferire una studentessa di diciassete anni alla loro madre. Mi
sentirei tradita, ma la colpa sarebbe interamente mia.
Chinai il
viso verso il mio seno e incontrai un paio di occhioni blu che mi
fissavano, incantati; la sua manina era sollevata ed appoggiata al
centro del mio petto, stringendo piano una balza del top.
-Non ti
incantare, peste!- lei rise e continuò a poppare tenendo lo sguardo
alzato su di me, in attesa di qualche altra mia faccia buffa.
Dopo
aver finito di mangiare, Andrew cadde letteralmente in una fase di
abbiocco fulminante che rischiò di farlo addormentare con la faccia
nel piatto, povero cucciolo.
-Andiamo a nanna ora?- gli domandai
dopo aver messo i piatti in lavastoviglie.
-Mamma, posso dormire
nel lettone peffavoe?- non li sopportavo i suoi “peffavoe”, non
riuscivo a dirgli di no quando mi inseriva i “peffavoe” nelle
sue richieste. Annuii stirando le labbra in un leggero sorriso e lo
vidi scappare sulle scale in uno scatto improvviso di energia per
dirigersi nella mia camera.
Presi Lidia in braccio, che si era
addormentata mentre io e suo fratello mangiavamo, e la portai di
sopra con noi, mettendola nel suo lettino che avevo messo accanto al
mio letto. Andrew si era già tuffato sul materasso, affondando la
faccia nel cuscino dall'altra parte del letto, io invece afferrai il
mio de mi sdraiai accanto a lui, stringendo il cuscino tra i polsi e
poggiandoci la testa sopra.
-Sogni d'oro cucciolo.- sussurrai
prima di chiudere gli occhi.
Sì, decisamente, era meglio
approfittarne e trascorrere un po' di tempo con loro finché ne avevo
l'occasione. Da domani avrei ricominciato a cercare un impiego, anche
se prima avrei dovuto occuparmi di Darren Reynolds.
Passò
un giorno ed ero di nuovo punto e a capo. Tentai di nuovo la fortuna
col telefono, a cui risposero Will, di nuovo Kate e di nuovo
Patricia. Però qualcosa era cambiato, la durata delle conversazioni
andava mano a mano diminuendo, fino a sfiorare i quindici secondi di
durata totale.
Kate mi riattaccò il telefono in faccia non
appena avevo pronunciato il nome. Ormai mi avranno infilata nella
loro lista nera.
Cosa non si fa per le amiche! Certo, Melanie mi
avrebbe dato duecento dollari in contanti, ma erano dettagli.
Accavallai le gambe, poggiandole entrambe sopra il tavolo in una posa
che poco avevaa di buona educazione, mi sentivo molto “La vita
secondo Jim” stando in quella posizione . Peccato che dopo dieci
minuti non mi sentivo più il culo e avevo tutte le vertebre
incriccate.
-Sì ehm, sono in attesa per Darren Reynolds.
-...ma
ho chiamato almeno una dozzina di volte!
-Sì, vorrei lasciare un
altro messaggio...
-Eva Van De Mason. V-a-n D-e M-a-s-o-n
-Chiamo per conto di una vostra cliente, non è complicato.
Non
era un caso che continuassi ancora ad usare il mio cognome da sposata
nonostante fossi tornata single da un pezzo, questo per due motivi:
A) molti membri della famiglia di Daniel appartenevano alla classe
politica e lui stesso aveva sfruttato il potere del proprio cognome
quando si trovava davanti a qualche ostacolo burocratico; B) da
quando mio padre era morto essere conosciuta come Eva Brivio mi
faceva tornare alla mente ricordi troppo dolorosi del mio passato, mi
sentivo meglio considerando il mio cognome morto con lui.
Quando
mai un semplice cognome aveva creato tanto scompiglio nella mente di
una persona? Mai, credo. Ma con un passato travagliato come il mio,
abbandonando l'Italia avevo voluto lasciare tutto lì.
Ricordi,
aspirazioni e Brivio compresi. Solo Eva. Eravamo solo Eva ed Angie.
Strinsi tra le dita il telefono, contando mentalmente fino a
dieci per riuscire a sbollire la rabbia che mi stava nascendo nelle
viscere. L'unica cosa che mi tratteneva dal lanciare il telefono
contro il muro era avere Lily in braccio che giocava con una mia
ciocca di capelli, il fracasso che avrebbe prodotto il telefono
l'avrebbe fatta scoppiare in un pianto che avrebbe potuto durare
delle mezzore e non avevo la forza di gestire anche lei. Era meglio
che stessi tranquilla, per fortuna Lidia era una bambina che piangeva
solo per dei buoni motivi, sennò era quasi come non averla nemmeno
intorno. Sbuffai guardano la mia piccolina stringere tra le ditina
sottili ciocche intere dei miei capelli.
-...bene...- sussurrai
tra me e me, conscia di aver bisogno di risolvere quella situazione
una volta per tutte e per telefono non ce l'avrei mai fatta.
Che vigliacco. Non aveva mai avuto il coraggio di discutere con me neanche faccia a faccia, figurarsi rispondermi al telefono.