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Autore: Columbrina    29/03/2011    7 recensioni
[Rameria]
Rama e Mar sono felicemente sposati e hanno una vita idilliaca con i loro tre pargoli, i rispettivi figli avuti da precedenti relazioni e una nipote ergo figlia acquisita fino a quando...
Anche Valeria è felicemente sposata con Simon, ma con due bambini, un segreto e un incontro casuale stravolgerà le vite di entrambi.
E ciò dimostra quanta malafede può celarsi in un innocuo incidente d'auto.
“Non mi dire che è tua figlia, Ordonez!”
“Invece sì! E quella è tua figlia, vero Gutierrez?”
Genere: Commedia, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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“Ciao, papà!”
Di sera, non c’era niente di meglio che bearsi con le voci serene e le coccole della propria prole, poi ritornare a leggere il quotidiano seduto su una comoda poltrona, contemplare la prodiga moglie che si diletta nelle pulizie casalinghe, poi deliziarsi con un riepilogo della perfetta famiglia borghese.
Però, quando sei in casa mia, le cose non potrebbero essere più lungi da questo idilliaco scenario.
“Romeo! Santiago, scendete subito dal tavolo!” continuava a strepitare Mar, brandendo uno straccio da cucina e il suo più truce cipiglio. Avrebbe ricorso alle maniere meno ingentilite pur di non cadere nella subordinazione di quelle piccole pesti da giardino zoologico
“Prendi questo, brutto infame!”
Santiago colpì con una pallottola di mollica di pane l’occhio del gemello, incuranti entrambi del passo di carica sfidato della madre. Romeo, dal canto suo, dissipò tanti soldi di argenteria guadagnati col sudore della fronte.
“Bravi, così si fa!”
Disse una voce, occupando palesemente l’intero campo acustico con i suoi incitamenti da stadio. Inutile dire che è stato Lleca a indorare quella rivolta spartana. A malincuore, mi alzai, mi diressi a passo di carica vero quel confusionario e sfoderai il mio sorriso più serafico
“Ti piacciono i miei figli, vero Lleca?”
“Oh, eccome! Sono dei cavalli da rodeo eccezionali!”
Ora stavo davvero perdendo le staffe. Ho tollerato abbastanza la sua intrusione, il suo disordine e ora la sedizione dei tre moschettieri.
“Bene, visto che li hai tanto in simpatia, che ne diresti di farli scendere dal tavolo?!”
Urlai talmente forte che scattò subitamente l’allarme antincendio. Greta e Pedro fecero capolino in cucina, visibilmente spaventati; ma li consolai quasi subito.
“D’accordo, Boss. Ho afferrato” rispose lui serafico, sfoderando quel beffardo sorriso d’ insofferenza.  Fece un fischio in direzione del tavolo, Romeo e Santiago cessarono lo sprint in un battito di ciglia.
“Ehi, voi due, andate a mangiare patatine di là davanti ai cartoni animati. Poi vostro padre rimetterà a posto il vostro disastro”
Rimasi lì a boccheggiare per qualche istante; anche perché i miei figli erano allettati ed entusiasti dell’idea. Lleca batté la mano sulla mia spalla, rudemente.
“Non c’è di che!” disse, come se mi avesse fatto un favore.
Avevo il volto inciso nello stucco per l’ascendenza di Lleca sui miei gemelli. Se solo avessero il buonsenso dei più grandi e delle femminucce. Mar, scornata e frastornata in parti uguali, si congedò con un’imprecazione verso l’assordante trillo dell’allarme antincendio.
“E’ una cosa inaudita!” sbraitò, gettando lo strofinaccio sul pavimento, per poi dileguarsi nella profonda oscurità delle scale.
Perfetto. Uno smacco in più da mandar giù.
Mi sbrigai a raccattare gli scarti di pane e altri cibi non meglio identificati, rinfrancato dal pensiero che tra poco avrei potuto bearmi della frescura delle lenzuola, dai laudi pomeriggi insieme a Valeria, dal prossimo nulla osta per la prigione di Lleca e  dal fatto che ogni briciolo di perversione mi aveva definitivamente abbandonato.
Gettai una prima dose nel pattume, canticchiando come la povera Cenerentola. Rama Cenerentolo. Non suona tanto male. Mai quanto le botte che suonerò a Lleca una volta che avrò finito qui.
Neanche mia moglie mi aiutava. Da quando aveva ricevuto quell’invito a pranzo con Thiago e il bambino, ogni centrismo sulla nostra famiglia si era discostato di molte misure, direi.
Pulire. Pattume. Pulire. Pattume.
Continuai con questo andirivieni per un quarto d’ora o due, prima di stravaccarmi completamente sulla mia soffice poltrona e constatare, purtroppo, che c’era un messaggio in segreteria. Una fatica vale l’altra, quindi pigiai l’indice sul led lampeggiante e ascoltai, nel torpore di una dormiveglia.
“ Ciao, Rama, sono Valeria”
“Oh, merda!”
Sobbalzai subitamente, discostando dal comodino la cornetta del telefono, innescando un tumulto collettivo.
“Ehi, qui c’è gente che dorme!” gridò Lleca dal salone barra la sua nuova camera da letto
Stavo per consigliargli amabilmente di tirarsi un calcio in quel posto, ma ho constatato che sarebbe stato poco carino insegnare questi termini scurrili a una fascia d’età che va dai quattro agli otto anni. Perciò respirai affondo, sistemai il telefono e ripresi ad ascoltare.
“Ciao, Rama, sono Valeria. Non voglio mettermi nei guai e sai perché, però questo corso di cucina mi alletta. Simon dice sempre che sono una banderuola in cucina, ma lui ha voluto assumere lo chef thailandese e se il suo tè è addolcito con il curcuma non ci posso fare nulla. Poi sarebbe una buona occasione per uscire da questa monotonia che mi assilla, ti giuro. E poi… Voglio recuperare il rapporto di una volta… Come amici, intendo. Ci vediamo domenica per la prima lezione…”
Non come il sorriso stampato sul mio viso che conferisce al sottoscritto l’aria di un emerito tonto. Il fatto è che la voce di Valeria era un toccasana per il mio animo smantellato dai doveri domestici, una moglie assente e un cognato putativo latitante.
Riascoltai una decina di buone volte il messaggio, fermo sempre allo stesso punto. Voglio recuperare il rapporto di una volta.
L’adulterio reciproco non penso sia un reato.
Mi abbandonai completamente alla sua voce per l’undicesima volta, impregnato in una condizione di beatitudine insita ed effimera, a causa degli ombrosi rumori di passi che man mano si facevano sempre più nitidi.
“Amore che fai ancora lì sul divano?” chiede la voce cristallina di Mar, rivolta al suddetto adultero – ovviamente, tutto dettato dal mio istinto rudimentale.
Mi volto per risponderle e noto su di lei un sorriso di stampo inebetito, quasi quanto il mio.
 “Niente… Ho appena finito di pulire”
“Povero tesoro. Ora vai a letto, dai!”
Facciamo il punto della situazione. Mai, in quattro anni di matrimonio, mi aveva esortato così apertamente di distendermi e coccolarmi, almeno fino a quando la nostra vita sessuale ha iniziato a calare a picco, raggiungendo i vertici del pH. Che ci sia lo zampino di un certo Bedoya di mia conoscenza?
“E tu, perché sei scesa?”
Iniziò a trafficare con una marmaglia di stoviglie e tazze, destando un tintinnio infernale, dico a quest’ora della notte.
“Volevo bermi un caffellatte” rispose vaga.
“Tu detesti il caffè” le feci notare io, enfatizzando ancor di più sulla mia sfiducia riguardo la conclusione della storia col suo ex – marito
“Non con il latte” rispose netta, evitando di incrociare il mio cruccio adirato che stava assumendo una piega sempre più profonda.
Il tintinnio cessò e si voltò a sorridermi.
“Levati quella smorfia dalla faccia che sembri un Buddha!”
Cercò di baciarmi, ma la scansai. Facendo il punto della situazione, però, mi resi conto che il nostro rapporto stava assumendo una piega perfettamente neutrale, sfociando nella monotonia, senza che ci fosse una reale affinità reciproca. Amavo Mar, questo era innegabile, ma il mio sentimento per lei dondolava su un equilibrio precario, il che aveva un peso abbastanza oneroso da parte mia. Basta un alito di vento per far volare una nuvola.
“Sono stanco, vado a dormire” dissi laconico, dirigendomi di sopra.
Nemmeno l’aroma refrigerante del detergente sul pigiama pulito e la frescura delle lenzuola bastarono a domare la baraonda di pensieri affastellati nelle carni, come bubboni della peste che pian piano ti logorano del tutto, riducendoti a un trascurabile resto di vita.

 
 
I giorni che seguirono, io e Mar sembrammo aver raggiunto una pace neutrale, scandita da poche effusioni d’affetto come il bacio del buongiorno o quello della buonanotte; qualche parola scambiata durante il pranzo o a letto, mentre io leggevo un libro e lei sfogliava una rivista, all’estremità antistante a me.
Il finesettimana giunse veloce. Sabato lo trascorsi in maniera caotica, a causa del licenziamento immediato di Lleca dal suo novello impiego da fattorino.
“Quel buffone mi ha provocato dandomi del poveraccioera stata la sua plausibile giustificazione, tollerata solo dopo un esplosione di ormoni e grida sconquassanti
“Quel buffone, come lo chiami tu, era il tuo capo, cervello di gallina!” sbottai io, ansimando dopo lo sfogo rabbioso
“Comunque sia, non voglio un capo impertinente, quindi mi sono licenziato”
E la situazione non è migliorata quando è stato mandato via, dopo neanche un paio d’ore, dal suo lavoro di segretario in uno studio dentistico dopo aver smantellato a pieni voti l’auto nuova del direttore odontoiatrico.
“Non l’ho vista! E poi pensavo che la mia patente fosse illegale solo in America!”
Di bene in meglio fu il mio commento.
Quindi, Lleca trascorrerà la domenica, svolgendo l’impiego in cui riesce meglio: Fare e rifare tanta ricotta. O il dolce far niente, come si suol dire.
Quella determinata data sul calendario mi allettava e disperava al medesimo trasporto: Era, sì, il mio primo vero godimento e allettante desiderio, ma a sfregiare la mia visione rosea di quella domenica era il fatto che Mar e Bruno erano usciti da ben due ore e ancora nessuna chiamato.
Trascorsi il pomeriggio a giocare con i bambini, stravaccarmi sul divano a sfoltire il sonno con un insulso programma per bambini, sbafarmi di budini al cioccolato per il malumore e ritornare a rimuginare sui possibili modi in cui Mar avrebbe sfasciato il nostro matrimonio.
“Boss, non hai da essere geloso!”
La voce di Lleca arriva come uno stridore di pneumatici, diradando la coltre di pensieri affastellata nella mia mente, con una rapida lettura radiografica.
“Hai rubato una sofisticata macchina radiografica, per caso?” dissi io, disgustosamente sardonico come una vecchia ciabattaia
“Divertente, boss. Ma dicevo sul serio” Saltando come una lepre, lo ritrovo accanto a me, subito dopo un tonfo sul divano “Questo è il cosiddetto ‘distacco dal sesso’ che genera in te svariate paranoie mischiate a subitanee voglie di…”
Lleca fece un eloquente gesto con la mano chiusa a pugno, cosa che mi fece fremere dalla rabbia ancor di più, dato che il sesso è l’ultimo pensiero del mio povero animo cagionevole.
“Sei una sottospecie di sessuologo, ora?”
“Diciamo che ho qualche esperienza” rispose laconico, senza cogliere la vena acida della mia domanda retorica
“Non mi dire che hai lasciato mia sorella per mancanza di estrogeni”
“Diciamo che Alelì era il caso opposto a quello di Mar”
Mi sentii avvampare fino alla punta dei capelli; le mie gote divennero un tutt’uno col marsupiale che stava cantando una canzone stonata su come le cicogne portano i bambini. D’istinto, raggomitolai il giornale adagiato sul tavolino in vetro e lo pestai sul capo di Lleca, che emise uno stridulo acuto.
“Volevo sdrammatizzare!” fu la sua giustificazione, frattanto che massaggiava dolcemente il punto dolente, scaturendo in me una sadica compiacenza di ripicca
“Potevi farne anche a meno. E poi non devi sbandierarmi i tuoi problemi sessuali o quelli di mia sorella!”
D’altronde, ero più che consapevole dell’ incontrollata ninfomania di mia sorella.
“E tu potevi risparmiarti questo colpo basso! Mi verrà un bernoccolo e non potrò lavorare”
“Dai, stupido, metti del ghiaccio!” dissi, addolcendo un po’ i toni e posando il giornale al suo luogo d’origine.
Mi abbandonai completamente allo schienale, fugando ogni pensiero o notifica sull’imminente appuntamento con Valeria al corso. L’unica cosa che mi veniva in mente erano le grida sconquassanti di Pedro e Greta, all’altro capo del salotto.
“Smettetela, ragazzi!” gridai, senza ricevere appello o, tantomeno, ascolto. Mi massaggiai le tempie con le dita, tenendole bene pressate tra pollice e indice in modo da perforarmi uno strato di carne.
“Pedro, posa quegli affari! Non è carino prendere le cose di zia Mar dal bagno!” gridò Greta, probabilmente divincolandosi dalla stretta dei due gemelli.
E fu lì che una folle idea balenò in testa, rammendandomi anche dell’appuntamento. Nella disperazione del momento, constatando che erano le sei spaccate, mi rivolsi a Lleca come babysitter solo per quell’ora, massimo due.
“Avrò un compenso per questo favore al mio cognatino?” chiese Lleca, con il consueto tono da vecchio volpone e scroccone, tra l’altro
“In via eccezionale, sì”
Ed essendo io d’animo magnanimo gli concessi un anticipo, garantendogli la morte immediata se non avesse adempiuto ai patti. Mi vestii rapidamente, presi le chiavi dell’auto e diedi un’ultima occhiata alla situazione. Greta e Pedro non si sentivano più e neanche i gemelli; quindi presumo che la sua strategia ha dato i suoi frutti. Per la prima volta da quando era ricomparso Lleca nella mia vita, potevo finalmente sorridere e riabbracciare la serenità.
 
 
A quanto pare, Valeria detesta i ritardatari, sebbene non sia esule da precedenti per quanto riguarda il salvacondotto dell’orario lecito. Non fui l’unico a procrastinare la lezione, bensì la classe era ancora un guscio d’uovo quando io e un’adirata Valeria varcammo la soglia dello stabile alla periferia  di un centro commerciale.
Una coppia di sposini sfaccendata, un cino-giapponese dai modi sbrigativi e una gravida agli sgoccioli del sesto mese sarebbero stati i nostri compagni di corso.
Una classe magra a giudicare dalle dimensioni della classe, fornita dei migliori robot da cucina europei.
Il nostro chef era un uomo mingherlino, dallo sguardo affabile e un paio di baffi neri che lambivano le gote; non diverso dai classici stereotipi del perfetto uomo francese sebbene l’insolito colore grigiazzurro degli occhi. Si fregiava così tanto nell’ostentare quell’artificioso accento del sud della Francia, che destò in me una repulsione patologica di trovarmi in quel posto, accanto a Valeria e degli psicopatici di cui neanche sapevo l’esistenza.
“Je suis le chef Emiliè!”
Risi senza ritegno, accompagnato dal nerboruto sposino, subito ammonito dalla moglie, altrettanto poderosa sebbene la corporatura mingherlina. Alle mie risa, si unì una riluttante Valeria.
“Che sce da videve?”
“Un maschio con un nome da femmina!” disse Valeria, trattenendo a stento le lacrime e poggiandosi a me per non accasciarsi a terra per le risate, che stavano letteralmente invadendo ogni centimetro del nostro corpo con formicolii irrefrenabili
“Per lo meno non mi chiamo Sabine, come mio fratello. E comunque Emiliè è il mio cognome, il mio nome è Houdini!”
Detonammo nuovamente una risata grossolana, all’unisono stavolta, apostrofando in modo poco educato la somiglianza fonetica Emiliè \ Houdini, mentre gli altri ci facevano il malocchio.
Trascorse un minuto buono prima che io e Valeria ritornassimo nei cardini ed evitassimo di ridere, anche solo guardandoci negli occhi.
“E’ più divertente del previsto, sai?” mi mormorò a un orecchio, per poi spostare la mano sulla lama di un coltello, sproporzionato ai classici che uso io in cucina. Un fremito attraversò rapido la mia schiena, confondendo le reali intenzioni di Valeria sulla voglia di vedermi vivo “Però, glielo infilzerei volentieri…”
“Valeria!” la ammonii, prima che potesse dire qualcosa di cui si sarebbe potuta pentire
“Nell’occhio, che avevi capito?”
Mi sentii avvampare, sebbene sapessi alla perfezione che Valeria non è una martire santa e potrebbe congetturare pensieri poco casti nel battito di un ciglio. Frattanto io promisi a me stesso di non troncare la lezione con un fastidioso cicaleccio di sottofondo insieme alla mia compagna di corso.
“Bene, coppiette mie…”
Un momento. Iniziamo già ad eccedere di confidenza.
“Inizieremo con la prima ricetta del mio modesto repertorio, che trova radici nella natia generatrice dell’alta cucina, nel raffinato palato di noi perenni buongustai…”
La tiritera andò avanti per metà del tempo stabilito, bruciando al vento i soldi sprecati per il pagamento e uno straordinario per lo chef, di cui tutti noi sapevamo la radicata origine francese.
“Chef, allora questa ricetta?” esordì Valeria, in modo a dir poco grossolano che scaturì in me l’istinto di ammonirla con una gomitata.
Houdini sbuffò, alzando la piega dei lunghi e folti baffi.
“E va bene! Il piatto di oggi è poulet à la moutarde e non osate prendervi gioco della pronuncia!” ci ammonì, palesemente rivolto a me e Valeria, già sull’orlo di una ricaduta. Se ci fosse stata Bea, mi avrebbe certamente detto “Papà, ma è buono questo purè alle mutande?”
Mentre lo chef spiegava in modo schematico le procedure da seguire, ascoltavo svogliatamente qualche brandello di conversazione fino a perdermi nella più totale contemplazione della mia vicina, sorridente e visibilmente felice. Quel giorno aveva i capelli sciolti, come li portava a sedici anni, sebbene un po’ più sfoltiti in modo da rendere meno accidioso il suo viso, punteggiato da due radiosi occhi chiari, d’un colore indefinito. E subito, ricominciai a sudare freddo mentre i sintomi dell’eccitazione si facevano sentire. Rammento, che la mia non è una voglia ninfomane, bensì una semplice attrazione patologica che si manifesta col respirare a stento e profondamente, un progressivo acceleramento che presagiva un prossimo infarto, a cui è aggiunta la diaforesi di mani, piedi e fronte.
“Stai bene?”
“La ricetta è troppo impegnativa” buttai lì, affidandomi al caso
“Allora, iniziamo?”
Respirai per ristabilire serenità nel corpo, quando in realtà avrei avuto bisogno di una bella trasfusione di serotonina. “Si, avanti”
Per fortuna Valeria aveva trascritto la ricetta su un foglio di carta, raccattato casualmente dalla borsa. Sebbene la calligrafia distratta, riuscii a cogliere la maggior parte dei termini quali Tagliare i pezzi di pollo a fettine accanto al numero uno.
“Forza, in coppia! Iniziate!”
 “Condisci con sale e pepe” leggevo io, per poi correggerla della dose esagerata di pepe sul pollo. E Valeria sapeva perfettamente come mandarmi in bestia, dato che rammentava quanto io fossi petulante e perfezionista.
“Smettila di correggermi!” ribadiva, per poi costringermi a farmi fare tutto, dato che avevo molta più esperienza ai fornelli. Ovviamente finivamo nell’occhio del mirino a ogni nostro alterco.
“Visto, ci guardano tutti! Sei proprio imbarazzante!”
Per quella frase abbandonai ogni tentativo di ripicca, dato che rimasi come un ebete a boccheggiare a mezz’aria. A ogni nostro momento di pacatezza, distoglievano lo sguardo accidioso.
Lo chef si sedette a una cattedra a leggere distrattamente il giornale, sebbene ognuno di noi lo chiamasse ogni santo minuto per chiedere chiarimenti. Era una vera scuola, quella.
Per me e Valeria non c’era alcun problema, dato che con la mia perizia – e sottolineo mia – riuscimmo a impiegare una buona parte di tempo a chiacchierare nell’attesa che il forno finisse di scaldarsi.
“L’aveva detto quello! Forno preriscaldato!” ringhiò la mia compagna, martoriando quel povero foglio e innescando un tramestio di carta sgualcita echeggiante nella stanza. La tranquillizzai, adagiandole la testa sulla spalla e carezzandole i capelli.
“Dai, calmati…” Furono le uniche parole che riuscii a proferire, prima che mi rendessi conto di avere la mia ex praticamente sul petto, quasi vicino al torace, sentendo il suo respiro caldo trapelare sotto la maglietta.
Sebbene l’istinto mi invogliasse ad allontanarla, non ci riuscivo. Ma subitamente avvertii uno strappo all’ombelico che mi costrinse a urlare.
“Devi metterti a dieta, caro mio”
E iniziò a ridere di gusto, senza lasciar trapelare il minimo disagio o fastidio nell’essersi trovata in quella circostanza, corpo a corpo, viso su torace, respiro sotto la maglietta.
“Ah, sì. Ora vediamo” dissi, con tono teatralmente offeso. Raccattai dal recipiente una generosa dose di farina bianca che subito si proiettò sul viso e qualche ciocca di capelli di Valeria.
“Chi è il pupazzo di neve più bello del mondo?”
“Tu”
Non ebbi neanche il tempo di formulare protesta che sentii in bocca un gusto amaro e la vista ottenebrata da una coltre bianca adagiata sul viso. Non ascoltavamo nemmeno i brontolamenti del maestro che iniziò una progressiva battaglia di condimento, a partire dalla noce moscata macchiettata su una ciocca bionda del suoi capelli e i miei starnuti cronici a causa del pepe. Non erano i brontolii ripetitivi dello chef a coprire i miei pensieri, bensì le risate univoche mie e di Valeria.
“E’ stato divertente, no?” diceva lei, mentre varcavamo la soglia d’ingresso \ uscita e abbracciare i segni della brezza serale. Io imbracciavo un’ingombrante pirofila avvolta nella carta stagnola, barcollando un po’ per le scale.
“Si, specialmente quando ha avuto quell’attacco d’isteria!”
“Ma l’hai visto! Era più rosso del pollo che stava cuocendo in forno”
Ridemmo, tanto per cambiare.
“Rifacciamolo!”
“Saremo costretti… Abbiamo pagato per tre mesi laudi”
“Andiamo, Rama, non rovinare questi momenti”
Ci fu una piccola pausa, giusto il tempo di raggiungere le nostre auto, parcheggiate frontalmente all’altra.
“Con che ceni stasera?” chiesi io, al posto dei consueti saluti
“Pollo alle mandorle del ristorante cinese!”
“Penso che cenerai con qualche altro tipo di pollo. Tieni”
Le consegnai la pirofila con ancora il pollo fumante. Rimase per una buona mezz’ora a guardare il dono, stupita, per poi rivolgermi un sorriso come ringraziamento.
“E tu?”
“Pizza. Ma non dire ai bambini che è purè alle mutande!”
Ridemmo nuovamente, per poi congedarci con un rapido bacio sulle guancie. Mi sentii avvampare nuovamente, quando, per una fatalità casuale ci sfiorammo le labbra.
“Sei imbarazzato, Ordonez?” mi chiese lei. Accidenti alla circoncisione!
“No, Gutierrez. Perché tu sì?”
Roteò gli occhi e si congedò, salutandomi con la mano dal finestrino aperto.
Cavoli, mi sentivo come un’adolescente!
Appena rientrai in casa, mi ritrovai la faccia da pesce lesso di Lleca deformata in una smorfia sconvolta, il muso arrivante al pavimento e gli occhi spalancanti. E aveva la cornetta del telefono in mano.
“Tutto bene?” chiesi.
“Ha chiamato tua sorella” rispose laconico ed esterrefatto.
   
 
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