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Autore: Roxe    30/03/2011    4 recensioni
Ogni frase che iniziava con ‘io e Mary’ spostava qualcosa dentro di lui. In una direzione che non riusciva a controllare.
Un movimento nervoso ed imprevedibile, sul quale la mente non aveva alcuna giurisdizione.
E questo era in qualche modo terribilmente spaventoso, perché per la prima volta sentiva premere sulla parete della coscienza qualcosa di diverso dal pensiero razionale, che tentava d’infilarsi tra le maglie della ragione per emergere in superficie.

[ Pairing: Sherlock-John-Mary ] [ Pre-slash ] [ Rivality ]
Genere: Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Disclaimers: I personaggi da me trattati appartengono in primis a Sir Arthur Conan Doyle, che ha avuto la grazia d’inventarli alla fine del 1800, in secundis alla BBC ed ai suoi ottimi sceneggiatori che hanno deciso di riadattare l’originale in chiave moderna, in terzis (non so e se esiste) agli attori Benedict Cumberbatch e Martin Freeman, che hanno dato loro le fattezze e l’interpretazione che mi hanno ispirato questa storia.

PreScriptum Mi scuso per il ritardo nel postare il capitolo. >< Ho avuto una settimana alquanto movimentata e la stesura si è rivelata più lunga di quel che pensavo.
Spero che non capiti più.

 

 

 

Like water Like breath Like rain

 

 

 

La chiave penetrò nella toppa con un fruscio metallico.

Mary fece scorrere con cautela il sottile pezzo d’acciaio all’interno della fessura, adagiandolo delicatamente sul fondo nel tentativo di attutire il rumore dello scatto.

Di fatto non c’era nessuna possibilità che quel lievissimo suono arrivasse più in là di qualche metro oltre la soglia.
Nessuno avrebbe potuto avvertire il sussurro di  quei dentelli disordinati che s’incastravano perfettamente nella sagoma del cilindro, a meno che non si trovasse dall’altra parte dell’ingresso, fermo di fronte alla porta, con le braccia incrociate ed il volto appena alterato da una timida espressione di rimprovero.

Niente più di quello.
Solo un sorriso rassegnato, privo della benché minima sfumatura d’irritazione.

La serratura scattò con un colpo secco, cogliendola di sorpresa.

Una sola mandata.

Il suo braccio fu attraversato da un leggero tremore mentre sentiva cedere il pesante portellone sotto la pressione della mano, ancora stretta attorno alla chiave.
E lei non osò alzare lo sguardo mentre l’uscio si schiudeva davanti ai suoi occhi, lasciando entrare nell’abitazione l’intensa luce del mattino.

Già sentiva risuonarle nelle orecchie quella voce preoccupata e dolce allo stesso tempo, che le chiedeva dove fosse stata, confessandole quanto l’aveva fatta stare in pensiero, senza tradire nell’intonazione neanche la più piccola traccia di collera.

John non era tipo d’arrabbiarsi.
Non con lei.

E Mary odiava quel suo modo di perdonarle ogni cosa. Ogni volta.
Accettando sempre tutto quello che faceva senza condizioni. Senza esitazione. Senza pretese.

Come se non si aspettasse niente.
Niente di più che un’intera notte a scriverle messaggi senza risposta. Solo in quella casa vuota, in mezzo ai calcinacci e alla sporcizia, camminando sugli enormi teli impermeabili stesi su ogni pavimento di quelle stanze ancora da imbiancare, sommerse da cataste di mobili abbandonati sulle pareti, costretto a sopportare quel nauseante odore di colla e vernice che impregnava ogni muro.

La porta si spalancò lentamente, aprendosi sull’ampio corridoio d’ingresso. Vuoto.
Lei sollevò finalmente lo sguardo, avanzando con passo esitante, mentre la luce del sole alle sue spalle disegnava la sua ombra sulla plastica e sulla polvere.
Quando il suo piede destro si scontrò con una piega dispettosa del rivestimento, costringendola a spostare tutto il peso del corpo sul lato sinistro, una smorfia di dolore piegò le sue labbra verso il basso mentre la sua mano scattava d’istinto all’altezza del bacino, coprendole il fianco che celava un vistoso ematoma sotto la stoffa dei jeans.

 

Stava correndo senza guardare.
Gli occhi fissi su un asfalto che non vedeva.

L’urto con la macchina era stato violento e inaspettato, tanto da farla quasi cadere a terra, sbilanciata dall’improvviso cambio di traiettoria provocato dall’impatto.

Tutto il resto era confuso nella sua memoria.
Ricordava distintamente solo quell’ululato assordante che aveva squarciato l’aria senza preavviso. Penetrando nella gola, nelle orecchie, nei polmoni. Rendendo perfetto il suo stato di panico e confusione.

Non era fuggita.
Si era gettata d’istinto su quella creatura urlante per impedirle di lanciare il suo richiamo, che annullava ogni pensiero e attirava l’attenzione del mondo su di lei.

Doveva fermarla.

Sentiva ancora la maniglia scattare inaspettatamente, e la portiera aprirsi, mentre quel frastuono sempre più acuto le squassava il petto, percorrendo il suo corpo come una scarica elettrica, ed iniettando nelle sue vene un’incontrollabile terrore.
Poi vedeva quell’abitacolo scuro, ordinato, sul cruscotto quei mille pulsanti. E le sue dita che spostavano ogni leva, toccavano ogni tasto, muovevano ogni rotella alla ricerca del magico meccanismo che potesse restituire alla notte la sua quiete.

Avvertiva le sue mani premute contro le orecchie, ad occhi chiusi.
E quel boato che saliva e saliva ancora. S’insinuava nel cervello. Penetrava sempre più a fondo.
Rifiutandosi di smettere.

 

Poi di colpo il silenzio.

 

Il palmo posato su un volante sconosciuto. La schiena appoggiata su quel sedile di pelle, col cuore impazzito nel petto che sembrava volerle schizzare fuori dalla gola. Assordata dall’eco di quel suono  che le rimbombava ancora nella testa.
Non sapeva quanto tempo era rimasta così. Immobile senza pensare a niente. Ascoltando il suo respiro affannoso e quel sibilo. E nient’altro.

Poi ricordava la sua mano stretta attorno al cellulare, dentro la sua tasca.

Ricordava il suo desiderio di tornare a casa. Da John.
L’immagine confusa di un taxi che le attraversava la mente.
Un numero composto con furia, e il segnale di libero che si ripeteva una, due, tre volte a vuoto. Infine il consueto click. E una voce pacata e stanca, dall’altra parte della cornetta.

- London police emergency. Posso aiutarla?

Ricordava anche quello sgomento improvviso, il dito di scatto sul pulsante di chiusura della chiamata, e lo schermo bianco che lampeggiava tra le sue mani.

 

CALL
999

connection closed

 

Oh accidenti.

A quel punto i ricordi si facevano ancora più confusi ed annebbiati.
Sentiva solo la stanchezza prendere possesso di lei, mentre il buio l’avvolgeva lentamente, e la sua testa si posava su quel volante che odorava di nuovo e di tabacco. Come un sigaro toscano.

Poi era arrivata la luce.
E con lei il risveglio in quella macchina non sua, mentre il sole iniziava a scaldare l’aria, spuntando dai tetti delle case e immergendo Baker Street in una tiepida atmosfera.
Nuovamente il panico, più controllato.
Finalmente il numero giusto e poi quel taxi malandato e quell’autista scontroso, che le lanciava strane occhiate dallo specchietto retrovisore.

Immagini confuse ed irrilevanti, che svanivano dalla memoria ad ogni passo che faceva all’interno della casa, accostando con delicatezza la porta dietro di sé.

 

- Sono tornata.

 

Appena un sospiro.
Anche più leggero del suono della chiave che girava nella serratura. Impercettibile.

Mary avanzò lungo il corridoio, percorrendo il sudicio telo di plastica che proteggeva il parquet di noce chiaro, installato da appena una settimana.

L’abitazione era immersa nella calma, e lei procedeva senza produrre il più piccolo suono, calpestando con cautela quello spesso strato di polvere che ad ogni passo depositava un velo opaco sulle sue ballerine scure.
D’un tratto avvertì un tonfo sordo provenire dal piano di sopra, direttamente sulla sua testa. Dove si trovava la loro camera da letto.

Doveva essere già sveglio.

Presto sarebbe sceso per la scala in fondo al disimpegno e l’avrebbe guardata con un dolce sorriso.
Senza rimproverarle nulla.

Mary fece un altro passo in avanti, e il suo sguardo fu improvvisamente catturato dalla luce intensa che proveniva dalla camera affacciata sulla sinistra del corridoio, ancora priva di porta, che un giorno abbastanza lontano nel tempo sarebbe diventata il loro soggiorno.

Era la stanza più grande e bella della casa. Il motivo per cui si erano decisi a prendere quella e nessun’altra, innamorandosene al primo sguardo.
Un grande vano di quasi venti metri quadri, di forma perfettamente quadrata, con un alto soffitto e due enormi e luminose finestre esposte a est, che al mattino facevano entrare un chiarore talmente intenso  da graffiare gli occhi, immergendo l’ambiente in un’atmosfera irreale.

Lei si affacciò nella luce, stringendo le palpebre per proteggersi da quello splendore, pronta a sopportare il peso di quel vuoto.
Di quel nulla che aveva da offrire, paragonato alla confusione, alla varietà, alla follia, alla ricchezza da cui era fuggita correndo, senza guardare. E che nonostante tutto era ancora nei suoi occhi, impressa come una ferita sulla retina.

Non c’era altro in questa casa, a parte calcinacci, barattoli di vernice, odore di nuovo e grandi camere riempite di niente.
Tutto quello che poteva aspettarsi da lei.
Tutto ciò che aveva da offrirgli.

Era una stanza vuota. Immersa nella luce.

 

Ma quando i suoi occhi si furono finalmente abituati al riverbero, iniziando ad intravedere i contorni delle pareti ed il legno scuro del pavimento, Mary vide che non lo era più.

Lungo il muro era comparsa una mensola azzurra, che attraversava il locale da un estremo all’altro, flettendosi leggermente al centro a causa dell’eccessiva lunghezza.
Nonostante i numerosi segni di matita tracciati nel tentativo di calcolare l’altezza nel modo corretto, l’estremità sinistra era vistosamente più alta della destra, ed il piano scorreva sbilenco verso l’apertura della finestra, disegnando un’incerta linea obliqua.
Sull’intonaco steso di fresco campeggiavano una serie di fori sbreccati, ai quali corrispondevano con precisione millimetrica tanti piccoli mucchietti di polvere sparsi sul pavimento in diligente fila indiana.

Un tentativo chiaramente fallimentare d’arredamento in solitaria.

Doveva aver passato tutta la serata a montarla, quella mensola.

E sotto quello scaffale storto e incurvato, appoggiata al centro esatto della parete crivellata di colpi, c’era quella piccola cassettiera malconcia, che aveva fatto il suo ultimo viaggio fissata sul tetto della sua auto, e ora giaceva accostata al muro, con una zeppa di fortuna piazzata sotto la gamba posteriore per mantenerla in piano sul pavimento sconnesso, inondata da quella luce violenta che ne esaltava ogni ammaccatura.

Facendo scorrere lo sguardo nei solchi profondi che marcavano la superficie di quel vecchio legno il volto di Mary si schiuse in un sorriso, mentre lasciava che il vago residuo d’angoscia ancora arrotolato attorno al suo petto evaporasse a poco a poco nella contemplazione di quel miracolo.

 

Un piccolo mobile sporco, che riempiva l’intera stanza.

 

E il cellulare di John posato su di esso, ancora acceso.

 

                           Bip Bip

 

D’un tratto il telefono iniziò a vibrare, emettendo due squilli ravvicinati.
Il display s’illuminò, lampeggiando per qualche istante ad intervalli regolari, per poi tornare a spegnersi.

Era arrivato un messaggio.

Mary trattenne il respiro avvertendo quel trillo, e il suo cuore perse un battito.
Gli occhi furono calamitati da quel piccolo apparecchio scuro, mentre una misteriosa agitazione s’impadroniva di lei.
Senza nessuna ragione.

Eppure c’era stato qualcosa in quel suono, in quella scossa improvvisa, in quello schermo ad un tratto bianco e poi nuovamente nero. Che le aveva trasmesso una strana sensazione di pericolo.

Come un presentimento.

E la sua voce suonò forte e incalzante, arrivando alle labbra prima che il pensiero potesse trattenerla.

 

- JOHN! MESSAGGIO!

 

Un altro tonfo ben più distinto del primo fu la risposta al suo richiamo, seguito da una serie di passi affrettati che risuonarono sopra la sua testa, attraversando il pavimento e allontanandosi verso l’imbocco della scala.
Mentre lo sentiva scendere precipitosamente la prima rampa lei indietreggiò fino a raggiungere la soglia, sporgendo la testa nel corridoio per vederlo approdare sul piccolo pianerottolo, con indosso soltanto una T-shirt bianca spiegazzata e quei suoi eterni jeans infilati di fretta, senza cintura, con l’ultimo bottone ancora slacciato.
La luce che filtrava attraverso la piccola finestra alle sue spalle attraversava i suoi capelli arruffati, disegnandogli attorno al viso una sorta di scomposta aureola luminosa.
Non appena i suoi occhi scorsero l’esile figura bionda che spuntava dal soggiorno lui sollevò la testa di scatto, fissando lo sguardo nel suo.

E Mary smise di respirare nel momento esatto in cui si scontrò col suo volto, spalancando gli occhi.

 

- Ma sei impazzita?!

 

Una voce inaspettatamente furente raggiunse le sue orecchie mentre osservava con stupore le sopracciglia di John aggrottarsi e la sua mascella contrarsi in una smorfia di collera intensa e genuina che dal viso si espandeva in tutto il corpo, tendendo i muscoli del collo e del torace in una posa aggressiva.

Era arrabbiato.

                                     Bip

Il cellulare reclamava attenzione, ricordando il suo messaggio in entrata non ancora letto.

Ma lei non si voltò a guardarlo, incapace di staccare gli occhi da quella figura minacciosa che avanzava verso di lei a grandi passi, scendendo gli ultimi gradini e percorrendo il corridoio con falcate decise.

- Dove sei stata tutta la notte?!

Si fermò di fronte a lei, mentre il suo sguardo si riempiva lentamente d’apprensione e di sollievo, senza perdere neanche un po’ della sua collera.

- Mi hai fatto preoccupare da morire!

 

Era davvero arrabbiato.

 

Mary sorrise. E gli occhi s’inumidirono.
Le palpebre si strinsero tentando di trattenere le lacrime, che non erano di gioia.
E non erano di dolore.

Ma erano la somma di tutta la tensione. La sofferenza. E la paura. Che per una quantità incalcolabile di ore avevano stritolato il suo corpo e la sua mente, imprigionandoli in una morsa asfissiante. Ma ora allentavano finalmente la presa, sconfitte da quello sguardo furioso ch’era soltanto per lei.
E non serviva nient’altro.

Ricacciò indietro quelle lacrime, emettendo un lieve sospiro.

Ora nulla poteva più spaventarla.

 

                                               Bip

 

- Leggi il messaggio.

John non si voltò. Incurante delle sue parole e di quel richiamo insistente aggrottò ancora di più le sopracciglia ed incrociò le braccia con un gesto nervoso.

- Non cercare di cambiare discorso!

Non era così.
Mary lo toccò delicatamente su un braccio, spingendolo all’interno della stanza senza smettere di fissarlo.

- Leggilo.

Lui ricambiò il suo sguardo con stupore, interdetto da quel volto sorridente e sereno che senza curarsi della sua collera gl’indicava con un delicato cenno del capo il telefono abbandonato sulla cassettiera dalla sera prima, alle tre di notte, quando aveva ricevuto quel vago e tardivo segno di vita.

Con passo incerto si avviò verso il mobile, spostando finalmente l’attenzione sull’apparecchio che giaceva su un angolo del piccolo piano di legno.

- Non capisco cosa-…

- Leggi.

La fissò ancora, emettendo un sospiro seccato. Poi prese il telefono in mano con uno strattone.

- Lo leggo, lo leggo! Ma non credere di cavartela così sai?

Cliccò distrattamente sul tasto di apertura, continuando a guardare Mary negli occhi con aria di rimprovero.

Senza nemmeno leggere il mittente.

 

Abbassò infine uno sguardo imbronciato sul messaggio.

- Poi mi spiegherai cosa-…

 

La voce gli morì in gola.

E John smise improvvisamente di respirare.

Mary vide distintamente il suo corpo irrigidirsi. Come colpito da una sferzata violenta.
Inaspettata.

Talmente potente da incurvargli la schiena.

La bocca si aprì di scatto, senza emettere alcun suono.
Le dita si annodarono attorno al telefono, chiudendosi in un intreccio serrato.

Gli occhi spalancati. Incollati su quel piccolo schermo luminoso. Bevevano quella luce accecante che rifletteva un’immagine dalla quale sembravano non potersi più staccare.

E le braccia iniziarono a tremare. Percorse da un fremito incontrollabile.

Un terremoto.
Che partendo dalle mani si espandeva in tutto il corpo.
Mentre lui restava paralizzato.
Affogato in quella luce che feriva gli occhi.

E impediva di guardare.

 

Lei prese fiato. Senza distogliere lo sguardo.

Se lo aspettava.

Conosceva il rischio che stava correndo.
Fin dall’inizio.

Aveva risvegliato la bestia dal suo sonno, l’aveva spinta proprio là dove non voleva che andasse, ed ora non le restava che assaggiare l’amaro frutto di tutti i suoi sforzi.
Non poteva fare altro che osservare quelle zanne affilate che affondavano finalmente nella sua preda, per non lasciare più la presa.

Era preparata.

Eppure sentiva il pavimento mancarle sotto i piedi, ed il petto accartocciarsi su se stesso con un lacerante stridore, mentre guardava impotente le migliaia di chilometri che si accumulavano tra lei e John. Fermo ad un paio di metri di distanza.
E ogni secondo più lontano.

Era giunto il momento di pagare il prezzo della sua follia.

 

- Cosa dice?

 

Non la sentiva.

Non doveva averla sentita.
Perché rimase immobile con gli occhi sbarrati, continuando a trattenere il respiro.

Poi d’un tratto si riscosse, l’aria uscì di colpo dai suoi polmoni, mentre un imprevedibile sorriso spuntava sulle sue labbra, distendendo il suo volto contratto in un’espressione divertita.
E la sua voce suonò calda e leggera, percorsa da una sottile eccitazione, mentre scandiva quel messaggio lentamente, assaporando le parole ad una ad una.

 

- Dice: «Vieni subito se puoi. Se non puoi vieni lo stesso. S. H.»

 

Alzò adagio la testa, guardandola con quel sorriso in faccia, che si allargava sempre di più, a dispetto dei suoi sforzi di trattenerlo, evitare di renderlo troppo sfrontato. Sfacciatamente intriso di felicità.

Un sorriso che faceva male.  Ed era bellissimo.

- Che accidenti vuol dire!

John scosse la testa, aggrottando leggermente la fronte, mentre tornava a fissare quel display imprigionato tra le dita come un tesoro fragile e prezioso, che per nessuna ragione al mondo avrebbe lasciato cadere.

Mary si coprì gli occhi con le mani, iniziando a ridere.

Non era ciò che si aspettava.
Ma in qualche modo aveva funzionato.

In una strana, imprevedibile maniera. C’era riuscita.

A cancellare quello sguardo.

­
Lentamente abbassò le braccia, e prese un grande respiro, raccogliendo tutto il coraggio che aveva per poter guardare ancora il suo volto. Dal quale era completamente sparita ogni traccia di collera. E di malinconia.

Restò ferma sulla soglia ancora qualche istante. Fissando lo splendido sorriso dell’uomo che amava.
Felice per lui, e disperata per se stessa.
Ma di una disperazione dolce, non troppo dolorosa.

Che poteva sopportare.

Scoprendosi in grado di sostenere quegli occhi pieni d’ebbrezza, incapaci di trattenere una gioia ch’era sparita dal suo viso da dieci giorni esatti.
E adesso era tornata.

Intensa e crudele.

 

Mary sorrise ancora.

Perché non poteva fare altro.
Perché in fondo era esattamente quello che voleva.

Vederlo di nuovo così.

 

Si staccò lentamente dalla porta, entrando nel sole che inondava la stanza e fermandosi al suo fianco. Appoggiandosi a lui delicatamente, spalla contro spalla, e sporgendo la testa in avanti verso lo schermo sul quale lampeggiavano le laconiche parole di Sherlock Holmes.

 

- Non sai leggere John!

                                      Le donne lo sanno.
                                             C’è poco da fare.

Mary alzò la testa di scatto e sventolò l’indice sotto il suo naso con aria di rimprovero, posandolo poi sul display proprio all’inizio della frase.

- Non vedi? C’è scritto «

                                                         Lo sanno da sempre.

John seguì istintivamente il suo dito, tentando stupidamente di trovare nella frase la lettera da lei pronunciata.
L’unghia sottile scorse adagio sulla seconda riga, e Mary socchiuse gli occhi, fingendo di sforzare la vista come un esperto archeologo intento a decifrare l’antico codice di una civiltà estinta da millenni.

- …Poi c’è un «need»

- Mary…
                                               
                     Lo sanno comunque per prime.

Pronunciò il suo nome con tono acuto e infantile, mentre alzava gli occhi al cielo con una risatina incerta, tentando inutilmente d’impedire che sulle sue guance affiorasse il lieve rossore tipico dell’imbarazzo. E della speranza.

- …Guarda qui in fondo! Leggi bene, è proprio «you»!

 

                                                   E quelle che sanno spiegarti l’amore.

 

John tornò ad abbassare lo sguardo verso di lei, dandole una spallata scherzosa, non abbastanza forte da staccarla da lui ma abbastanza da costringerla ad alzare la testa.

- Molto spiritosa!

Lei ricambiò lo spintone con tutta la forza che aveva, avvertendo la resistenza del suo corpo che inizialmente cedette alla pressione per ricadere poi sulla sua spalla riguadagnando la posizione perduta.
Infine alzò gli occhi nei suoi. Fissando con dolcezza quelle guance arrossate e ascoltando quel respiro veloce.
Impaziente.

 

- Che aspetti?

                              O provano almeno a strappartelo fuori.

- Ah… io-…

Una voce incerta, tradita dalla frenesia che si era impossessata del suo corpo, e che cercava maldestramente di controllare.
Ma Mary lo sentiva chiaramente. Fremere addosso a lei.

 

- Vai.

 

                E fanno più male.

 

Lui la guardò incredulo.

- Ma… È ancora tutto da montare qui…

- Non preoccuparti! Adesso tocca a me litigare un po’ da sola con qualche mensola!

Mentre parlava si staccò dal suo fianco ed avanzò a grandi passi nella stanza, fermandosi di fronte alla finestra che affacciava sul giardino.
Chiuse gli occhi e lasciò che il tepore di quella giornata luminosa le scaldasse il viso. Poi allargò le braccia di scatto e fece due rapidi giri su se stessa, assaporando per qualche istante quella vertigine.
Senza perdere l’equilibrio.

Alla fine del secondo giro tornò a voltarsi verso di lui, fissandolo con aria allegra, senza abbassare le braccia.

- Darò un ballo mentre sei via! Guarda quando spazio!

D’un tratto aggrottò la fronte, facendosi improvvisamente seria.

- Non voglio vederti fino a stasera!

Ma John rimase fermo accanto al muro, fissandola a bocca aperta con un’espressione titubante. Incapace di muoversi.

E Mary iniziò a sentirsi davvero stufa di dover fare sempre tutto da sola.

Si diresse verso di lui a testa bassa, lo afferrò per le spalle e lo costrinse a voltarsi, spingendolo energicamente fuori dalla stanza.
Il peso morto si lasciò trascinare docilmente fino al portone, senza opporre la minima resistenza, mentre depositava nella tasca posteriore dei jeans il suo prezioso, preziosissimo tesoro.

Una volta davanti all’ingresso lei lasciò la presa, tirandogli una sonora pacca sulla schiena.

- Ciao Ciao John!

Era ora di finirla.

Senza aspettare alcuna risposta tentò di allontanarsi a passo svelto lungo il corridoio.

Ma lui fu più veloce.

Si girò di scatto e l’afferrò per un polso.
L’attirò a sé con forza mentre le sue braccia si avvinghiavano attorno a quella vita sottile. E la bocca fu di colpo sulla sua.
In un attimo i piedi non toccarono più terra, le labbra affondarono in quelle di John e il suo sapore le entrò in gola.
Sentiva le sue mani stringersi intorno ai fianchi, premendoli contro i suoi, comprimendo senza saperlo
quel livido che pulsava sotto la stoffa. Ma Mary non sentì alcun dolore mentre restava sospesa sul suo petto. Appoggiata al battito frenetico del suo cuore.
Allungò le braccia oltre le sue spalle e lo afferrò a sua volta. Affondando le unghie nella sua schiena, sul suo collo, tra quei capelli arruffati. Lo strinse mentre accarezzava la sua lingua e percepiva il suo sangue pulsare nelle vene ad una velocità affannosa. Sotto di lei. Addosso a lei.

Solo per lei.

 

                       Va bene.

             Va bene così.

 

Di colpo tirò indietro la testa, osservando con un brivido di piacere il volto di John sporgersi in avanti alla ricerca del contatto perduto, per poi aprire gli occhi contrariato.
Lei lo guardò con aria maliziosa, mentre lo sentiva allentare leggermente la presa, lasciandola scivolare contro il suo corpo fino a farle toccare nuovamente terra. Prigioniera tra le sue braccia.

Mary si adagiò nella sua stretta.
Ancora qualche istante.

Un altro po’ di quel calore.

Poi appoggiò le mani sul suo petto e lo spinse via.
Con una forza inconsueta.

 

- Fila!

 

John barcollò all’indietro, colto impreparato da quella mossa improvvisa.
La fissò sorpreso per poi ricambiare il suo sorriso divertito, portandosi la mano tesa vicino alla fronte in un teatrale saluto militaresco.

- Agli ordini mia signora!

Girò sui tacchi come un perfetto soldato, afferrò la maniglia e la tirò a sé, facendo un passo fuori dalla porta e sparendo nel sole mattutino di quella splendida giornata di Marzo.

 

Mary non si mosse.
Continuò a fissare il portone chiuso, portando adagio entrambe le mani sul fianco, a coprire quel dolore che aveva ripreso a pulsare.
E faceva sempre più male.

Chiuse gli occhi, chinando mestamente la testa. Mentre un desolato sorriso compariva su suo volto.

Alla fine non aveva voluto saperlo, dove era stata tutta la notte.

 

John si fermò sul marciapiede, a qualche passo dalla porta. E alzò una mano davanti agli occhi, per ripararli dai raggi del sole.

Si guardò intorno, cercando di ritrovare l’orientamento in quel luogo sconosciuto, mentre i suoi occhi percorrevano impazienti entrambi i lati della strada, saltando qua e là febbrilmente alla ricerca di qualcosa di familiare, un qualsiasi punto di riferimento che lo aiutasse a ricordare dove aveva parcheggiato il maggiolino la sera prima.

 

Presto.

 

L’aria era fresca, nonostante tutto. Ma lui non l’avvertiva.
Il suo corpo accaldato era percorso da un fremito leggero. Le braccia scoperte oscillavano attorno ai fianchi, incapaci di controllare il tremore. Il respiro accelerato alzava ed abbassava ad un ritmo irregolare il suo petto coperto solo da un sottile strato di cotone bianco.
Il cervello pulsava ad una velocità vertiginosa. Ed il cuore con lui.

Finalmente lo vide. Il vecchio catorcio.
Stretto tra un furgone bianco ed una piccola macchina italiana, di quelle che andavano tanto di moda in quel periodo.

Presto.

La sua mano s’insinuò di scatto nella tasca afferrando le chiavi con una forza spropositata. E l’acciaio penetrò nel palmo della mano lasciando il suo solco nella carne, mentre John camminava precipitosamente lungo il marciapiede, dirigendosi verso l’auto.

Arrivò davanti alla portiera e tirò fuori la chiave, cercando d’infilarla nella serratura.

Presto.

Ma la sua mano tremava, le sue dita perdevano la presa. E lui continuava a sbattere quella lama metallica contro la toppa cilindrica senza riuscire a centrare il foro, ricoprendola di graffi.

 

Fanculo.

 

Allontanò la mano dallo sportello.
Chiuse gli occhi e fece un profondo respiro.

Poi alzò la testa e si guardò intorno.
Che distanza poteva esserci tra Little Titchfield Street e Baker Street?
Ottocento, novecento metri?

Dopotutto girare per Londra in macchina alle otto di mattina era di per sé stessa un’iniziativa temeraria.
Per non dire stupida.

John si staccò dalla portiera.

Alzò la testa oltre le case, il traffico e la folla. Puntando lo sguardo in un’unica direzione.

                               
                                                      E iniziò a correre.

 

 

 

C’è una donna che balla in una stanza vuota.
Ruota su se stessa fino a farsi girare la testa, aspettando il ritorno di un uomo che ama.

           E sa che sarà una lunga attesa.

 

C’è un dio affacciato alla finestra, che spinge il suo sguardo ansioso al di là del mare, aspettando che arrivi un uomo a raccogliere i pezzi del suo cuore dal pavimento.

                            E sa che dovrà farselo bastare.

 

C’è un uomo che corre a perdifiato per la strada, attraversando a piedi l’Atlantico nel disperato tentativo di ricucire i due pezzi stracciati della sua anima.

 

                                                                 E sa che non ci riuscirà.

 

 

 

                                                                          Le donne lo sanno
             
                                                            Che niente è perduto

 

 

            Che il cielo è leggero però non è vuoto

 

 

                                                  Le donne lo sanno

                                

 

 

                                                                        Le donne l’han sempre saputo

 

 

 

 

   
   

 

 

 

Note:
1. Il titolo di questo capitolo è un estratto della song di Leann Rimes titolata -per l’appoint- I need you.
Postponendo suddetto estratto alla ‘traduzione’ di Mary del messaggio/citazione di Holmes (che in nota 2 spiegherò più approfonditamente) si ricava un’intera frase della canzone, che sarebbe I need you like water, like breath, like rain, ovvero Io ho bisogno di te come dell’acqua, come di respirare, come della pioggia.
Un po’ tanto (troppo) *carie* romantica e smielosa per i miei gusti, ma l’ho scelta -oltre che per il significato, ovviamente- anche per conferire un tono iperbolico al tentativo di Mary di far capire a quello zuccone di John ciò che ormai solo lui non riesce ad afferrare.
I need you l’ho lasciato in inglese anche nei dialoghi perché suona cento volte meglio dell’italico ho bisogno di te… :/  Il verbo italiano non solo in realtà non è un verbo ma una locuzione verbale -ergo una creatura grammaticale farraginosa  e composita- ma è pure intransitivo, e quindi blocca il bisogno sul soggetto, costringendoci ad aggiungere preposizioni fastidiose al complemento oggetto per legarlo alla frase. L’inglese è transitivo e semplice. Ed in più ha anche un bel suono.
Ai nid iu.
È un modo più bello, preciso e musicale di descrivere lo stesso sentimento.

2. «Come at once if convenient. If inconvenient come all the same. S. H.»
Questo è il telegramma originale che Holmes spedisce a Watson all’inizio del racconto The Creeping man –una delle ultime avventure scritte da Doyle sul suo consulting detective preferito prima di farlo ritirare nel Sussex- per richiamarlo a Baker Street dopo la sua famosa ‘desertion for a wife’.
Io mi sono limitata a riprendere alla lettera il testo del telegramma, trasformandolo in un messaggino.
In realtà i due eventi da me accostati (il matrimonio di John e Mary con relativo trasloco e il telegramma di Holmes) nella cronologia canon sono lontanissimi del tempo e nient’affatto collegati. Infatti il primo evento si svolge nel 1888, mentre il telegramma è datato 1903, dopo che Watson ha vissuto con la moglie Mary almeno fino al 1894, è tornato a vivere al 221B (N.B. su ESPRESSA richiesta di Sherlock, il quale vi ricordo non ha mai avuto in vita sua un altro… ‘coinquilino’ a parte John, e pur di riaverlo in casa arriva addirittura a rilevare in segreto il suo studio medico per eliminare ogni ostacolo al suo ritorno a Baker Street. Res ipsa loquitur …) per poi andarsene nuovamente proprio nel 1903.
Watson di fatto ‘abbandona’ Holmes per andare a vivere con una donna ben DUE volte -brutto stronso…**- e il telegramma ricade appunto nel secondo periodo di allontanamento a causa dell’(eventuale) seconda moglie. (la conta delle mogli di Watson è assai complessa, e me la riservo per le note finali).
Io mi sono qui limitata ad accorpare le due volte, ‘trasferendo’ il telegramma dal secondo trasloco al primo. 
Per inciso…
Non vi è dubbio alcuno che anche nel racconto di Doyle il telegramma di Sherlock Holmes avesse la stessa identica traduzione che propone Mary. E in quel caso riesce ad arrivarci persino Watson.

3. As always. Ve lo scrivo nero su bianco perché mi spiacerebbe se non si capisse.
La citazione letterale del telegramma di Holmes è stata volutamente messa a confronto con un messaggio di tutt’altra intensità ed empatia, per certi versi completamente fuori dalle corde di Sherlock. Ma è proprio l’esistenza di questo primo messaggio mai spedito che getta una luce del tutto diversa sul secondo.
Il senso di questo secondo messaggio, se messo a confronto col primo, è che Holmes ha deciso di NON comportarsi da persona corretta e di NON lasciare andare John.
In sostanza ciò che noi non vediamo è Sherlock che cancella quel testo che di fatto, pur dichiarando in qualche modo i suoi ‘sentimenti’ per lui, liberava Watson dal loro legame, sostituendolo con un messaggio in cui lo reclama perentoriamente vicino a sé.
Se poi inquadriamo temporalmente la questione ci rendiamo conto che Holmes è stato dalle tre di notte alle otto di mattina a tentare di mandare quel messaggio.
Magari ne ha scritti cento, via via sempre meno espliciti, fino ad arrivare all’ultimo. Oppure è rimasto a fissare il primo per ore, provando a mandarlo senza riuscirci, per poi cancellarlo e sostituirlo solo alla fine.
Qualunque sia stata la strada che ha portato il primo messaggio a trasformarsi nel secondo, è stata lunga e faticosa.

4. Spero che si sia capito il paragone tra le due diverse ‘stanze’ che vengono messe a confronto in questo capitolo: La stanza di Holmes è strapiena di cose, ricca e complicata, stimolante in ogni suo angolo. Ma buia.
La stanza di Mary è vuota, ha solo pareti bianche e alti soffitti, ma è luminosa, ed è in quella stanza vuota che John ha messo il suo mobile, riempiendola.
In questa storia i luoghi raccontano più delle parole, perché tecnicamente stiamo parlando di un trasloco, non va mai dimenticato. John sta cambiando CASA.
Per questo parte della simbologia è imperniata sul confronto tra le due abitazioni. Quella di Holmes è stracolma di oggetti, eppure ora è vuota. Quella di Mary al contrario è tecnicamente vuota, ma basta una vecchia cassettiera per riempirla completamente.
Le due stanze sono una metafora locativa di Mary Mostan e Sherlock Holmes. Sono i due luoghi, opposti tra loro e così differenti, tra i quali Watson si divide. E John non sa, non può e non vuole scegliere tra i due, perché ha bisogno di entrambi.

5. Qualcuno di voi forse si starà chiedendo qual’è l’antifurto per auto che fa partire la sirena lasciando aperte le portiere della macchina… ** Il nemico contro cui si è battuta Mary in realtà non è un vero e proprio antifurto quanto piuttosto un sensore volumetrico, che i maniaci del graffietto possono installare all’esterno delle loro preziose autovetture in modo che la macchina lanci un grido disperato d’aiuto ogni volta che la solita vecchia rintronata tenta di parcheggiare rimbalzando sul suo cofano.
Questi sensori si limitano a rilevare presenze moleste o urti alla vettura, ma non offrono nessuna reale protezione ai tentativi di furto. A parte la sirena, ovviamente.

6. Le frasi in corsivo che compaiono un po’ a giro per la fic, chiudendo il capitolo, fanno parte del testo della canzone Le donne lo sanno di Ligabue.

7. Il 999 è in Inghilterra l’equivalente del nostro 118 e del 911 statunitense. 
Ho lasciato in inglese la frase d’attacco del centralinista, perché in Italia si limitano ad un laconico «118», mentre in Inghilterra (e in America) si sdilinquiscono in questa formula, che tradotta in italiano si trasformerebbe in qualcosa d’orribile tipo «emergenza della polizia londinese».

8. Little Titchfield Street –dove ho piazzato la casa di John e Mary- è una parallela di Mortimer Street, la strada su cui si affacciava realmente il giardino sul retro dei Watson secondo il canone.
La via in questione dista da Baker Street all’incirca un chilometro in linea d’aria. Sono due strade relativamente vicine, tanto che il fresco sposino John all’inizio del racconto Uno scandalo in Boemia finirà per passare ‘casualmente’ davanti al 221B una sera rientrando da una visita privata, imbattendosi così in uno dei clienti di Holmes.

9. La piccola macchina italiana che va tanto di moda in questo periodo parcheggiata accanto al maggiolino di Mary è ovviamente una FIAT 500. ** Avevate dubbi?

 

Nota extra per Watson:
Go Johnny, go! Io tifo per te! Due al prezzo di uno!
Si fa così! Rossetto e cioccolato. Che non mangiarli sarebbe un peccato… ** (cit. Ornella Vanoni)

Johnny be good... **
  
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