Film > Remember me
Segui la storia  |       
Autore: crazyfred    31/03/2011    14 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
When you crash in the clouds - capitolo 7













Capitolo 7
Things you cannot know







soundtrack




“E questo sarebbe il posticino carino di cui parlavi?”
Se avessi dovuto descrivere, di primo acchito una persona come Allison, avrei usato espressioni come sarcastica e senza peli sulla lingua.
Non sapeva proprio trattenersi: ma questo, che agli occhi degli altri sarebbe apparsa come maleducazione ai miei era invece ingenuità, tipica di una persona tutto sommato sprovveduta, che aveva dovuto cavarsela da sola nel mondo fin da ragazzina. Aveva una grande forza e una stoica determinazione, figlia delle continue lotte in quel porcile che era il suo pane quotidiano; eppure restava un qualcosa che sa di innocenza assopita ma non per questo perduta.
Eravamo davanti alla miglior pizzeria italiana di New York. Non era uno di quei surrogati che circolavano in giro, dove il proprietario l’Italia non l’ha mai vista, nemmeno in cartolina, e il pizzaiolo, cinese di Shangai che al massimo può condire la pizza con gli ingredienti degli involtini primavera.
Era per pochi intimi, quelli che riuscivano ad accaparrarsi le poche sedie di legno pieghevoli ed i tavolini di plastica, apparecchiati con tovaglie di carta e l’unica cosa che si salvava dal risparmio erano posate, bicchieri e piatti, quest’ultimi coloratissimi con disegni dei più classici cliché italiani. I prezzi eccellenti, la cucina ancora di più.
Il locale era stato creato in un garage di una via un po’ nascosta, ai bordi delle strade più trafficate, di quelle che non si prendono mai quando si è da soli eppure l’aria di casa che vi si respirava dava l’impressione di essere in qualche angolo della costiera amalfitana o in una viuzza di Roma, un affresco della Dolce Vita degli anni ’50. I profumi, le luci e i colori riuscivano a catapultarti nella bella penisola già a duecento metri di distanza. Eppure in pochi la conoscevano: sono pochi, infatti, i newyorkesi che si addentrano per strade secondarie se non strettamente necessario. Il mio diciamo u piuttosto un incontro casuale, come del resto tutti i migliori nella vita di un uomo, dopo l’ennesima notte da diciottenni ubriachi clandestini, che alle quattro del mattino vanno in giro senza meta, aspettando di veder sorgere il sole dalla foce dell’Hudson. Fu così che l’odore di pane fresco e appena sfornato ci invitò ad entrare in questa piccola bicocca in piena Midtown e conobbi Nando, un pizzaiolo italiano di mezza età, dal cuore grande e dalla risata sempre pronta. Forse era uno stereotipo che conservava dell’italiano medio, un’immagine fittizia che conservava per il cliente, ma finché la cucina fosse rimasta quella, chi se ne frega se la sua è tutta una recita.
“La mia definizione di posto carino è un posto dove si mangia bene” le spiegai “ Spero che per te valga lo stesso …”
“Assolutamente sì” confermò “oltretutto ho una gran fame. Ma questo posto non mi da granché fiducia …”
“Stai zitta … donna di poca fede …” la rimproverai, con un tono palesemente giocoso “E seguimi se hai fame. Altrimenti puoi anche andartene pure a casa. Da sola … che io mi fermo qui a mangiare”
“Non ci penso nemmeno ad andarmene” disse provocandomi, prendendo un passo svelto per entrare nel locale. Era abbastanza buffa ed impacciata nei movimenti tentando di fare la risoluta “ e chi se la perde una pizza a sbafo”.
“Vaffanculo! Mi hai fregato!!!” risposi, con tutto il sentimento che quell’imprecazione poteva contenere.
Era ovvio che avrei pagato la cena anche per lei, è questo quello che a quanto ne potevo sapere, fa un gentiluomo con la donzella in difficoltà della giungla moderna, ma odiavo essere preso in contropiede da una ragazzina furba e smaliziata, che ancora tanto doveva conoscere del mondo, almeno di quello vero, eppure riusciva a tenermi perfettamente testa.
Seduti a tavola e aperti i menù, ci scoprimmo entrambi amanti della capricciosa, ma soprattutto mi sorpresi di quanto voracemente potesse essere in grado di svuotare il piatto di patatine fritte prima e di pizza poi.
“Toglimi una curiosità” le chiesi approfittando dell’unico nanosecondo in cui non aveva la bocca piena – non che non riuscisse a parlare anche senza il boccone tra le fauci, ma non mi sembrava un’esperienza così emozionante ficcarle due dita in gola per liberarle le vie aeree nel caso in cui il cibo le fosse andato di traverso – “ma quanti anni hai? Seriamente …"
“18 il prossimo 20 gennaio E sinceramente non vedo l’ora …”. Come sospettavo era ancora minorenne, ma per fortuna presto non lo sarebbe stata più: un guaio in meno di cui occuparsi.
“Così potrò smettere di giocare a guardie e ladri …” aggiunse, bevendo un sorso di birra che il figlio adolescente di Giuseppe, Vince, magro e spilungone, era appena venuto a portarci. Lei non avrebbe nemmeno dovuto berla, ma l’I.D. falso le permetteva cose che normalmente non sarebbero consentite, come bere … o lavorare in uno strip club.
“Naturalmente …” intervenni, comprensivo “… eppure non mi risulta che per fare il tuo lavoro basti avere …”
“Non mi riferivo a quello” precisò, allontanando lo sguardo da me, puntando verso un angolo non meglio identificato del locale. Lasciò la frase in sospeso, segno inequivocabile che si era spinta troppo oltre per parlarne, anche con me che a questo punto, sperai, ero qualcosa di più di uno sconosciuto. E non certo pretendevo da lei di essere totalmente aperta con me, non così subito, io stesso sarei stato completamente in difficoltà a raccontarle le disgrazie che avevano caratterizzato la mia esistenza prima di conoscerla. Decisi così di cambiare argomento e tornare sul leggero; se lo meritava, per tutto lo sforzo, l’impresa titanica che aveva portato a compimento, quel pomeriggio, sul piano emotivo.
“E così …” le dissi “ti sei presa un periodo di vacanza …?”
“A dir la verità abbastanza forzato” precisò lei. Mi chiesi se ci fosse un solo aspetto della sua vita che non avesse il retrogusto amaro della coercizione e del sopruso.
“Sì” continuò a spiegare “c’è stata una soffiata che quei cazzo di sbirri di merda verranno a controllare il club nei prossimi giorni … e anche se ho i documenti falsi è meglio avere prudenza. È stata una cosa improvvisa … non è normale in questo periodo dell’anno …”
Volli sperare che dietro a quel controllo straordinario si celasse quella santa donna di mia madre, che nelle ultime settimane avevo stressato fino allo sfinimento, affinché si informasse e si impegnasse per farli chiudere. Una sua telefonata ai numeri giusti e pressioni fatte a gente che conta fanno sempre miracoli. D’altronde, lei che aveva possibilità concrete di agire, di cambiare le cose, non poteva assumere un comportamento omertoso solo per un vizio di forma della macchina burocratica.
Probabilmente, anzi quasi certamente, questi erano solo sogni di un ragazzo idealista, cresciuto a pane e Gandhi, ma restava comunque il fatto che c’era la reale possibilità che quel posto chiudesse.
“Bene” esclamai, decisamente di buon umore, sollevando il mio boccale di bionda a mo’ di brindisi “speriamo che ci sia un buon motivo per farlo chiudere, allora!”
“Ma che cazzo dici?” mi chiese lei contrariata. Non sapevo cosa avevo fatto o detto di così eclatante, ma lei si era incazzata. Era assurdo che ce l’avesse con me perché avevo auspicato la cosa più legittima al mondo, la chiusura di quella bettola che si ostinava a chiamare lavoro. “No” continuò “assolutamente no, cazzo!”
“Ed invece sì, cazzo, Allison!” ribattei io, convinto della mia posizione, “possibile che non ti rendi conto che siamo a New York, la Grande Mela cazzo e ci sono mille possibilità per una ragazza giovane e carina come te?”
Non riuscivo a capacitarmene. Rifiutava di darsi una speranza di cambiamento, si vedeva dentro quello squallido club per l’eternità, aguzzina di se stessa, continuando a vivere nell’ombra del reato e della maldicenza. Per quanto poco la conoscessi, sapevo che avrebbe meritato un destino migliore di quello, neanche al mio peggior nemico avrei inflitto una condanna simile.
Non so di quanto avessimo alzato i decibel durante la discussione, ma il chiacchiericcio dei clienti e la musica dello stereo sembravano averci attutito, abbastanza da non far girare nessuno. Eppure non ebbi il coraggio di guardarmi intorno, per controllare se per caso stessimo dando spettacolo. Continuai a fissarla, sfidandola, stufo di saperla ancora rassegnata a quella schiavitù, nonostante tutte le parole dette, e ancor di più i gesti, che urlavano più di folla inferocita.
Ma era una guerra persa da principio con lei, dura e testarda come un mulo, che non avrebbe desistito finché non fosse stato il suo avversario a cedere, per primo. “E tu?” chiese “possibile che non capisci? Io NON HO scelta.”
Mi fissò con quei suoi grandi occhi verdi, severi, cupi, come se volesse trascinarmi in quel baratro di sudiciume e disonestà che impregnava la sua vita. Nelle sue labbra, perennemente in lotta con i denti, martoriate e tumide, vittime anch’esse di baci sgraditi, tutta la vergogna e l’umiliazione che questo suo continuo svelarsi a me si portava dietro.
Ma io non l’avrei mai giudicata, immaginavo che ormai lo avesse capito, non sarei mai stato lì a puntarle il dito contro, come tanti avranno invece fatto. Sì, lo sapeva, ed era forse proprio per questo che un tipo così fiero come lei si sottoponeva comunque ad una tale mortificazione.
“No Don Hill” proseguì “no casa merdosa, no soldi per mangiare … e forse nemmeno fottutissima aria per respirare”
“Che cosa?” domandai shockato. Il mio cervello aveva iniziato a captare informazioni che lo mettevano in allarme, che lanciavano il May Day d’aiuto ed imploravano di fermarsi prima che fosse troppo tardi. Ma il mio cuore, masochista, le diede un tacito consenso a continuare.
“Irina. 23 anni. Russa. Dopo aver passato anni a fare le peggiori cose per lui” non riusciva nemmeno a pronunciare il nome di quel merdoso figlio di puttana “così da ottenere i suoi favori e guadagnare meglio decide che può bastare così e andarsene. L’hanno trovata delle mie colleghe riversa a terra in una pozza di sangue fuori dalla porta del suo appartamento e non si sa per quale miracolo sia ancora viva. Ora è passato un anno ed ancora lavora per lui …”
Il suo racconto aveva portato a galla un mondo di cui, mi rendevo sempre di più conto, conoscevo solo la punta dell’iceberg. La brutalità che nei telegiornali è sempre censurata e che, quando guardi i polizieschi, pensi sempre che sia ingigantita. Ed invece no, dura e cruda come solo la realtà sa essere, si era presentata a me per bocca una ragazzina di 17 anni, che invece di urlare dietro alle star del memento, lancia le sue grida d’aiuto per essere strappata via dall’imbuto di quelle sabbie mobili, conscia della sua impotenza.
Eppure era un continuo andirivieni il suo, tendere la mano per chiedere aiuto e tirarla indietro quando si allunga la mano per afferrare la sua. Forse era orgoglio, forse paura, ma così non saremmo andati da nessuna parte. Ingannata da un solo uomo, ora trovava difficile fidarsi del mondo intero.
Era tornata ad essere fredda, mentre raccontava, cinica come se quella storia terribile non la sfiorasse, o come se si imponesse di rimanervi fuori a tutti i costi.
“Lo capisci ora?” Lo capisci perché ti ho cacciata quella mattina? Io non posso scegliere, quella è la mia prigione”.
La sua voce sì incrinò per la prima volta, avendo forse, percezione finalmente di quanto greve e grande fosse il suo fardello, travolta dalla terribile verità della sua rivelazione.
Sì, lo capisco ora, so perché l’hai fatto: perché hai voluto proteggermi, da qualcosa che anche tu temi e non sai, non puoi tenere a bada. L’hai fatto perché mi vuoi bene, a modo tuo. Anch’io te ne voglio, qualunque cosa significhi.

“Grazie Tyler” disse, uscendo dal locale “Dio … sono pericolosa per il tuo portafoglio … ogni volta che sono nei paraggi finisci per sborsare un mucchio di soldi …”
Ridacchiammo entrambi. Poteva anche essere come diceva lei, ma non mi interessava molto. Lei li valeva tutti, fino al minimo centesimo. Era un buon investimento, se si può chiamare così.
“Lo faccio con piacere, davvero …”
Le sorrisi, sincero; doveva capire che per me non c’erano secondi fini o scopi ultimi da raggiungere. Lei mi aveva chiesto aiuto, io ero accorso. Era come in un episodio di Baywatch: anche se io non ero certo David Hasselhoff, ma la metafora rende bene. Quando l’avessi riportata, sana e salva, sulla riva, avrei sfoderato un bel sorriso e sarei andato via, tornando alla mia vita perfettamente inutile. La sua riconoscenza sarebbe stata sufficiente.
Passeggiavamo per strada svogliatamente, consapevoli che la nostra direzione era la metropolitana che l’avrebbe riportata a casa.
Con le labbra ed il naso completamente sporchi, Allison si godeva l’ultimo ed ennesimo piacere della serata, un mega cornetto alla Nutella, fumante da farmi venire voglia di strapparglielo dalle mani e papparmelo, anche se ero pieno da scoppiare. Era stato un compromesso necessario per farla desistere dal prendere un cono gelato, non esattamente salutare con il freddo che c’era quella sera per le strade bagnate di Manhattan, che i gas di scarico e i fumi dei riscaldamenti non erano riusciti ad asciugare.
Anche lei, come Caroline, adorava il gelato anche in inverno, ma questo non la autorizzava ad ibernarsi solo per viziosa golosità. Io, per compensare, decisi di riscaldarmi con la mia amata sigaretta, e mi aggiustai come meglio potevo il giubbino di pelle e il cappuccio sulla testa. Tentai di scaldarmi anche muovendomi un po’, giocherellando con la shopper di juta della libreria che lei mi aveva appioppato quando le avevo preso il cornetto, in uno dei chioschetti lungo la 47esima. Era tempo che rispolverassi il mio cappellino di lana, che faceva tanto clochard, dai meandri del mio armadio. Magari avrei smesso di radermi per un po’, che un filo di barba protegge sempre dagli spifferi del vento. Stavo morendo di freddo, ma non stava bene che lei lo notasse. Avrebbe sicuramente iniziato a prendermi in giro, senza tregua, per almeno 365 giorni.
“Spiegami una cosa …” esordì, e la cosa non mi piacque. Sapeva di ramanzina della mamma o di menata alla Aidan. “Io non ho i soldi nemmeno per piangere … e tu vai in giro conciato come un barbone che non può permettersi degli abiti più pesanti …”
“Senti …” iniziai con lo stesso impegno che c’aveva messo lei, la stessa espressione a metà tra il concentrato e lo scazzato, per apparire convincente. La verità è che non ci credevo nemmeno io, e rischiavo seriemente l’assideramento da un momento all’altro. “… questo si chiama hobo style, si vede che non capisci un cazzo di moda. E comunque sto bene”
Mi guardò attentamente, dalla testa ai piedi, e dovetti fare un bello sforzo per costringere i miei muscoli a rilassarsi e a smettere di tremare. Collaborate cazzo!!! Tra i denti che battevano, la sigaretta si stava disintegrando, lasciandomi sulla lingua segatura di tabacco e altre porcherie che, però, non servivano a dissuadermi dallo smettere. La sua occhiata era sorniona, palesemente incredula di fronte alla mia bugia. “Ma vaffanculo …” imprecò; ed io ci andai, divertito, mentre continuavamo la nostra camminata amichevole. In fondo ero stato bravo ad avere la battuta pronta …
Quelli che dovevano essere quattro passi di saluto, si rivelarono essere quasi una gita notturna nel cuore di Manhattan, tra i grattacieli residenziali e i locali più alla moda. Faceva finta di niente, come se fosse abituata a tutto quello che c’era intorno a noi, ma io lo capivo che si stava divertendo da matti, lo vedevo dai suoi occhi, lucidi e ben focalizzati su ogni dettaglio.
“Com’è Indianapolis?” mi azzardai a domandarle, sperando che non si infastidisse alla mia continua richiesta, ormai non più così velata, di conoscerla.
“Mi spieghi perché devi essere sempre tu a fare le domande?! Tu non mi dici niente di te …”
Cosa potevo dirle: che anche la mia vita era uno schifo, ma nulla di paragonabile alla sua? Avrei davvero potuto dirle una cosa del genere? Non credo proprio …
Soprattutto non mi vedevo ancora pronto e disposto a parlarle di Michael, dei silenzi con mio padre, dei problemi di mia sorella; mi resi conto solo in quel momento quanto fosse difficile aprirsi con gli altri, specialmente quando si tratta di cose che non vanno come dovrebbero e fanno restare di merda, sia chi racconta, che chi ascolta. Non mi restava che ammirare ancora di più quel piccolo scricciolo che avevo avuto la fortuna di incontrare e che ora, di fianco a me, mi chiedeva di essere sincero con lei, né più né meno di come già lei lo era stata nei miei riguardi. Per fare una cosa del genere ci volevano una forza ed un coraggio che io sentivo di non avere, almeno per il momento.
“Queste strade sono la mia vita” le dissi e fu una mezza verità politically correct che a nessuno poteva dar fastidio “conosci New York e conoscerai me.”
Ed in fondo non mi ero allontanato di molto dalla verità. Ero un New Yorker. Mia madre è del Queens e mio padre un puro sangue di Manhattan. Una vita trascorsa tra queste strade, lungo i binari della metro o a cavallo di una bici sgangherata, a raccogliere la polvere e lo smog di queste strade che pullulano di gente a tutte le ore, una vita passata a non fermarsi mai. Continuare ad andare per inerzia, per poi arrivare allo stop, e accorgersi che si era rimasti senza fiato e col cuore in gola. Fermarsi per prendere fiato e avvertire di non poter ricominciare.
“Indianapolis non è New York …” si limitò a sussurrare, continuando a camminare a testa bassa; un flebile fruscio che serviva a spiegare, almeno nella mia testa, qualcosa di molto grande: noi eravamo troppo diversi, agli antipodi, per poter sperare che ci fosse qualcosa ad accomunarci, qualcosa da poter condividere.
La bloccai per un braccio, costringendola così a voltarsi e guardarmi: “Ma in fondo tutte le città si assomigliano un po’ tutte. No?”
Se anche ci fosse stato anche solo un elemento in comune, una sola scusa per poter stare con lei anche solo cinque minuti, mi ci sarei aggrappato fino allo stremo delle forze.
“Beh questo sì!” rispose, fiduciosa.
Non c’eravamo scambiati che un paio di battute, praticamente sul nulla, eppure c’eravamo detti più di quanto non avessimo fatto usando le parole appropriata. Ma queste, a differenza, erano parole giuste.
L’accompagnai fino all’ingresso della metropolitana, dove mi chiese di poter continuare da sola. Era stata una giornata lunga, per entrambi; c’era bisogno di una buona dose di sonno e sogni. La guardai scendere le scale ed addentarsi nella notte, leggera come una piuma e pronta a tornare la guerriera della notte, che si difende dagli altri e da se stessa.
Prima di scomparire, mentre le restituivo i libri che le avevo regato, la promessa che ci saremmo rivisti presto.
Allison, così piccola e così forte, vorrei stringerti tra le mie braccia e difenderti da quel mostro, ma non sono un soldato e nemmeno un eroe. Ma se posso scaldarti, almeno con un sorriso, lo farò. E se vorrai scoprire l’amore, quello pulito, lo scopriremo insieme. Ci salveremo dalle nostre paure, fuggiremo dai nostri orchi.









NOTE FINALI
Tyler usa una parola alla fine...amore. Non incominciate a sognare, perché esistono tanti tipi diversi d'amore.
Lui non li conosce, ma vuole scoprirli e farli scoprire ad Allison.
E chissà, che in questa lotta contro le fiamme ... non finascano entrambi con lo scottarsi.
Questo capitolo è un po' più corto dei precedenti...e scriverlo è stata una fatica immane.
Grazie a tutte, siete davvero generose, anche mi sento ingorda perché i commenti che ricevo non mi bastano mai...

à bientot

Federica
   
 
Leggi le 14 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Film > Remember me / Vai alla pagina dell'autore: crazyfred