Ero un ebreo. Che
vi importa il mio nome? Il nome non ha più importanza quando un numero brucia
sulla tua carne.
Ero prigioniero.
Ora non lo sono più, ma mi ricordo di quando, troppo stanco, mi accasciavo per
terra mentre trasportavo la mia incudine, e subito un freddo tubo di metallo mi
premeva sulla tempia, sussurrandomi “bum”.
Ci avevano portati
li. Che importa che anno era? C’era scritto all’entrata “Il lavoro ci rende
liberi”.
Tra le schiere di
uomini, distrutti e angosciati, scorsi un viso. Era il più affranto di tutti.
Gli andai vicino e
gli chiesi:
“Chi sei tu”
“Sono il figlio
del mio Dio”
“Io non credo in
te”
“Eppure sono qui”
“Perché sei qui?”
“Non hai sentito
che Dio è malato? Sono qui per farmi di nuovo martire per gente che non crede
in me”
“Lo fai, anche se
non è il tuo popolo?”
“Anche se non è il
mio popolo. Non ho scelta. Tanta violenza non risparmia neanche me, che pure
sono nell’alto dei celi”
Si allontanò
portando la sua incudine come portava la croce, andamento instabile, sguardo
sicuro.
Poi vidi due.
Pelle scura occhi fieri, volto aristocratico sguardo di pace.
Marciavano anche
loro una marcia funebre, mesti e consumati.
“E voi…”
“Profeta fui io,
di un Dio che non si mostra. Io lo chiamo Allah, mia guida.”
“Io, nato ricco e
morto povero, seguo l’illuminazione della mia anima, molti mi dicono simile a
un Dio”
“Dunque anche voi,
qui, a patire pene e sofferenze…”
“Siamo vittime
anche noi. Tutti siamo vittime del massacro. Talmente tanta è la violenza che
questa si abbatte anche su di noi, che pure già ricevemmo il perdono
dell’imperatore celeste” disse pelle scura occhi fieri.
“La sofferenza
regna ovunque in questo mondo in mutamento; vedi, giovane ebreo, orgogliose
uniformi. Solo mere anime esecutrici di un male che non avrà mai fine.”
Così disse, volto
aristocratico spento sguardo di pace.
Incapace di
parlare, mi morirono mille parole sulle labbra.
Passo dopo passo
mi affannavo, come un ape operaia, per un lavoro di cui non avrei mai visto la
fine.
Vestiti logori
sporca tunica bastone di legno. Camminava questi fra la folla e io lo vidi e
gli corsi dietro.
Camminava come una
pecora smarrita. Come quelle pecore che tanto aveva cercato di radunare che ora
invece giacciono morte nelle grandi fosse.
Lo raggiunsi
affannando e lui mi disse con premura di un padre:
“Calma figliolo,
risparmia le forze. Non sai cosa ti attende.”
“Oh allora siete
voi…Ditemi, persino voi siete qui…non si è salvato nessuno…”
“Io in
particolare. Io portai il messaggio di Dio alla nostra gente. Sono colpevole
quanto te.”
“Colpevole di
cosa?”
“Bella domanda
ragazzo…”
“Non capisco”
“Nessuno capirà
mai”
“Sei qui per
salvarmi?”
“No non posso.
Oramai neanche il potere di Dio può fare più niente. Il male è troppo grande, è
radicato in profondità in questi uomini orgogliose uniformi.”
“Perché Lui ci fa
questo…”
“Lui semplicemente
non può impedirlo. Ha perso la battaglia. Non hai sentito dire che è malato?”
“Come può essere
malato”
“E’ malato. Te ne
renderai conto meglio anche tu. Vedi quella donna laggiù?”
“Sta entrando
nella camera. Chi è?”
“E’ la madre
casta.”
“Perché entra?
Morirà!”
“Ormai è già morta
comunque…Ora tocca a me. Abbiamo perso tutti. Possiamo solo sperare che nessuno
mai dimenticherà.”
Mi lasciò solo,
bastone di legno rapido passo, verso la fine.
Troppo stanco mi
accasciai allora per terra mentre trasportavo la mia incudine. Subito sentì
premere sulla fronte un freddo tubo di metallo che mi gridò forte all’orecchio
“bum”
Io ebreo,
innocente anima smarrita, giacevo supino, occhi vuoti, nella mia mente queste
parole
“dio è morto”
-Allora. Innanzi tutto
grazie per l’attenzione perché questo degli ebrei è un tema molto duro e
difficile da affrontare. Pur non essendo io credente ho ritenuto adatto
inserire ogni figura religiosa, benché non facendone il nome. Spero vi sia
piaciuta, per quanto può piacere uno scritto sulla shoah ma credo sia
importante scrivere certe cose xche non va dimenticato nulla. -