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Autore: Marguerite Tyreen    01/04/2011    3 recensioni
Francesca, trent’anni, insegnante d’inglese, continua a sfuggire dal fantasma del suo ex, Enrico, tra i compiti da correggere, i disastri della collega Emma e qualche buon caffé al “James Joyce Irish Pub” di Sean. Le cose si complicano quando Enrico, bello quanto egoista, torna da lei, dopo mesi di promesse e illusioni, con il proposito di riconquistarla. Ma se Francesca per orgoglio non vorrebbe mai ammettere con l’ex di essere rimasta single aspettandolo vanamente e Sean avesse bisogno di una finta fidanzata da presentare al matrimonio del fratello in Irlanda, cosa potrebbe accadere? Può la magica Isola di Smeraldo far vibrare corde dell’animo di cui nemmeno si conosceva l’esistenza?
Genere: Commedia, Romantico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 Mie carissime,
 
sono tornata! Con un po’ di ritardo sulla mia tabella di marcia, ma il capitolo si è rivelato lungo quasi il doppio del precedente e mi dispiaceva di doverlo dividere in due, lasciandovi la vicenda in sospeso.
Vi ringrazio tutte di cuore  per la gentilezza e l’attenzione che avete riservato a questa storia. Quindi un sentitissimo grazie ai lettori “di passaggio”, a chi ha recensito (manymany, namina89, piemme, Isyde) e a chi l’ha inserita tra le seguite (Chelsea88, Isyde, manymany, wilma, Kicici, valespx78), ricordate (sister82, sophia90, vic94) e preferite (piemme, namina89).
Adesso mi ritiro a meditare l’entrata in scena di Enrico, che vedrete nel prossimo capitolo, direi… adesso è qui che mi tortura per avere un ingresso da star degno di lui e non so come fare per sbarazzarmene! XD A proposito c’è nessuna che lo voglia, questo antipatico e noiosissimo personaggio? Immagino di no, nemmeno se lo mettessi all’asta partendo da un centesimo! XD
Un bacione e buona lettura!
Sempre vostra,
 
Marguerite

 
 
 
 Imprevisti d'amore
Editor fotografico online

“Le mie amiche sono amare
se si parla un po’ d’amore”
(Fiorella Mannoia, Io posso dire la mia sugli uomini)

 


Capitolo 2: Achille e la tartaruga
 

 
Alla fine, un po’ per l’ora tarda, un po’ per la solita pigrizia di Emma, la famosa cioccolata si era risolta con un panino dei distributori automatici sbocconcellato lungo la strada che portava al “Joyce”. Si erano ripromesse di non far parola di Enrico fino a quando non sarebbero state sedute a tavolino, davanti al famoso caffé di Sean.
Il “Joyce” era ancora deserto, non essendo che le sei di pomeriggio. Ma avevano trascorso tutta la giornata fra consigli di classe e ultimi corsi pomeridiani extrascolastici che non vedevano altro se non il miraggio di mettersi finalmente comode.
Giulia, da quanto Fran sapeva, era ancora al convegno milanese di chirurgia ed Emma si sarebbe ritrovata comunque da sola anche per quella sera. Si vedeva che, nonostante la sua immancabile allegria, quando lei era lontana anche solo per qualche giorno, aveva una tenera nostalgia negli occhi. Sorrise con bonaria invidia del sentimento che le legava ormai da parecchi anni, a dispetto dei pregiudizi che avevano affrontato. Emma ammetteva, stringendosi appena nelle spalle, di non essere forse la persona migliore per parlare di uomini. Ma non avrebbe lasciato sola Fran per nessuna ragione. Qualcosa si sarebbero inventate, anche quella volta.
Il leprechaun fischiò, come al solito.
- Erin go bragh – scherzò Francesca, passandogli davanti.
- No, è inutile, non ne vuole sapere.
La voce di Sean le raggiunse dalla saletta annessa al locale, dove stava apparecchiando i tavoli per la sera.
- Sono di qua! Siete in anticipo, ragazze. – tornò al bancone – Ma siete sempre le benvenute. Cosa vi preparo?
- Due caffé. – rispose Emma - All’irlandese, però.
- No, per carità, senza whisky. Almeno per me. – le fece eco Francesca, ancora appoggiata al bancone a fissare il curioso leprechaun di ceramica.
- Lo sai che quello che non si può curare col whisky e col burro…
- Non si cura affatto, lo so, Sean. A proposito! – gli fece cenno di tacere allargando platealmente le mani – Dia is Muire duit! – lo salutò in gaelico, con una pronuncia che suscitò, inevitabilmente, la sua ilarità.
- Ammetto di apprezzare l’impegno. – sorrise lui. Aveva un sorriso affascinante, questo Francesca non aveva mai potuto negarlo, che riusciva a far brillare gli occhi di quell’insolito ed intensissimo verde. Si sapeva che diverse delle sue ora abituali clienti avevano cambiato luoghi e frequentazioni pur di rintanarsi più spesso nella calda atmosfera del “Joyce”, ma non certo solo per quello.
Nonostante non fosse una bellezza convenzionale, era un uomo attraente, bisognava essere sinceri.
Aveva bei lineamenti decisi e un’espressione ironica che, talvolta, passava veloce sul suo viso come le nuvole nel cielo della sua Irlanda. Francesca lo stava notando solo ora, mentre lui si scostava una ciocca di capelli ramati dalla fronte. Se poi si voleva aggiungere anche il fascino forestiero, aveva tutte le carte in regola per quel ruolo da seduttore col quale talvolta giocava ma che, più spesso, sembrava andargli stretto.
- Beh, farai bene ad apprezzare perché ho impiegato una settimana per impararlo. Tu, piuttosto, parli un italiano perfetto che farebbe invidia a una decina di miei studenti madrelingua, altrochè!
Infatti, c’era solo un lieve accento che evocava paesi lontani, nascosto nelle pieghe delle sue frasi.
- Ma io parlo italiano da dodici anni, tu parli gaelico da dodici giorni.
- E’ da molto che sei qui, allora.
Lui annuì distrattamente, intento a rimboccare meglio le maniche della camicia azzurra, che cadeva elegante sulle spalle.
Francesca temporeggiava, cercando di trovare il bandolo di quella matassa complicata che era stata la sua relazione con Enrico.
- E come sei finito nel nord est italiano dall’Irlanda, tu?
- Una lunga storia – sorrise di nuovo e, quando lo faceva, lei non capiva mai se dietro si celava una misteriosa soddisfazione per il proprio coraggio di emigrante o un’antica malinconia da esule, fatta di lontani suoni di cetra e del verde dei trifogli.
- Una lunga storia e nemmeno poi tanto interessante. – si sporse leggermente verso di lei – Non almeno quanto quella che Emma si aspetta di sentire da te.
- E tu come…
- Intuito. – rispose, versando la panna sui caffé, dopo averle rivolto una fugace strizzata d’occhio.
- Insomma, Fran, vuoi metterti a sedere? – il suono di un messaggio arrivò ad interrompere la ramanzina di Emma. Bastò un suo sguardo per capire quale notizia avesse ricevuto.
- Alle sette arriva Giulia in stazione, dunque sbrigati, prima che il caffé si freddi. Dimmi tutto.
Aspettò con discrezione che Sean si allontanasse. Tormentò prima le mani, poi i capelli e per qualche lungo istante il ciondolo che portava al collo. Infine, in un sussurro rivolto più a se stessa:
- Da dove comincio?
- Dall’inizio. Credimi, spesso funziona.
Rimase a guardare per diverso tempo il contenuto della tazza. Nel nero della bevanda, sempre più nero della sua ottima memoria, affiorò un’immagine di lei ed Enrico ancora bambini che, tuttavia, pensava di aver dimenticato.
- Dall’inizio. Già, buona idea.
 
 
- Ehi, Enrico. Secondo te cosa sono le nuvole?
Seduti l’uno accanto all’altra nel cortile della scuola elementare bolognese che aveva visto la loro infanzia, Francesca si interrogava su quei fagotti bianchi in cielo, mentre attendevano entrambi di essere riammessi al gioco dal quale erano stati eliminati.
A poca distanza la voce di Alice, quella che era e sarebbe rimasta la sua migliore amica per buona parte della sua esistenza, gridava “tana”, a mano a mano che sorprendeva il nascondiglio dei suoi compagni.
- Le nuvole, Fran? Cosa vuoi che siano, ammassi di particelle d’acqua, come dice il libro di scienze.- Enrico era sempre stato razionale anche a dieci anni e andava orgoglioso di ciò che aveva appreso alla lezione della maestra.
Lei fece appena una smorfia poco convinta: - Sai, io preferisco pensare che siano i sogni che facciamo la notte, che poi alla mattina scompaiono andando su in alto, fino in cielo, restandosene lassù sospesi.
- E’la storia più strampalata che abbia mai sentito, Fran.
- Però è carina, di’la verità. Sempre più carina che quella spiegazione sull’acqua e la pioggia.
Enrico rise per la fantasia dell’amica: - Un giorno scriverai favole, Fran. Quando sarai famosa mica dimenticarti di me!
- Vuoi che mi dimentichi proprio del mio migliore amico? Ti dedicherò il primo libro.
- Enrico, Fran! Tana libera a tutti! Venite a giocare ancora!
- Bambini! La ricreazione è finita! – la maestra li richiamò in classe.
Francesca tornò al suo banco, quello accanto a Enrico. Erano andati subito d’accordo, fin dal primo giorno di scuola, quando le era capitato vicino quell’adorabile muso furbo.
Francesca andava indietro con la memoria e ogni momento che riaffiorava dal tempo portava con sé l’inevitabile traccia della presenza di Enrico Sacrati.
Alice era importante. Era stata molto importante, ma non avrebbe in nessun modo potuto eguagliare, con la sua vicinanza discreta, la chiassosa alchimia che cresceva giorno per giorno tra quei due. Forse, per lungo tempo, si era sentita messa in disparte. Poi, con gli anni, aveva capito che non ci sarebbe stata alcuna possibilità di contare per Francesca quanto contava lui e le era rimasta accanto, paziente come sempre, buona come sempre. Per tutti gli anni delle scuole, dalle elementari fino alla fine del liceo. Avevano scelto tutti e tre il classico, sapendo che con l’università le strade poi si sarebbero inevitabilmente divise.
Tutto ciò che Francesca aveva fatto, tutto ciò che aveva fatto per la prima volta, almeno, l’aveva fatto con Enrico. Il senso dell’amicizia l’aveva compreso con lui. E così quello dell’amore.
Gli aveva voluto bene, dapprima come ad un fratello, poi si era accorta di esserne gelosa, ma non più da amica. Avevano quindici anni quando aveva compreso che, qualunque cosa fosse accaduta, lei era nata per amare Enrico Sacrati, con quella testarda assolutezza che accompagna gli amori dei ragazzi.
Ed essendo sempre stata una persona prudente, non si era lasciata prendere la mano dall’ebbrezza di quel sentimento in erba, ma aveva atteso. Atteso in silenzio e non senza una certa sofferenza che egli guardasse le altre, che di altre si infatuasse per poi tornare, quand'era deluso, sempre da lei.
Aveva atteso di essere sicura che non fosse solo un momento passeggero, un bisogno di stare con qualcuno che le volesse bene per quello che era, perché per nessuna ragione avrebbe voluto perdere la sua amicizia per pochi mesi di un’illusione d’amore. Attese tre anni, in cui quello che provava non si sopì, anzi aumentò, per quanto possibile, tormentandosi nel dubbio che parlargli fosse giusto o meno.
Ed Enrico, intanto, al quale non mancava certo la sensibilità per comprendere le ragazze, dalle quali era perennemente attorniato, aveva capito. E taceva, augurandosi che tutto si sarebbe disciolto nel nulla, scomparso nel vento, come le nuvole che amavano guardare da bambini.
Tanto, chi più chi meno, tutte le ragazze della compagnia avevano perso la testa per lui e, con la stessa rapidità, avevano col tempo, cambiato obiettivo.
Anche ad Alice doveva essere successo, nonostante non avesse mai trovato il coraggio di confessarglielo.
 
- E tu? – Emma s’intenerì davanti ai ricordi dolcemente nostalgici di Francesca – Quando glielo hai detto?
- Dopo l’esame di stato. – Francesca si scostò dagli occhi una ciocca di capelli, portandola all’indietro, come sempre, quando cercava le parole – Glielo dissi con un gran discorso, sai. Allora giocavamo un po’entrambi a fare gli intellettuali. Me lo ricordo come fosse ieri. L’ho amato tanto, sai. Lo so che sembra assurdo riuscire a legarsi ad una persona per così tanto tempo, soprattutto quando si è così giovani. Ma se tu riuscissi a immaginare, Emma, il senso di perfezione, di completezza che ho provato per i nove anni che siamo stati insieme, allora capiresti.
È stato un grande amore, il nostro, nonostante tutto. Qualcosa che deve avermi fatta crescere e maturare, forse troppo in fretta, ma per lui ho rinunciato a tante cose, ad altri ragazzi, nelle braccia dei quali mi sarebbe venuto facile buttarmi. E, invece, niente: l’ho atteso finché non l’ho avuto, con l’unico sostegno di quella stupida convinzione che il mio era un sentimento troppo puro e troppo bello per non meritare, un giorno, di essere ricambiato. Ma allora era tutto bello, tutto puro e tutto assoluto. Sono cambiate molte cose, Emma.
- E lui cosa rispose? Di sì, immagino, dal momento che poi vi siete messi insieme.
- Sbagli, invece. L’ho aspettato ancora, per altri due anni.
 
- Io… io ci ho pensato molto, Enrico, prima di dirtelo. – la voce le tremava, mentre stava per confessargli il perché di quella strana telefonata che aveva portato entrambi a sedersi nella piazza senza riuscire ad arrivare al punto.
- Fran, tu mi hai sempre detto ogni cosa, dovrebbe venirti facile, adesso. Che c’è? Sei incinta? Hai problemi con l’alcol o cose del genere? Sai che io ti capirei.
- Ma quanto sei scemo? Io non ho problemi d’alcol! – perché diavolo non gli riusciva mai di essere serio?
- E allora parla, no? Non staremo mica qui a contare i turisti che escono da San Petronio?
- Io mi sono innamorata di te, Enrico. Lo so che ti sembrerà stupido, che ci conosciamo da quando eravamo bambini e tutto il resto… ma sono quattro anni, ormai, che non faccio che pensare a te, che non riesco a pensare a nessun altro perché tu arrivi e ti prendi tutto: le ore di studio, quelle di sonno, quelle di veglia, persino i miei sogni, Enrico. Hai occupato il posto più importante nel mio cuore e non ho alcuna intenzione di lasciarti andare. Mi sono innamorata come non credevo fosse possibile innamorarsi per la prima volta. E sono felice solo quando sono con te, solo quando so che potrò vederti. Preparo il cuore in funzione delle volte che posso incontrarti e conto i giorni, le ore, i minuti che mi separano da te e…
Il cenno freddo di lui l’interruppe: - Cos’è questa ballata che mi stai recitando?
L’avevo capito, sai, Fran, e per tutto questo tempo ho sperato che non fosse così, perché tu sei come una sorella per me e non una donna, la bella ragazza che sei diventata. E, ti dirò, io non provo per te nulla di simile a ciò che mi descrivi.
Una lacrima scese, silenziosa, a rigarle il viso.
- Ti voglio bene, forse anche qualcosa di più, ma vale davvero la pena di mettere a rischio la nostra amicizia per questo passo che dovremmo compiere?
- Io credo che non si possa più parlare di amicizia, almeno per me.
Qual è il problema, Enrico? Sii chiaro, per favore, come lo sei sempre stato.
- Non so come dirtelo, perché in ogni caso soffriresti. Perché so che l’unica risposta che potrei darti per renderti felice è che anch’io sono innamorato di te. Il che non è del tutto falso. E’ che sono indeciso, Francesca: indeciso tra te e Alice.
Francesca abbandonò le mani tra le ginocchia, abbassando lo sguardo. Sospirò profondamente. Non l’aveva messo in conto. O forse sì, intuitivamente l’aveva capito e proprio per questo aveva deciso di mettere le cose in chiaro prima che la situazione evolvesse.
Certo che poteva fare a meno di dirglielo, che era proprio lei la sua seconda opzione. Proprio lei, la sua migliore amica.
Le mancò il respiro all’idea di mettersi in competizione con lei, di ferirla, di perderla, dopo tutti quegli anni di affetto silenzioso ma sincero.
- Mi dispiace, Fran.
Mi dispiace. La frittata era fatta e l’unica cosa che gli veniva in mente era “mi dispiace”. E lo disse con lo stesso tono di chi direbbe: mi dispiace ma non è colpa mia se sono troppo affascinante e non mi manca un ventaglio di pretendenti tra le quali compiere graziosamente la mia scelta.
Mi dispiace.
Ebbe la netta sensazione che stesse giocando coi suoi sentimenti, che si sentisse lusingato dall’essere al centro dell’attenzione, che il suo ego, adesso, si sentisse autorizzato a prendersi tutto quello che lei aveva da offrirgli senza nemmeno ringraziare, perché tanto l’amava e avrebbe sopportato tutto.
Lo aveva già capito, ma si limitò a rispondere: - Pensaci, Enrico, decidi tu. Io ti aspetto, dovessi aspettare tutta la vita, perché ti voglio troppo bene per pensare di stare senza di te. E, se dovessi scegliere lei, sappi che non interferirò. Sei troppo importante e la tua felicità viene prima di tutto, anche della mia.
La tua felicità viene prima della mia. Quella frase era ciò che l’aveva condannata a due anni di limbo e a vivere in attesa della sua decisione. Due anni di solitudine e di aridità sentimentale, se non fosse stato per l’amore che provava per lui.
Aveva cominciato l’università. Alla fine aveva scelto lingue, mentre Enrico si era dedicato all’archeologia e all’arte che erano sempre state le sue autentiche passioni.
Anche dopo, durante la loro relazione, Francesca aveva continuato a sospettare che il suo amore per quegli aridi pezzetti di vasi o ceramiche superasse quello per gli esseri umani.
Entrambi ancora di stanza a Bologna, continuavano a frequentarsi, assieme alla vecchia compagnia del liceo, a frequentarsi con sufficiente regolarità per tenere sempre aperta la piaga del dubbio.
Si struggeva, Francesca, tra i comportamenti straordinariamente affettuosi di Enrico che, inaspettatamente, lasciavano poi il posto ad un’imbarazzante freddezza.
E si logorava tra il tenere a freno la gelosia nei confronti di Alice che, mai, per nessun motivo, avrebbe dovuto sorgere e la consapevolezza che si stava umiliando e sacrificando per uno che non lo meritava.
Perché si divertiva, Enrico, lui che era sempre stato troppo amato da tutte le donne che in qualche modo avevano fatto parte della sua vita, in quella situazione. Teneva in sospeso l’affetto sincero delle due amiche, ne approfittava per entrare e uscire dalle loro vite, ingigantiva il suo orgoglio nel sapere che entrambe avrebbero potuto gioire o piangere con un suo solo sì.
Poi era tornato, dopo quasi due anni, con la sua scelta, quando gli era sembrato che continuare a tirare la corda l’avrebbe portato a perderle entrambe.
Con la sua scelta e una scatolina di velluto blu.
Dentro vi era quel ciondolo a forma di tartaruga ed un biglietto, scritto con la sua grafia precisa e minuta. “ Una tartaruga perché il nostro amore è nato lentamente, ma con tenacia è arrivato alla meta” era stata la spiegazione.
Mentre le agganciava la catenina attorno al collo, si era lasciato stordire un lungo istante dal profumo fresco e buono di Francesca. Era dolce e presente, un porto sicuro nelle tempeste della giovinezza. Dopotutto, perché non poterla amare, lei che gli sarebbe rimasta accanto qualsiasi cosa fosse successa, lei, l’unica su cui sapeva di poter incondizionatamente contare.
L’aveva baciata e, in quel momento, a Francesca era parso di trovare un senso alla sua lunga attesa, un senso a tutti i mesi passati a sospirare e a scrivere per lui. Le sembrò che le parti più vere del loro essere si stessero librando in aria, libere dalla gravezza dei loro corpi, per fluttuare verso un turbinio d’indaco, un passo più vicine all’infinito.
 
- Ma l’idillio non è durato molto. Solo pochi mesi, forse un anno, anche perché tra l’università e tutto il resto non ci vedevamo molto di frequente. – Francesca cercava ancora i ricordi nel nero del caffé, ritrovandovi anche qualche lacrima versata per Enrico – Quando ci incontravamo, avevo la netta sensazione di non essere l’unica nella sua vita, ma è sempre rimasto solo un sospetto.
Di sicuro lui si stava mettendo in luce come uno studente brillante. Quello che tutti credevano solo un appassionato medievalista, in realtà, aveva la strada spianata per una carriera rapida, come mi risulta che abbia fatto. Io, invece, ero pressoché come adesso, solo un po’meno disillusa, con piccoli sogni per la testa e tanto amore per le cose quotidiane.
Restavo a lungo seduta sulle panchine del parco a immaginare la vita delle persone e a trarne racconti che nessuno apprezzava fino in fondo. Enrico per primo non ha mai sostenuto le mie capacità: al contrario, faceva di tutto per essere lui ad apparire sotto i riflettori.
Non ho mai fatto nulla per impedirglielo, ma quando mi sottoponeva a lunghe ed estenuanti cene con questo o quell’esperto d’arte conosciuto chissà come e dove, ci metteva del suo per convincere tutta la tavolata che io ero decisamente fuori luogo.
Mi ha anche amata, comunque. C’erano giorni in cui sentivo che il mondo, tutto il suo mondo, era affidato alle mie mani, alle mie cure e all’affetto che gli dispensavo. Mi sono sentita importante, protetta, amata. E tanto. Mi bastava, me lo facevo bastare.
Lo so, avrebbe meritato una ragazza più brillante e, dopo, una donna più mondana di me, per il suo lavoro in giro per il mondo, per il suo carattere anche. Francamente non so dirti dove abbia trovato la forza per continuare ad amarlo, ma quando adesso penso alla nostra relazione mi accorgo che era fatta solo di lunghi, immensi silenzi.
 
- Fran, ti sembra il modo di comportarti ad una cena simile? – la paternale arrivava puntuale ogni volta che uscivano insieme, sorretta da quel suo tono fintamente tollerante.
- Non vedo cosa ci sia stato di sbagliato nel mio comportamento. – lei aveva riavvolto la pellicola di quella serata per capire dove avesse messo il piede in fallo.
- Nulla. Ma è che non brilli, amore. Né di bellezza né di arguzia.
- Ti sembra che debba mettermi a fare del cabaret per sembrarti brillante e arguta? E che cos’ha il mio aspetto che non va? Mi sembrava il rinfresco per un’esposizione di gioielleria longobarda, non la passerella di Chanel.
- Appunto. Guardati come sei vestita: quanto l’hai pagato quell’abito? Cinque euro al mercato del lunedì?
- Se ti fa tanto schifo il mio vestito, potresti fare a meno di portarmi a questi tuoi pallosissimi eventi mondani. Ti assicuro che io starei molto meglio e che il mio vestito sarebbe perfetto per andare al cinema.
- Non sono io a volerlo. Sto costruendo la mia carriera pezzo per pezzo, ho degli obblighi. Lo sto facendo anche per noi, Fran, possibile che tu non lo capisca.
Per noi. Sospirò a quelle parole. Il noi era la solita scusa per mettere a tacere ogni tentativo di ribellione della ragazza. Si rigirò tra le dita la tartaruga d’argento che portava sempre al collo.
Per noi: abbassò lo sguardo.
- Fran, lo sai che ti amo.
- Anch’io, Enrico. È che siamo sempre tanto distanti.
- Mica poi tanto, solo un paio di chilometri.
- Non intendevo questo…
- Lo so, sciocchina, era per non vederti con quella faccia triste. Su, sorridi, che diventi più bella.
A proposito, tieni.- le passò un biglietto da visita – E’ l’indirizzo del parrucchiere da cui va una mia amica in facoltà. Continuo a pensare che staresti meglio con i capelli corti. Lisci, già che ci sei.
 
- E io, invece, continuo a credere che non sia stato l’uomo adatto a te, Fran. E più prosegui il tuo racconto più me ne convinco. – Emma aveva teso la mano sul tavolino per incontrare quella dell’amica – Ho come l’impressione che ti abbia soggiogata e consumata per nove anni, sai?
- Forse… - cercò di guardare lontano, finendo per incrociare l’andirivieni di Sean, che le sorrise con gentile discrezione – O, forse, si è approfittato del mio affetto. Aveva bisogno di un campo base al quale tornare, di sapere che ci sarebbe stata sempre qualcuna ad attenderlo. O è stato amato troppo, da me, da Alice e da tutte le mille ragazze che gli sono sempre ruotate intorno come satelliti.  Ma magari è cambiato.
- Magari è cambiato. – replicò l’altra, senza crederci veramente.
- Ma non è stato solo questo suo comportamento sempre sprezzante e sempre egoista a portarci al capolinea, dopo più di nove anni che siamo stati insieme.
- Com’è finita allora? Per un’altra?
- Per Alice. È arrivato, un giorno, all’improvviso e mi ha detto di scegliere se preferissi vederlo andarsene con la mia migliore amica o continuare a vederlo infelice accanto a me, accanto ad una donna con cui non aveva più nulla da spartire. Stava partendo per Londra, per un ciclo di conferenze che avrebbe dovuto tenere. Al ritorno si aspettava una risposta.
- Il bastardo! Nemmeno si è preso la responsabilità di decidere! Ma che razza di schifoso… Scusami, Fran, ma come diavolo fai ad amarlo ancora?
- Non lo so. Non lo so, Emma, e dire che me lo sono chiesta a lungo.
All’aeroporto, quando l’accompagnai gli dissi soltanto: sii felice e lasciai Bologna il prima possibile. Non so com’è andata, con Alice. Non so se si frequentassero anche prima, mentre era ancora con me. Ho fatto semplicemente marcia indietro. Non ho lottato e, l’ammetto, è stata una mossa vigliacca.
- Non valeva la pena lottare per tenersi un tipo del genere, Fran. Dammi retta. Anzi, se dovevi fare proprio un dispetto alla tua amica, dovevi recapitaglielo davanti alla porta, infiocchettato e imballato, con pacco celere 3. Possibilmente non tracciabile.
Non riuscì a trattenere un sorriso: - E, invece, non volevo che Alice soffrisse della competizione con me. Non aveva colpa lei, dopotutto.
- Certo, lasciarle Enrico alle costole mi sembra sia stata una vendetta più che sufficiente.
- Lei era tutto quello che io non ero e che non avrei voluto diventare, nemmeno per lui. Perché un conto è cambiare pettinatura, un altro è cambiare se stessi e lì lui non ce la fatta.
- Ti ha tolto la possibilità di risorgere, però. Non mi pare poco, se ancora lo aspetti.
- Io sono nata per lui.
- Smetti di fare della telenovela, Fran. Nessuno è nato per nessuno.
- Sono stata con lui nove anni.
- Appunto. Adesso sarebbe ora di gettarlo a mare. Sono due anni e mezzo che se n’è andato con un’altra.
- Che io l’ho lasciato andare, Emma.
- Non cambia poi tanto.
- Eccome se cambia. Non mi ha dato modo di odiarlo e di superare il trauma. Se fosse scappato lui, l’avrei detestato e, a poco a poco, mi sarei ripresa. Così, invece, è come se si fosse mangiato il mio cuore come una pesca e avesse sputato solo il nocciolo arido. Ecco cosa mi resta, di questa storia.
- O cosa ti vuoi tenere. Fran, non voglio essere brusca, ho solo paura che tu soffra. Lo sai che tengo a te.
- Grazie. Farò attenzione. Non ci ricasco, se è quello di cui hai paura. Terrò gli occhi ben aperti, questa volta.
- Lo spero. – le fece Emma da stare sulla porta – Mi raccomando, Fran.
- Vai. Vai tranquilla, ti ho annoiato fin troppo. E salutami Giulia!
- Ci vediamo a scuola.
Annuì: - Emma?
- Sì?
- Grazie.
 
Finì il suo caffé, restandosene seduta ancora a tavolino, tanto il “Joyce” era ancora deserto.
Si smarrì nei corridoi dei suoi pensieri, finché una voce non la interruppe.
- Posso, Francesca? – Sean aveva occupato la sedia che Emma aveva lasciato libera. Tuttavia quella richiesta di permesso non sembrava rivolta al fatto di sedersi con lei, ma piuttosto ad intromettersi in quella faccenda.
- Oh, sì, certo. – si affrettò a fargli spazio, con un lieve imbarazzo.
- Sai, non avrei voluto per nessun motivo ascoltare la vostra conversazione, ma come vedi il locale non è certo una metropoli e…
Francesca annuì: - Figurati, non c’è poi nulla da tenere nascosto.
- Posso permettermi di darti un mio parere?
- Se… se vuoi… Cioè, voglio dire, se non ti annoia parlare di queste cose…
- Affatto. Io non ti conosco bene, Francesca. O meglio, so che insegni inglese, che i tuoi ragazzi ti vogliono bene, che parli un pessimo gaelico e ti piace questa variante eretica dell’Irish Coffee senza whisky. Ma non mi sembra poi sufficiente. Il fatto è che per quasi tre anni ti ho vista venire qui, scrivere a tavolino, ti ho osservata e allora, sì, mi sembra di conoscerti molto meglio di quanto non creda, perché ci sono cose che solo il silenzio può comunicare.
La fine di un amore è come un lutto, Francesca, va elaborato. Bisogna passare attraverso ogni sua fase: l’incredulità, la sofferenza, la rabbia, la malinconia e l’accettazione, altrimenti non si supera.
È inutile nascondere la rabbia, anche per troppo amore. Bisogna lasciare che emerga, se serve a guarire.
- Ma non hai detto tu che quello che il burro e il whisky non possono curare, allora non si cura affatto?
- Sì, ma non ho mai detto che sia il tuo caso. Io ti auguro che sia cambiato, che sia tornato perché ti ama. Ma nel caso non fosse così, arrabbiati, infuriati o, come dite voi, mandalo a quel paese: prima o poi lo dimenticherai.
- E’ difficile.
- Bíonn gach tosach lag.
- Prego?
- Ogni inizio è difficile. – tacque per un momento, restando a guardare il ciondolo che aveva ancora al collo – Conosci il paradosso di Achille e la tartaruga? Achille deve raggiungere la tartaruga. Achille corre dieci volte più veloce della tartaruga e le concede dieci metri di vantaggio. Achille corre quei dieci metri e la tartaruga percorre un metro; Achille percorre quel metro, la tartaruga percorre un decimetro; Achille percorre quel decimetro, la tartaruga percorre un centimetro; Achille percorre quel centimetro, la tartaruga percorre un millimetro; Achille percorre quel millimetro, la tartaruga percorre un decimo di millimetro, e così all’infinito. Achille può correre per sempre senza raggiungerla, perché la tartaruga ha quel minuscolo vantaggio, anche se sembra inutile. Tu, intanto, prenditi quel piccolo vantaggio, quella piccola distanza che ti separa dal passato e vedrai che esso smetterà prima o poi di inseguirti e di tormentarti.
- Sean O’Brien, tu sei un uomo saggio, lo sai?
- Mia cara, io sono irlandese.
- E dunque?
- Non sono solo saggio, sono assolutamente perfetto.
- Aggiungi anche modesto e l’hai fatta completa.
- Ho chiamato gente che fa musica dal vivo, stasera. Vuoi restare?
- Magari un’altra volta. Ho un po’ di noie da sbrigare, adesso che sta finendo l’anno. Comunque, grazie.
- E di cosa? Quando vuoi, il “Joyce” è casa tua. – sorrise – Slàn leat, Francesca.
- Ci vediamo, Sean.
Il leprechaun fischiò, mentre si chiudeva la porta alle spalle.

   
 
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