Sì, sono tornata! Non
è un pesce d’aprile!^^
9
~ … prima della tempesta ~
(parte seconda)
Le sembrava di stare seduta sui carboni ardenti.
La cena era quasi giunta alla sua conclusione e Rachel era
così tesa da avere la nausea. Continuava a punzecchiare il cibo nel piatto,
prestando un orecchio distratto alla conversazione tra i suoi genitori.
La sua testa era un groviglio di pensieri, che ruotavano
vorticosamente attorno a due fulcri: Dick e il Centro-Adozioni.
Si sentiva malissimo per quello che era successo in
clinica, nonostante Lula le avesse proibito di
sentirsi in colpa. “Sei tu che devi portarlo in pancia per nove mesi” le aveva
detto. “È sacrosanto che sia tu a decidere.” Ma Rachel si sentiva orribile lo
stesso, soprattutto perché si era ripromessa di rendere Dick partecipe e, invece,
aveva dato per scontato che lui approvasse la scelta di dare il Fagiolino in
adozione.
Le si strinse la bocca dello stomaco.
Fino a quella mattina era convinta di quello che stava
facendo: darlo in adozione significava garantirgli una vita migliore di quella
che avrebbero potuto offrirgli due genitori ancora nel pieno dell’adolescenza.
A essere
completamente sincere, però, prediligevi questa scelta perché è una gran bella
scappatoia: avevi intenzione di spararlo fuori, metterlo in mano a qualcuno e
scappare nel college più lontano possibile, pronta a dimenticarti tutto e
ricominciare da zero.
Si lasciò sfuggire un gemito: era
davvero una persona orribile. Orribile, orribile, orribile…
“Tesoro? Va tutto
bene?” le chiese sua madre, guardandola un po’ preoccupata. Anche suo
padre si voltò a osservarla, le spesse sopracciglia
lievemente aggrottate.
L’ansia le serrò la gola.
Con calma, Rachel.
Non hanno ancora finito il dolce e tu non sei nello stato d’animo giusto per
affrontare questo discorso: lascia perdere per stasera e…
“Sono incinta” proruppe, prima di potersi fermare.
… Come non detto.
Gli occhi di sua madre si spalancarono talmente tanto che
per la prima volta comprese il vero significato di “occhi fuori dalle orbite”. Suo
padre rimase impassibile e silenzioso per quasi un minuto d’orologio, durante
il quale Rachel si torse le mani fino a farsi male.
“È uno scherzo, Rachel? Perché non lo
trovo divertente” disse, infine, Jonathan Reyes.
Rachel non ce la fece a reggere lo sguardo accusatore di
quegli occhi scuri. Scosse lentamente la testa, sussurrando con un filo di
voce: “No”.
Sentì sua madre trattenere il fiato.
Un altro minuto di tensione, tanto densa che si poteva
tagliare col coltello. Rachel azzardò un’occhiata ai suoi genitori. Suo padre
aveva le labbra così tese che sparivano del tutto
sotto la fitta barba sale e pepe. Sua madre era pallida e boccheggiante.
A sorpresa, fu quest’ultima a prendere la parola. “Non
sapevamo che avessi un ragazzo…”
Rachel avvampò per la vergogna. “Io non… non ho un
ragazzo.” Le sembrò che le andassero a fuoco le orecchie mentre lo diceva.
“Ah!” sbottò suo padre, inspirando dal naso con tanta
veemenza che le narici sbiancarono.
“M-Ma non è come credi…” tentò
di spiegarsi lei, venendo interrotta da un gesto perentorio del padre.
“Non dire più nulla. È esattamente come credo,
invece. E non voglio sentirti dire altro stasera” disse, col
tono di voce di chi si sta trattenendo a malapena dall’esplodere.
Basta così. Non
peggiorare la situazione.
Però Rachel voleva spiegarsi, non voleva che i suoi la
credessero una poco di buono. “È stato uno sbaglio, papà. È vero:
sono stata una stupida, però…”
“Non voglio sentire un’altra parola, dannazione! Non sei
stata solo stupida: ti sei rovinata la vita, Rachel,
lo capisci?!” tuonò Jonathan Reyes, alzandosi in
piedi di scatto. Il suo viso era paonazzo e gli occhi lucidi. “Mi hai deluso in
un modo che non credevo possibile…”
Il tono più quieto e amaro con cui disse quelle parole le
fece arrivare una per una come stilettate nel cuore.
Sua madre si morse il labbro inferiore. Posò una mano sul
braccio del marito. “John…” pronunciò il suo nome, mentre con gli occhi lo
pregava di calmarsi.
“Niente ‘John’, Nora!” proruppe l’uomo, ormai un fiume in
piena. “Ho messo al mondo due figli: se avessi saputo che mi avrebbero dato
soltanto dispiaceri, avrei evitato! Avevo tanti progetti per loro… Tra lei e Julian non so chi sia il fallimento più grande!”
“Questo non è giusto!” sbottò a sua volta Rachel,
alzandosi dalla tavola con rabbia. “Julian ha solo
seguito il suo sogno!”
“Non farmi neanche cominciare con tuo fratello! Non ha
nemmeno avuto il coraggio di dirmi quello che doveva in faccia: si è limitato a
non tornare!”
“Forse se tu non fossi così rigido e provassi ad ascoltare
opinioni diverse dalle tue…!”
“Come ti permetti di venire a dirmi come mi devo
comportare dopo che ti sei fatta mettere incinta da uno che non è neanche il
tuo ragazzo! Pensavo di avere toccato il fondo con Julian,
ma con te è anche peggio! Siete una vergogna: non voglio più avere niente a che
fare con voi!”
Le si bloccò il fiato in gola, mentre le si riempivano gli
occhi di lacrime.
Un pugno venne sbattuto sulla tavola. Anche sua madre ora
era in piedi. “Adesso basta!” esclamò, guardandoli adirata. “Non ho intenzione
di permettervi di dire ancora qualcosa di cui vi pentirete domani mattina. Ora,
Rachel, va’ in camera tua: io e tuo padre dobbiamo parlare.”
Tentennò, aprendo un’altra volta la bocca per ribattere.
Da’ retta a tua
madre, avanti.
Si morse forte le labbra e uscì dalla sala da pranzo. Fece
di corsa le scale che conducevano al piano superiore della bella villetta di
proprietà dei suoi, entrò in camera sua, si chiuse la porta alle spalle e vi si
appoggiò, lasciandosi scivolare a terra. Premendosi i palmi sulle palpebre, si
lasciò andare a un pianto disperato.
Le lacrime rotolavano bollenti sulle guance, mentre si
prendeva la testa tra le mani e si raggomitolava su se stessa. Le si tappò
quasi subito il naso, così il respiro le uscì dalla bocca, rotto dai
singhiozzi. Dopo un paio di minuti, sentì il mal di testa farsi strada dalle
tempie agli zigomi, risalendo poi il contorno delle sopracciglia. Facendo dei
profondi respiri, diminuì l’intensità del pianto e nell’oscurità gattonò alla
ricerca di un fazzoletto con cui soffiarsi il naso. Non ne trovò sul comodino e
fu costretta ad alzarsi per prendere quelli che teneva in bagno.
Ancora scossa da sporadici singhiozzi e con la testa
pulsante, lanciò un’occhiata al proprio riflesso: l’impietosa luce artificiale
sottolineava con beffarda crudeltà naso e occhi, entrambi gonfi e rossi. Come sempre
vedersi ridotta in quello stato ebbe un effetto calmante su di lei: l’ultima
lacrima appesa alle ciglia cadde sulla guancia, lasciandole gli occhi
finalmente asciutti.
Dal piano di sotto giunsero le voci concitate dei suoi
genitori. Non riusciva a capire le parole, ma i toni erano accesi.
È colpa tua, lo sai?
Avresti anche potuto usare la testa e dirlo in un modo meno traumatico.
Sbuffò dal naso, tamponandoselo con un fazzoletto. Esisteva
davvero un modo meno traumatico di dire ai suoi che aspettava un bambino?
E, comunque, suo padre aveva reagito ancora una volta in
modo esagerato.
Lo sai che è fatto
così. Si arrabbia così tanto perché vi vuole bene e vorrebbe il meglio per voi.
Sì, questo era quello che diceva sua madre. Lei non aveva
mai sentito la bocca di suo padre pronunciare quelle parole. A questo punto
cominciava a dubitarne.
Beh, non è che gli
hai dato la notizia del secolo. Come ti aspettavi che reagisse? Che ti
abbracciasse e ti dicesse: “Brava, ben fatto!”?
Sospirò e si sdraiò sul materasso, carezzandosi
distrattamente il basso ventre. Il Fagiolino era lì, immerso nel liquido
amniotico, beatamente ignaro dello scompiglio che aveva provocato. Rachel si rannicchiò
in posizione fetale, coprendosi la testa con un cuscino, e provò a immaginare
cosa volesse dire passare tutta la giornata dentro una sacca d’acqua, con
l’unica preoccupazione di mangiare ed espletare i propri bisogni. Niente
scuola, niente genitori arrabbiati, niente litigi con Dick…
“Sei fortunato a stare lì dentro, tu” mormorò, continuando
a disegnare piccoli cerchi sotto l’ombelico.
Sentì passi sulle scale e le voci dei suoi farsi sempre
più vicine.
“… John! Dormici su e riparliamone domani mattina.”
“Dormirci su? Dormici
su?! Ma ti sei bevuta il cervello, Nora? Come puoi
anche solo pensare che io riesca a chiudere occhio stanotte?!
Dopo quello che ha combinato quella… quella… Ah! Non so nemmeno come chiamarla!”
“Tua figlia.”
“No, Nora. Io non ho più figli: sono stanco di essere
deluso.”
Rachel si irrigidì, bloccando la mano a metà di un
cerchio. Un prurito al naso le preannunciò l’arrivo di nuove lacrime, ma batté
più volte le palpebre per non farle cadere. Anche quando le voci dei suoi si
allontanarono per poi spegnersi dietro la pesante porta in legno della loro
camera, rimase sdraiata su un fianco a guardare il nulla.
Aveva passato tutta la vita a cercare di compiacere suo
padre in ogni modo e questo era il risultato? Uno solo
errore, per quanto grosso, cancellava tutti quegli anni dedicati a farlo
contento?
Sai che non è così:
è solo arrabbiato. Dice cose che non pensa veramente.
Il cuore batteva rapido, propagando un dolore sordo in
tutto il petto. Si mise a sedere, socchiudendo per un attimo gli occhi. Quando
li riaprì qualche istante più tardi, aveva preso una decisione. Si chinò per
prendere la borsa da viaggio, lanciata sotto il letto una domenica in cui le
era venuta la stramba idea di mettere in ordine la sua stanza, e poi si diresse
verso l’armadio.
Oh, ti prego, Rachel! Cosa pensi di risolvere in questo modo?
Probabilmente niente, si disse, iniziando a mettere sul
fondo della borsa alcuni cambi di biancheria. Ma non poteva stare in quella
casa un secondo di più. Suo padre non la considerava più come figlia?
Benissimo: non l’avrebbe più avuta in mezzo ai piedi.
Sei pazzesca: da
quando sei incinta ragioni come una mocciosa di dodici anni.
Una volta messi dentro i pantaloni, proseguì con
magliette e felpe. Dodici anni? Beh, visto che non si era mai comportata in
modo irrazionale e impulsivo quando era più piccola, forse era giunto il
momento di recuperare il tempo perduto.
Infilò nella borsa un altro paio di scarpe e il
beauty-case recuperato dal bagno e richiuse la zip con
fare deciso. Prese lo zaino, vi cacciò dentro qualche libro di scuola e
qualcuno di lettura, assieme al portafogli, i-pod,
cellulare con caricabatteria e documenti d’identità. Andò alla scrivania e aprì
un paio di cassetti. Frugò tra le varie cianfrusaglie e tirò fuori un
portatessere: all’interno, la carta di credito che le avevano regalato i suoi
genitori e dove aveva diligentemente versato tutti i soldi guadagnati nei due
anni in cui aveva lavorato al Bookworm. Se la rigirò per un attimo tra le mani.
Sei sicura che sia
la scelta giusta?
Non lo sapeva. Sapeva solo che doveva andarsene da lì. E
poi non vedeva Julian da moltissimo tempo.
Indossò il giaccone e si voltò verso la finestra, fissando
determinata i rami dell’albero che arrivavano quasi al suo davanzale. Ripensò a
tutte le volte che li aveva guardati e aveva immaginato di scivolare giù, fino
al prato che suo padre curava in modo quasi maniacale. Ora avrebbe finalmente
scoperto cosa si provava a farlo sul serio.
Si mosse sicura per la stanza alla ricerca di tutto il
necessario, come se avesse pianificato tutto da tempo. Alzò il coperchio del
cesto di vimini pieno dei suoi giochi di bambina, vi infilò la mano e la tirò
fuori un secondo più tardi, stringendo tra le dita la vecchia corda per saltare.
Ne controllò la lunghezza e poi la legò senza esitazione alle maniglie del
borsone.
Aprì la finestra, venendo investita dal vento gelido della
sera. Appoggiò l’improvvisato bagaglio sul davanzale e, tenendo saldamente la
corda con una mano, cominciò a calarlo con cautela. Nonostante la corda fosse
molto lunga, non arrivava fino a terra; così, dopo aver contato fino a tre,
Rachel lasciò andare l’estremità che aveva tenuto tra le dita, facendo
atterrare con un lieve tonfo la borsa sul prato.
Rimase immobile, tendendo le orecchie. Nessun passo, né
voce: i suoi non si erano accorti di nulla, visto che la loro finestra dava sul
lato opposto del giardino. Si voltò del tutto verso la porta della sua stanza,
per un attimo sperando che qualcuno entrasse per fermarla. Ma la maniglia
rimase ferma.
Tirò su col naso e con un gesto risoluto si mise lo zaino
in spalla. Con cautela scavalcò la finestra, appoggiando bene i piedi sulle
tegole. Il cuore le batteva fortissimo in gola mentre sedeva sul davanzale,
lacerata tra il desiderio di andare e il terrore di stare per affrontare un
cambiamento troppo grande per lei.
Forse niente sarà
più come prima, Rachel. Te la senti per davvero?
Lasciò andare la cornice della finestra che aveva
artigliato e si aggrappò al ramo più robusto. Non si diede il tempo di pensare
ulteriormente, perché di certo si sarebbe convinta a riappoggiare i piedi sul
fermo pavimento della sua stanza, invece che lasciarli penzolare a mezz’aria.
Si concentrò sulla ruvida corteccia che sentiva sotto le mani e sulle gocce di
sudore che le colavano lente lungo la schiena, mentre avanzava con fatica verso
il tronco. Una volta raggiunto, si dondolò per darsi una spinta e arrivare a
cingerlo con le gambe. Da lì cominciò la sua cauta discesa a terra.
Ce l’aveva fatta, pensò, quando appoggiò un piede sul
prato. Sentiva il battito cardiaco nelle orecchie, aveva i palmi delle mani
rossi e graffiati ed era accaldata come se avesse corso una maratona, ma ce
l’aveva fatta. Per un attimo si sentì in cima al mondo, leggera ed euforica.
Poi, però, lanciò uno sguardo verso l’alto, verso la sua finestra buia, e sentì
le ginocchia cederle di fronte all’enormità del suo gesto. Ma ormai la
decisione era presa. Deglutì il groppo in gola e si impose di camminare verso
il borsone. Lo sollevò e, passo dopo passo, si allontanò dalla casa che era
stata il centro di tutta la sua esistenza.
Ogni metro che percorreva era più difficile da macinare
del precedente: si sentiva strana e morsa dai sensi di colpa per non aver
lasciato nemmeno una nota che spiegasse la sua fuga.
Puoi sempre tornare
indietro: non è ancora troppo tardi.
Per un attimo vacillò e rallentò l’andatura fino a
fermarsi; ma poi scosse la testa e riprese la sua metodica marcia verso la
stazione dei bus. Mettendo un piede dopo l’altro poteva arrivare fino in Cina,
ma lei voleva fermarsi prima: a Londra, da suo fratello. Sarebbe andata in
aeroporto e avrebbe preso il primo volo disponibile per l’Europa.
Ecco, magari però
non è il caso di comparirgli sullo zerbino di casa e gridare: “Sorpresa!”. Non credi, Rach?
Frugò nella tasca dello zaino, alla ricerca del cellulare.
Compose il numero continuando a camminare. Julian
rispose solo al sesto squillo. “Pronto?” biascicò con voce impastata di sonno e
irritazione. “Pronto? Ma chi è che chiama a quest’ora?!”
Ops. Dovevano essere le primissime
ore del mattino a Londra. “Ciao, Jule!” lo salutò con
voce il più allegra possibile. “Ti ho, ehm,
svegliato?”
“Rachel?” esclamò lui, sorpreso e decisamente più sveglio.
Si esibì in un perfetto grugnito. “Spero tu abbia un’ottima ragione per avermi fatto
alzare a quest’ora assurda…”
“‘Sono appena scappata di casa’ è una ragione
accettabile?”
“Che cosa?! Ma
che è successo?”
“Ho avuto una discussione con mamma e papà e me ne sono andata.”
“Mi prendi in giro?”
“No, sono dannatamente seria: ho aperto la finestra e ho
usato il vecchio platano per scendere.” Nessun rumore dall’altro capo del
telefono. “Ci sei ancora, Jule?”
“Io… Io non ci posso credere… La mia sorellina che scappa
di casa…” Fece una pausa, come per assaggiare il gusto delle parole in bocca.
Poi scoppiò in una breve risata incredula. “E dire che quando ti ho lasciata
eri tu quella responsabile!”
Rachel fece una smorfia, decidendo di togliersi subito il
dente. “Beh, se fossi veramente responsabile ora non sarei incinta.”
“Tu sei cosa?!” bisbigliò Julian, colto alla sprovvista.
“Incinta. E in procinto di prendere un aereo per venire a
trovarti.” Un suono simile a un respiro strozzato attraversò l’etere. “Oh, Jule, ti prego! Lo so che sono tante notizie da assimilare nel
giro di due minuti, ma ho davvero bisogno di poter stare da te un po’: mi serve
un posto lontano da tutto per poter riflettere con calma! Per
favore…”
“Rachel…” Emise un sospiro secco e Rachel se lo immaginò
benissimo mentre passeggiava in tondo, massaggiandosi la fronte, come faceva
ogni volta che aveva a che fare con un grattacapo. “Ma che razza di casino hai
combinato? Hai solo diciassette anni…”
“Lo so! È per questo
che ti sto chiedendo aiuto!” La voce le uscì incrinata.
“Ma io non posso aiutarti! Come puoi
anche solo pensare che scappare sia la soluzione del problema?”
“Per te ha funzionato bene, mi pare” ribatté,
irrigidendosi.
“Non dire scemenze: sai che non è la stessa cosa.” Anche
la voce di Julian suonava più irritata. “Tu adesso te
ne torni a casa, parli con mamma e papà e…”
“Io non posso tornare a casa!” sbottò.
“Non fare la melodrammatica, adesso! Sono sicuro che se
affronterete la questione con calma…”
“Già, come hai fatto tu quando hai detto a papà che te ne andavi
a Londra a fare l’attore, vero?” esclamò sarcastica Rachel, zittendolo. “Grazie
di nulla, Julian. Sta’ pur certo che non ti chiederò
mai più un favore in vita mia!”
“No, Rachel, aspet…!”
Chiuse la comunicazione, sentendosi fremere per la rabbia.
Il telefono cominciò a vibrare un istante più tardi, facendo lampeggiare il
numero di Julian.
Non rispose né a quella né alle cinque chiamate che
seguirono. Rimase ferma, col borsone appoggiato a terra e neanche la benché
minima idea di che fare. Razionalmente capiva che quello che suo fratello le
suggeriva era giusto, ma il solo pensiero di tornare a casa le faceva
attorcigliare le viscere. Aveva bisogno di un rifugio dove poter metabolizzare
quello che era successo e sapeva – se lo sentiva nello stomaco – che in quel
momento casa sua non era il posto giusto.
I minuti scorrevano veloci. Di certo Julian
aveva avvertito i suoi genitori e il primo posto dove l’avrebbero cercata era
proprio la stazione degli autobus. Doveva trovare una soluzione alternativa.
Tuttavia, le alternative non erano molte: stare da Cora
era fuori discussione – i suoi erano un po’ bigotti e non avrebbero accettato
di ospitare una ragazza incinta – e Lula aveva già a
che fare con un ospite indesiderato. Che fare? Aveva bisogno d’aiuto, ma a chi
chiedere?
Un nome si fece strada nella sua mente. Rachel si strinse
al petto il cellulare, indecisa sul da farsi. Chiamare
o non chiamare? Un’occhiata all’orologio le ricordò che i tempi erano stretti.
Prendendo un gran respiro, scorse la rubrica e premette il tasto di chiamata…
Commenti:
Lo so… Lo so… -_-‘
Avevo promesso di aggiornare più di un mese
fa, cascasse il mondo, e non l’ho fatto. Il problema è che non è cascato il
mondo, ma è cascato il mio computer ed è stato un vero e proprio disastro:
tutti i file e parte della mia tesi sono andati a farsi benedire…
Riscrivere questo capitolo è stato in
pratica un parto e non so nemmeno dire se è venuto bene o male. Ci ho lavorato
a fasi alterne, scrivendolo su foglietti nei momenti in cui non lavoravo alla
tesi, per cui può darsi che non sia del tutto omogeneo. Ho voluto pubblicarlo
lo stesso, perché se continuo a tentare di limarlo non riuscirò mai ad andare
avanti con la storia. Quindi, chiedo scusa per il ritardo, e spero che il
capitolo non vi faccia troppo schifo.
Ringrazio infinitamente marty15, Nickyley,
Gea_Kristh,
ibiscus, Korat, Chiara84, Lucille_Arcobaleno, iris unique rouge e Valentina78
per aver commentato lo scorso capitolo. Spero che anche questo vi piaccia.
Per quanto riguarda l’aggiornamento,
stavolta non vi do una data precisa. Posso promettervi, però, che l’attesa sarà
meno lunga di questa: mi sono laureata due giorni fa (evviva!) e così dovrei
riuscire a dedicare più tempo alla scrittura.
A presto!
Ale