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Autore: irenec94    02/04/2011    1 recensioni
L’orologio immobile sulla parete sopra il divano, le comunicava con fare metodico e svogliato che era quasi giunta l’ora di tornare a casa.
Erano dieci mesi che si svegliava alle sette e mezzo in punto di grigie mattine, monotone e sonnolente, si intrufolava a fatica fra la gente taciturna e affaticata che affollava il bus, si sedeva nell’ultimo posto in fondo alla vettura ed osservava assente il rincorrersi delle case e dei palazzi che si srotolavano lungo la strada...
Genere: Avventura | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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FOREVER FOREVER
L’orologio immobile sulla parete sopra il divano, le comunicava con fare metodico e svogliato che era quasi giunta l’ora di tornare a casa.
Erano dieci mesi che si svegliava alle sette e mezzo in punto di grigie mattine, monotone e sonnolente, si intrufolava a fatica fra la gente taciturna e affaticata che affollava il bus, si sedeva nell’ultimo posto in fondo alla vettura ed osservava assente il rincorrersi delle case e dei palazzi che si srotolavano lungo la strada.
I suoi pensieri si perdevano fra quella schiera di silenzi e di incertezze, e la sua mente si librava alta fra le nuvole, ripiombando dolorosamente nella quotidiana realtà non appena il conducente annunciava il nome della sua fermata.
Non sapeva perché avesse accettato quel lavoro, lei che fin a pochi anni prima aveva accarezzato l’idea di diventare una scrittrice, una modella, una donna in carriera.Come aveva fatto ad arrendersi alla mestizia di uno squallido posto di segretaria in un piccolo studio notarile.Certo le bollette da pagare, l’affitto e le spese giornaliere da affrontare erano una ragione più che plausibile, ma dove erano andati a morire i suoi sogni?
Sua sorella Magdalene non aveva mai desiderato nulla di ciò che i suoi voli pindarici avevano sfiorato, eppure ora viveva in una splendida casa, a pochi isolati dalla villetta dei suoi genitori, con un aitante marito a scaldarle il letto e due bimbi da accudire.
In che aveva sbagliato?
Perché la sua esistenza non assomigliava in nulla alle immagini di grandezza che popolavano i suoi sogni?
Le solite tristi e trite domande le martellavano le tempie; prese il cappotto dall’appendiabiti in fondo al salottino d’attesa, ripose in bell’ordine le pratiche che il notaio avrebbe dovuto assolvere nel pomeriggio, impilando con cura i faldoni sopra la scrivania in mogano del suo anziano datore di lavoro, scese lentamente le scale giungendo in strada appena trafelata.
Si diresse verso la fermata del bus, poi ,improvvisamente, decise che aveva una gran voglia di camminare.
Si diresse verso la Quattordicesima strada con fare spedito, si ravviava ogni tanto le lunghe ciocche di capelli che le volavano sul viso, un passante le osservò con concupiscenza le gambe, non ci badò molto.
Una vetrina d’antiquariato attirò la sua attenzione: esponeva una serie di bambole in porcellana dai prezzi spropositati, non poteva di certo permettersele, ma non aveva nulla da fare nel pomeriggio, nessuno che l’attendesse nel piccolo monolocale, nessun appuntamento al quale avrebbe rischiato di giungere in ritardo.
Entrò.
Il negozio era grande e ben illuminato, dalle pareti facevano capolino quadri, per lo più di soggetto bucolico, il pavimento era ricoperto da sontuose cataste di tappeti pregiati ,mobili d’epoca ingombravano il resto dello spazio disponibile.
Iniziò a vagare senza un vero scopo fra la merce esposta, accarezzava le soffici imbottiture dei divani, scrutava i contorni armoniosi delle librerie di legno, si osservava riflessa negli specchi incorniciati d’ottone, poi si arrestò quasi estasiata dinnanzi ad un ritratto.
Il quadro era appeso nelle vicinanze di un letto a baldacchino con la spalliera in ottone e ferro battuto, la cornice era semplice, scura, senza intagli, il volto raffigurato era quello di un giovane, moro, con i capelli mossi che gli sfioravano le spalle, i lineamenti erano delicati, il naso piccolo e ben delineato, la mascella quadrata, gli occhi scuri e profondi leggermente a mandorla, conferivano al volto un che di orientale, indossava una camicia bianca di pizzo, si intravedevano le mani, affusolate,ben curate, ornate dalle balze arricciate delle maniche, stringeva una pergamena e sorrideva, il sorriso più dolce che Mel avesse mai visto.
“E’ un ritratto molto antico, signorina” la voce alle sue spalle la fece sobbalzare “Risale alla prima metà dell’800, lo abbiamo acquistato proprio ieri da un privato, le interessa?”.
Mel si voltò lentamente dalla parte dell’antiquario, un uomo piccolo con dei grandi baffi da sceriffo che la sbirciava da dietro un paio di lenti spesse ed opache.
“Sì, mi interessa, chi è l’uomo ritratto?”.
“Onestamente non lo so, il tizio che ce lo ha venduto è un musicista blues, uno spiantato, vado contro i miei interessi se le confido che si è accontentato di una cifra irrisoria, ma sembrava avesse molta fretta di disfarsi del quadro, probabilmente non gli apparteneva” accompagnò quest’affermazione con un’eloquente alzatina di sopracciglia che strappò a Mel un sorriso divertito.
“Quindi non è in grado di svelarmi l’identità dell’affascinante letterato”.
“Da cosa deduce che l’uomo del ritratto sia stato un letterato?”.
Mel additò la pergamena dipinta fra le mani del giovane.
L’antiquario sorrise compiaciuto.
“Ha un ottimo spirito d’osservazione” si complimentò.
“Quanto costa”.
“Vediamo, posso lasciarglielo per Mille dollari”.
Mel non indugiò oltre.
“Le posso firmare un assegno?” chiese sfoggiando la sua migliore aria da donna d’affari.
“Certo, glielo prendo”.
Mel firmò il primo assegno del blocchetto ancora intonso, il suo conto in banca ammontava esattamente alla folle cifra di Millesettecentoottanta dollari, comprare quel quadro era un’assoluta follia, ma lo voleva, Dio solo sapeva per quale ragione, ma lo voleva più di ogni altra cosa avesse mai desiderato.
Uscì dal negozio con il suo prezioso carico stretto sotto il braccio, corse per giungere nell’appartamento, aveva la spiacevole sensazione che la carta che ricopriva il volto di quell’uomo misterioso, impedisse al giovane di respirare.
(Che sciocchezza) pensò ( i quadri non respirano).
Il suo appartamento si trovava al quarto piano di una palazzina antica, poco illuminata e poco accogliente.
Accese la luce ed il disordine che regnava sovrano nel soggiorno, adibito a studio e camera da letto, la sorprese, non rammentava di aver lasciato tutta quella Babele.
Scartò il dipinto, staccò dal muro il paesaggio tropicale che languiva lì da quattro anni, cimelio del viaggio di nozze di sua sorella, ed appese il suo meraviglioso ritratto.
Incantevole.
Ma la casa non poteva restare immersa in quel folle disordine aveva ospiti, si disse divertita; sì sì, ospiti per cena.
Le ci vollero quasi tre ore per rimettere in sesto il monolocale, e quando ebbe finito, apparecchiò la tavola di fronte al quadro, si sedette con un bicchiere di vino in mano e osservò attentamente i lineamenti del giovane. Sorrideva in maniera splendida. Sembrava sorridere proprio a lei. Era tanto che un uomo non le sorrideva così, troppo.
“Di cosa vogliamo parlare mio giovane amico?”chiese rivolta la quadro.
“Potremmo cominciare da qualcosa di banale, per esempio, come ti chiami? Già perché un nome lo devi pur avere, vediamo un po’, sei un uomo affascinante, sicuramente ricco e con molta cultura, i tuoi occhi sono velati di malinconia, potresti chiamarti Patric, oppure Morris, no credo che il nome giusto per te sia...Edgar, come Poe, è il mio scrittore preferito sai. Anch’io sarei potuta diventare una scrittrice, oppure una giornalista, feci perfino un provino per diventare attrice, ma il fato ha voluto altrimenti e mi ritrovo sola e annoiata in uno squallido studio di avvocato a fare la segretaria, strana la vita ,sai? Non sono riuscita a realizzare nessuno dei miei sogni, non sono neppure riuscita a trovare un uomo che mi ami, credo di essere un vero fallimento, dopo tutto solo un autentico fallimento come me spenderebbe quasi tutti i suoi averi per comprare un quadro solo perché ha bisogno di compagnia”.
Due lacrime roventi le scesero lungo le guance levigate e la sua flebile voce si ruppe in un singhiozzo rumoroso e metallico.
La vista le si appannò per un attimo e le parve di vedere il sorriso di Edgar affievolirsi, e le sopracciglia distese corrucciarsi, il viso sembrò voltarsi nella sua direzione e fissarla.
Si asciugò gli occhi di scatto e si avvicinò al quadro con il cuore che le batteva nel petto all’impazzata.
Nulla.
Il giovane sorrideva come prima con la pergamena stretta nella mano.
Eppure... 
Decise che per quella sera poteva andare a letto senza prendersi il disturbo di mangiare e lasciò sul tavolo la carne ai ferri con l’insalata che aveva cucinato poco prima.
La notte trascorse serena, per la prima volta da molti mesi non ebbe problemi ad addormentarsi, si destò ristorata, ma ciò che vide le strappò un grido.
La tavola era ancora apparecchiata esattamente come la sera precedente, ma le posate erano sporche ed incrociate al centro del piatto, la carne era sparita e dell’insalata restavano solo poche foglioline che galleggiavano nell’olio del piatto.
“Oh mio Dio” sussurrò.
Istintivamente si avvicinò al ritratto, e, naturalmente, non vide nulla di mutato.
“Che mi succede” sussurrò “sonnambulismo?” chiese alla casa vuota.
Non poteva esserci altra spiegazione, doveva essersi destata in piena notte e aver consumato il pasto in uno stato d’incoscienza.
Certo una cosa del genere non le era mai capitata, ma un episodio dettato dalla stanchezza o dall’eccessiva tensione nervosa poteva essere giustificabile.
Un’occhiata furtiva all’orologio la informò che era in ritardo.
Si vestì in fretta, raccolse i capelli in un precario chignon, inforcò un paio d’occhiali da sole e raggiunse la porta di casa.
Si guardò un attimo alle spalle e disse:
“Ci vediamo stasera”.
“Ti auguro una buona giornata tesoro”.
Gridò.
Si voltò di scatto e lo vide.
L’uomo del ritratto si era voltato dalla sua parte e con lo stesso meraviglioso sorriso la salutava con un leggero cenno della mano.
Chiuse la porta alle sue spalle e s’ irrigidì contro la porta.
“Sto impazzendo”.
Doveva rientrare nell’appartamento ed affrontarlo.
No,doveva andare di corsa ad un buon ambulatorio psichiatrico.
No, doveva andare al lavoro, quando sarebbe tornata avrebbe gettato il quadro nell’immondizia, così nessun baldo giovane d’altri tempi le avrebbe rivolto il saluto ammiccante da dentro una cornice d’ebano.




La giornata volò via troppo in fretta, l’orologio contro il muro sembrava impazzito:le lancette non avevano smesso un solo attimo di rincorrersi, mettendola di fronte alla sconcertante verità del suo imminente rientro in casa.
Alle otto e venti era impietrita dinnanzi all’uscio del monolocale, le chiavi strette nella mano destra e lo stomaco serrato in una morsa d’acciaio.
Entrò.
La stanza era ben illuminata, il lampadario era acceso, ricordava di averlo spento mentre si accingeva ad uscire.
Si portò davanti al quadro e fissò Edgar con aria perplessa ed indagatrice.
“Allora” quasi gridò “non hai nulla da dirmi?”, il tono isterico e fremente della sua voce la fece ulteriormente innervosire.
Edgar si voltò nella sua direzione, allungò una mano e le accarezzò il volto.
Mel svenne.
Si riebbe qualche istante dopo, si issò a fatica dal pavimento massaggiandosi il fondo schiena indolenzito.
“Spero che non ti sia fatta male” l’apostrofò il quadro con ironia.
Mel si sedette sulla sedia accanto al tavolo, le gambe le tremavano all’unisono con le mani e la voce sembrava non aver alcuna intenzione di sgorgarle dalle labbra.
“Sono io” continuò il dipinto “Edgar, l’uomo con il quale ti stavi confidando ieri sera, non mi vorrai far credere di avere veramente paura di me?”.
Il colore ad olio si increspava attorno alle labbra del giovane, l’immagine in movimento era assurdamente priva di profondità, piana ,ma le trasmetteva un singolare senso di pace.
“Non è possibile”.
“La vita riserva sorprese meravigliose”.
“Tu sei vivo” terminò la frase con un singhiozzo.
“No, per l’esattezza sono morto quasi duecento anni fa, giorno più giorno meno.Non sono neppure propriamente un fantasma, se è questo che stai pensando, sono una sorta di proiezione”.
“Cosa?”.
“Ecco, come spiegarlo in maniera semplice, la mia anima è intrappolata in questo quadro, posso toccare gli oggetti che mi circondano, posso parlare, ma non posso lasciare questa cornice”.
“Oh...ho capito, dunque ...credo di aver bisogno di ulteriori dettagli. Chi sei?”.
“Edgar Allan Morrison”.
“Piacere, Mel Singer” si alzò e strinse la mano che sporgeva dalla parete, era fredda e sottile, sentì la tela ruvida e lucida di colore sotto i polpastrelli e si ritrasse inorridita.
“Ero un alchimista, sono nato a Belfast il 14 gennaio 1798 e sono stato bruciato sul rogo come stregone a Stratford, un paesino inglese, il 18 marzo 1828. La Santa Inquisizione era solo un ricordo lontano per il resto dell’Europa, ma per gli zelanti bifolchi calvinisti, il fuoco restava un grande alleato contro i trucchi del Maligno” rise scoprendo una fila di denti inesistenti al posto dei quali si estendeva un profondo pertugio nero come la notte.
“C-continua” balbettò Mel.
“Nelle segrete del castello di Stratford riuscii a fare amicizia con una giovane donna che mi portava il pranzo, la convinsi a trafugare alcuni oggetti dalla mia casa: un piccolo prontuario di negromanzia, una tela e dei colori ad olio”.
“E ti facesti un autoritratto”.
“Esattamente, lo dipinsi con il mio sangue e la mia urina”.
Mel fece una smorfia disgustata ed Edgar rispose con il solito sorriso sdentato.
“Poi vi recitai un’antica invocazione sabbatica e strinsi un patto con le forze oscure”.
“Credo di non avere molta voglia di sapere il resto, ma dubito che me lo risparmierai”.
“Il patto prevedeva che alla mia morte fisica la mia anima sarebbe trasmigrata nel ritratto, e ,come immagine, il mio Io sarebbe vissuto in eterno privo della carne e del sangue”.
“Non hai fatto un grande affare amico mio, non credo che l’eternità appeso ad una parete sia pregna d’interessanti esperienze”.
“Infatti non lo è stata, ma posso porre fine a questo stato precario e tornare a vivere da uomo, ma non posso farlo da solo”.
Mel si accese una sigaretta, inalò a fondo e sbuffò una boccata di fumo riversando la testa all’indietro:
“Non mi intendo molto di magia nera, ma a questo punto in genere entra in ballo un sacrificio umano, giusto?”.
“Sei perspicace mia bella Mel; ho bisogno di un uomo nato il mio stesso giorno, devi condurlo a me perché possa cibarmi della sua carne e devi recitare la preghiera che è scritta sulla pergamena che tengo stretta in pugno”.
“E che mi reciterai affinché io la impari a memoria”.
“No, non posso rivelarla a nessuno, posso solo dirti dove trovarla, ed una volta che sarà in tuo possesso, dovrai decidere liberamente se aiutarmi o no”.
“Ed io cosa avrei in cambio se decidessi di aiutarti?”.
“Ho la facoltà di realizzare uno dei tuoi desideri appena libero, ma attenzione il mio signore pretenderà qualcosa in cambio da te, quando la tua brama sarà appagata”.
“Che cosa?”.
“Non lo so”.
Mel si alzò, accarezzò lasciva il volto del giovane e lo baciò sulle labbra di tela.
“Accetto, dimmi cosa devo fare”.



La mattina seguente telefonò al notaio accampando una banale scusa inerente il suo stato di salute, salutò frettolosamente Edgar e si diresse alla volta della biblioteca cittadina.
Il locale era ampio e polveroso, gli scaffali colmi di libri ed i tavoli ordinati e paralleli le dettero un leggero senso di soffocamento; chiese al bibliotecario se avessero dei testi di alchimia risalenti alla prima metà del diciottesimo secolo, e fu accompagnata in un’area piuttosto lontana dalle altre, in un corridoio vecchio e angusto. L’uomo le indicò una serie di volumi sul ripiano di mezzo e la lasciò senza neppure salutarla.
Scorse con l’indice laccato di rosso i titoli dei volumi e quando trovò quello che poteva fare al caso suo, lo prelevò con fatica dal ripiano e lo portò su un tavolino isolato.
“Negromanzia e vita eterna” recitava lo scolorito titolo sulla copertina.
Si tuffò sull’indice alla ricerca di...
Statua.
Specchio.
Tavolo.
Carte.
Sogni.
Oro.
Tombe.
Quadri.
Bingo. Lo aveva trovato.
Copiò con meticolosità la lunga cantilena in latino che trovò sul volume, ripiegò con cura il foglio di carta riponendolo nella tasca interna della borsetta, e corse via dalla biblioteca senza premunirsi neppure di riporre il libro sullo scaffale dal quale lo aveva prelevato.
Pochi minuti dopo era nuovamente nel suo appartamento.
“Guarda” disse trafelata rivolta al quadro.
Il volto si girò verso la carta e lesse con avidità le righe vergate nell’ordinata calligrafia di Mel.
“E’ lei” esultò “ora devi procurarmi la carne”.
Mel sorrise compiaciuta ed uscì.
La menzogna era sempre un’arte a lei congeniale.
Ritta davanti allo sportello dell’anagrafe non aveva avuto alcun imbarazzo nello spacciarsi per una ricercatrice di mercato, aveva bisogno di consultare gli annuari della città per poter selezionare i futuri clienti ai quali mandare degli opuscoli informativi circa i prodotti per fitness che produceva la ditta per la quale lavorava. L’impiegato era stato riluttante, ma dopo un furtivo centone fatto scivolare sotto il vetro, non aveva mosso ulteriori obiezioni e l’aveva fatta accomodare nell’archivio, chiudendole la porta alle spalle affinché nessuno la disturbasse.
Prelevò il registro che portava impresso l’anno 1973, dopo tutto Edgar era morto all’età di trent’anni, sarebbe stato carino trovare una vittima della stessa età.
Dopo qualche minuto riuscì a trovare un certo Johnathan Livingstone, residente in Melbourne street, al 756, nato il 14 gennaio.
Prese al volo un taxi e si fece lasciare di fronte all’abitazione del signor Livingstone, non aveva idea di come avrebbe fatto, ma lo avrebbe portato a casa sua entro sera.
Bussò.
Johnathan era un atletico ragazzone, alto e muscoloso, con un sorriso da spot pubblicitario stampato sul viso abbronzato, abbordarlo non sarebbe stato difficile.
“Salve” disse Mel sfoderando tutto il suo charme.
“Salve” rispose lui cordialmente “deve essere la mia giornata fortunata, se la prima persona che bussa alla mia porta è una bella ragazza con un sorriso smagliante”.
“La ringrazio, lei è un vero gentiluomo”.
“In cosa posso esserle utile...”.
“Mel” gli disse porgendogli la mano.
“Johnathan”.
“Ecco, non so veramente come dirtelo, posso darti del tu?”.
“Certo” rispose energicamente Johnathan.
“Sono diversi giorni che passo di fronte a casa tua per poterti conoscere, ti ho intravisto attraverso le finestre e mi sei sembrato così carino, oserei dire adorabile, so che può sembrare sciocco, ma se non avessi osato questa volta bussare alla tua porta per stringerti almeno la mano, non ne avrei avuto più il coraggio e non melo sarei mai perdonato”.
“Accidenti, è la prima volta che una donna, per giunta avvenente come te, mi fa una tale dichiarazione”.
“Ti ho imbarazzato” disse appoggiandogli distrattamente una mano sul petto e portandosi l’indice alla bocca, mordicchiandosi l’unghia.
“No, tutt’altro, mi piacciono le donne che hanno iniziativa. Ti vuoi accomodare, ti offro un caffè”. “Oh, mi piacerebbe, ma non vorrei disturbare, ecco...insomma... non so neppure se sei sposato”.
“No, per carità, libero come l’aria”.
“O.K. allora accetto il caffè”.
Chiacchierarono amabilmente per tutta la mattina ed al termine della conversazione, appoggiata allo stipite della porta Mel lo baciò con passione:
“Ti aspetto stasera a casa mia, ti ho lasciato l’indirizzo appuntato su uno dei foglietti attaccati sul frigo, non mancare, giuro che non te ne pentirai”.
E scappò via ridendo come una bambina.





Alle otto e mezzo in punto era tutto pronto.
La tavola coperta da un drappo nero.
Il foglio con l’evocazione latina poggiato al centro del panno funebre.
Le candele accese ai quattro angoli.
Johnathan bussò alla porta in perfetto orario.
Mel lo accolse fra le sue braccia.
Lo baciò con foga stringendolo a sé e facendogli sentire tutto il calore del suo giovane corpo.
Lo indirizzò verso la parete ed improvvisamente lo scaraventò contro il quadro.
Johnathan restò dapprima sbigottito, quando si sentì ghermire da due mani fredde che affioravano dal muro, poi un urlo strozzato gli spalancò le labbra, quando la bocca di Edgar si chiuse sul suo collo strappando via brandelli di carne.
Il sangue che zampillava dalla giugulare e dalla carotide recisa aveva imbrattato l’intera superficie del muro.
Il ragazzo provò a divincolarsi dalla stretta portandosi le mani alla gola, ma Edgar, implacabile, lo trasse a sè, lo voltò nella sua direzione e con un sorriso zuppo di plasma e lercio di lembi di pelle, gli sorrise prima di divorargli la faccia.
Johnathan scalciò ancora per qualche secondo, quindi si accasciò inerme fra le braccia tese dell’alchimista ancora intento a cibarsi della sua vittima.
Mel volse lo sguardo dall’altra parte e si accese una sigaretta.
Quando non udì più il rumore della mandibola di Edgar si voltò e vide il giovane letterato ottocentesco che tanto l’aveva ammaliata nel negozio del vecchio antiquario, sorriderle comodamente assiso sulla piccola poltrona vicino alla finestra.
“Ci sei riuscito” esultò Mel.
“Ci siamo riusciti” disse Edgar alzandosi e stringendo la sua complice fra le braccia.
“E di lui cosa ne facciamo” disse la donna rivolta alla carcassa che giaceva contorta in un angolo del pavimento.
“Non ti preoccupare, di lui mi finirò di occupare dopo, ho ancora fame”.
“Cosa hai voglia di fare nella tua prima sera da essere umano” gli sussurrò Mel all’orecchio.
“Ho voglia di fare l’amore” gli rispose Edgar ridendo, la prese in braccio e la depose sul divano.
“Ma prima, dimmi il tuo desiderio”.
“Voglio essere ammirata, voglio che tutti mi guardino con stupore, voglio essere al centro dell’attenzione per sempre”.
“E così sarà” disse baciandola.





Sette mesi dopo Edgar vagava assorto nei suoi pensieri lungo i corridoi dell’Istituto di anatomia umana, affianco a lui passeggiava serio un uomo dai modi raffinati, elegante, ben vestito, con un volto sottile ed affilato come la lama di un rasoio.
Un nugolo di studenti in camice bianco si accalcava attorno ad una teca di cristallo, mentre un professore spocchioso li osservava malevolo, dicendo: “Questa è il famoso corpo mummificato ritrovato in città circa sette mesi fa. Come senz’altro avrete letto sugli innumerevoli giornali che ne hanno parlato, il corpo di questa donna è stato rinvenuto in stato di totale disidratazione, disteso sul divano del suo salotto. Gli organi sono perfettamente conservati, il volto è rimasto contratto in una smorfia di stupore, come se non si aspettasse di dover morire, e come credo già sappiate, è il primo ,e per quanto ne sappiamo, unico caso di mummificazione spontanea documentato dalla scienza, dato che nel corpo della giovane non è stata ritrovata traccia di alcun tipo di sostanza chimica a noi nota o sconosciuta; osservatela bene, perché è un prodigio della natura e desterà interesse e curiosità ancora per molti anni”.
Una ragazza alzò la mano .
“Dica pure”.
“Come si chiamava la donna?”.
“Mel Singer”.
Restarono a fissarla con stupore e meraviglia.
“Siete stato più ironico del solito, Sire, con quella sventurata” sussurrò Edgar all’orecchio dell’uomo che lo accompagnava.
“No” rispose lui gelido “ho esaudito alla lettera il suo desiderio. Sono così futili questi umani”.



  
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