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Autore: Mork    04/04/2011    0 recensioni
Un appartamento in una grigia città europea. Una ragazza sadica e perversamente sensibile. Un uomo affetto dalla sindrome di Stoccolma.
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La stanza era drappeggiata di luce ambrata: dalle fessure delle persiane filtrava la sterile luce arancione dei lampioni appena accesi e un riflesso morente di tramonto. I mobili, la televisione, la poltrona, il divano, erano dense ombre tra le altre ombre: stava arrivando il momento che più odiava, il crepuscolo, quando il sole è sparito ma il fantasma della sua luce aleggia ancora nel cielo indaco, rendendo le cose terrene più oscure della volta celeste. Al crepuscolo l’assaliva un indefinito senso di angoscia, come quando, svegliandosi la mattina presto, vedeva la luce opaca scivolare sotto la porta, o pranzava da sola nella casa silenziosa; si sentiva stanca e annoiata; sentiva la saliva ristagnarle nella gola e le mani gelide per essere state ferme tanto a lungo. Era seduta su una poltrona, le braccia abbandonate sui braccioli, un piede poggiato a terra e uno sul tavolino di vetro davanti a lei. Non fumava, perciò non sapeva come ingannare l’attesa. La televisione le metteva sonno. Si sentiva troppo stanca perfino per leggere un libro.
Avvertiva il panico crescente in fondo alla bocca, nel punto che se toccato ci dà la nausea, e in una zona imprecisata dello stomaco; faceva brevi respiri per gustarlo meglio, mentre la lancetta dei secondi scricchiolava sul quadrante.
Tra poco, tra poco...
La sua accidia venne scossa da brividi di eccitazione: pensò al suo sorriso, e le sue labbra si distesero di conseguenza; rovesciò il capo sullo schienale della poltrona, gli occhi del corpo chiusi, ma quelli della mente fissi su quelli del suo amato. Vedeva i suoi capelli, la sua bocca, le sue mani, il suo collo, accarezzava il cotone sottile della sua camicia, ne sentiva l’odore di sigaretta misto a quello del detersivo, percepiva il calore del suo respiro e l’eco delle sue urla.
Si commosse al suo ricordo e sorrise con dolcezza. Il guizzo vitale nella luce arancione si era spento, e la casa era piombata in una greve semioscurità, con le sagome in ombra ritagliate alla perfezione come figure di cartone su un fondale dipinto. Lei si alzò tendendo le braccia sopra il capo, stiracchiandosi, perché aveva sentito il cupo rombo di una macchina avvicinarsi facendo vibrare le finestre. Accese la luce e spalancò le persiane, chiudendo poi i vetri in faccia al gelido vento dicembrino; sentì sbattere la portiera della macchina, accompagnato dallo scatto della chiusura elettronica e, una manciata di secondi dopo, dallo sgraziato squillare del citofono.
In pochi balzi dei piedi nudi aprì il portone e la porta del suo appartamento; si voltò e sorrise nervosa al caos che imperversava nella stanza, corse a infilarsi un lungo maglione sdrucito che il suo amore le aveva lasciato perché ormai smesso, e fu di nuovo alla porta nell’istante in cui lui la varcava.
Indossava un cappotto di cammello e una sciarpa grigia, con nebbia e gelo ancora fumanti sulle spalle e sulla schiena. Lei rimase immobile a sorridere mentre egli, perfettamente a suo agio, si sfilava guanti e sciarpa e appendeva il cappotto al gancio accanto all’ingresso. Il suo completo era elegante come sempre da che si erano conosciuti; lei lo abbracciò forte, stringendogli i fianchi.
«Freddo?»
«Ora non più»
Si sciolsero dall’abbraccio e lei gli baciò le grandi mani bianche, rimanendo per un po’ con il viso su di esse, sfiorandole con le labbra e avvertendo il leggero profumo di sapone e fredda giornata di lavoro.
Dal cesto di frutta nell’angolo della cucina scelse una pera, prese un coltello e cominciò a sbucciarla; lui invece, temendo il silenzio che si diffondeva nel salotto con un basso ruggito, si sedette sulla poltrona su cui lei era stata tutto il giorno e accese la tv: si ritrovò davanti un’immagine in bianco e nero quasi speculare di un uomo della sua stessa età, seduto su una poltrona e con in mano un libro che mostrò ad un invisibile interlocutore alle sue spalle, prima di cominciare a leggerlo a voce alta.
«È sempre stato uno dei miei film preferiti», commentò la ragazza avvicinandosi con in mano un piatto su cui aveva posato quattro spicchi di pera e il coltello.
«Mai visto», sentenziò lui, allungando la mano verso il piatto.
«Eppure sei molto più vecchio di me», esclamò ridendo la ragazza, prendendo il coltello e incidendo un leggero taglio sul dorso della mano dell’uomo, che la ritirò lasciandosi sfuggire un gemito sorpreso: «Già cominci?»
Lei si sedette per terra accanto alla poltrona, gli prese la mano e leccò delicatamente la ferita, che come sempre era abbastanza profonda da far uscire il sangue, ma non tanto da lasciare una cicatrice.
«Quella grassona chi è?»
«È la sorella»
«E perché ce l’ha con lui?»
«Lo vuole portare in un manicomio»
«Come mai?»
«Lui vede cose che gli altri non vedono»
«Però sembra un tipo a posto. Gentile»
«Forse è per quello che è matto»
Lei era consapevole che non sarebbe più potuto essere come la prima volta; era così spaventato, lui, all’inizio, che urlava anche troppo e quasi cercava di scappare. Ma non l’avrebbe mai fatto. Non sarebbe mai riuscito a fuggire lontano da lei. Perché avrebbe dovuto? Quel dolore, in fondo, non era poi così insopportabile.
«Non piangere, dai. Va tutto bene»
  
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