I
Jane è sicura che se aprisse un’enciclopedia illustrata,
alla parola “stranezza”, o qualche sinonimo, troverebbe il cipiglio arrabbiato
ed insolente di Sheridan. Oltre a tutti i soliti motivi, quelli ovvi che
saltano agli occhi di tutti, c’è la strana ambivalenza con cui tratta il suo
corpo. Se da una parte non le importa particolarmente di ferirlo, quando è al
lavoro, o di sfruttarlo fino all’ultima goccia di forza, a casa ne ha una
particolare cura. Non si mangia mai le unghie, e usa lo smalto rinforzante
perché si spezzino il meno possibile (ed è anche uno dei motivi per cui ha
sempre i guanti); usa molti impacchi per i capelli perché l’aria di Londra non
li danneggi fino all’irreparabile, gli shampoo nella doccia sono i più costosi
e ricercati, frutto di ricerche durate anni; non ha assolutamente paura o
timore di mostrare il proprio corpo – non sfocia mai nel volgare, ma in casa si
fascia di gonne strette (che sa solo lei come trovarle comode) e corre per la
città con pantaloni che molto poco lasciano alla fantasia di chi guarda – e
quindi a quella di Jane. Non avrebbe mai creduto che potesse essere così
femminile, ed è qualcosa che adora, perché ama il contrasto tra lei e se
stessa, che non ha mai badato eccessivamente al proprio aspetto fisico. Le piace
da matti.
“Mh?”
Sheridan, appena uscita dal bagno, si ritrova la
compagna dietro la schiena, che la stringe in vita. Non ha messo l’accappatoio
e gocciola ancora leggermente per la casa. Suppone che l’abbia fermata per
obbligarla a tornare in bagno a mettersi qualcosa. Invece la sente mettersi
sulle punte per immergere il naso in quella matassa enorme che sono i suoi
capelli.
“Che fai?”
“Mh, no, niente.”
Jane fa un lungo respiro, come per aspirarne l’essenza.
“Sai di buono.”
“Lo so.”
“Lo so che lo sai. Devi asciugarti i capelli.”
“Mh, dopo. Ora non mi va.
Ora—”
“Ora vieni in bagno con me che te li asciugo io.”
A questa proposta, Sheridan non protesta.
II
Sheridan ha una pelle bianchissima su cui i nei
risaltano bene, come minuscole macchie di inchiostro; ne ha uno sul petto e
alcuni sparsi sul collo ma, in particolare, ha una voglia a forma di chicco di caffé all'attaccatura dei capelli; è come il pulsante
segreto di un automa, un punto del suo corpo particolarmente sensibile. Jane
l'ha scoperto di recente, per caso, sfiorandola mentre le faceva la coda -
mentre pensa, Sheridan non è in grado neppure di alzarsi dal divano, figurarsi
compiere un'azione così complicata come raccogliersi i capelli. Ha mugolato e
Jane, incuriosita, ha continuato a toccargliela, ottenendo lo splendido
risultato di vederla contorcersi appena, come una gatta sotto il cielo di
luglio.
"Ho scoperto il segreto di Sheridan Holmes, potrei
usarlo per ricattarti." ha sogghignato, perché finalmente ha ottenuto una
freccia per il proprio arco, di solito così scarso.
"Oh, stai zitta."
Però non l'ha scacciata, e Jane si è divertita a farla
mugolare. Ha scoperto anche quanto coccolarla la rilassi – non ha mai avuto un
gatto, ma suppone si provi la stessa sensazione di riuscire a dominare una
bestia per metà selvatica.
Ha scoperto alla fine che non stava pensando a nulla di
particolarmente importante - cosa avrebbe voluto che Jane le preparasse per
cena – e che si è trattato semplicemente del solito sfruttamento quotidiano.
"Lestrade è un deficiente, ci ha preso gusto,
sembra che mi prenda in giro, al diavolo!"
È furiosa, imbronciata, nervosissima, elettrica: uno
spettacolo comune a cui Jane è riuscita ad abituarsi presto - fortunatamente
per entrambe ha un forte spirito di adattamento.
"Lestrade non è di certo il tuo babysitter,
Sheridan, e neppure i criminali lo sono, non stanno di certo a pensare al
crimine più ingegnoso della storia per intrattenere l'intrattabile signorina
Holmes." sbuffa la dottoressa, le cui mani odorano ancora dell'inchiostro
che un bambino le ha versato addosso dalla stilografica del padre. Butta la
borsa alla rinfusa su una sedia della cucina – il disordine cronico di Sheridan
l’ha contagiata; ha provato a opporre resistenza, ma è stato tutto vano. Tutto,
in lei, è come un virus liquido.
"Non sto dicendo questo, però potrebbe smetterla di
chiamarmi per i casi inutili."
"Ti lamenteresti comunque."
Jane sospira e si siede sul divano, trascinandola con sé
per un braccio. “Stai buona.”, le intima costringendola in un abbraccio. Con
una mano la tiene per la vita e con l’altra, velocissima come un segreto, va a
grattarle la nuca, poco sopra il neo; da quella minuscola voglia, esplosa come
una macchia di caffè, c’è tutta una zona che funziona, per Holmes, come un
placebo. Quando i motivi della sua ira sono così futili, Jane non fa altro che
prenderla e accarezzarla come un gatto, e lei inspiegabilmente,
sorprendentemente, si scioglie. Appena un po’, ma quel tanto che basta perché
si calmi il giusto per far sì che Jane non la spezzi – sottile com’è non
dovrebbe neppure essere difficile.
No, non è affatto Lestrade il suo babysitter, ma lei
stessa, pensa mentre Sheridan si abbandona appena contro di lei, facendosi
placidamente accarezzare il polso e le dita.
“Lo vedi? Sei una bambina. Ti bastano due coccole per
dimenticarti tutto.”
“Oh, stai zitta.”
Ancora una volta non se ne va ma lascia che la stretta
si faccia più forte, che la risata soffice di Jane le arrivi alle orecchie;
mugola ancora una volta, sbuffa una qualche lamentela che Jane mette a tacere
tirando un ricciolo, e non protesta più fino all’ora di cena.
III
Potrebbe perdersi per ore a sfiorare con le dita le sue
ossa, ad accarezzare la curva bianchissima del bacino e quella delle clavicole,
a baciare le scapole e contare le costole, che sono poi sempre quelle, ma ogni
tanto bisogna divertirsi con molto poco. È così magra che dovrebbe
rimproverarla, non adorare il suo fisico, mentre invece si perde a baciarle le
dita lunghissime. Adora la forma delle sue ossa e le sue spalle piccole,
l’apparenza fragile e il contrasto infuocato con il resto.
“Che strani feticismi che hai.”, la prende in giro
Sheridan (non che Jane le abbia mai confessato nulla, ma è chiaro che Sheridan
deve averlo capito in mezzo millimetro di tempo) mentre la compagna le
accarezza la schiena e passa il dito su ogni costola, baciandola e facendola
rabbrividire.
“Sono la compagna di una che andava in giro parlando con
un teschio, non devo essere tanto normale neppure io.”, ammette, e Sheridan
ridacchia appena.
IV
Sheridan Holmes è la donna più insopportabile
dell’universo: è infantile, litigiosa, isterica, permalosa, assolutamente
incapace di empatia, boriosa,
socialmente inadatta (Jane si chiede spesso cos’abbia fatto di male al mondo
per trovare così irresistibilmente adatta a se stessa). Litigarci è la cosa più
semplice che ci sia almondo e, per quanto la
dottoressa Watson si sforzi di tirare fuori la pazienza spremendosi da ogni
parte, è impossibile arrivare alla fine di una settimana senza aver discusso –
la cosa che più fa arrabbiare Jane è che per la maggior parte delle volte sono
sciocchezze, inezie che la signorina Holmes potrebbe fare senza problemi, se
avesse un minimo di accortezza, come evitare che il latte scada sempre
lasciando la bottiglia senza tappo, o lavare dove cadono i suoi esperimenti,
oppure degnarsi di fare la spesa, ogni tanto.
“Sheridan! Se la cucina è piena, butta via tutto quello
che è vecchio e i fallimenti, non usare la mia stanza, per la miseria, te l’ho
detto un milione di volte! Sheridan, ascoltami, non fare finta di non sentirmi!
Sheridan!!”
Per di più, chiunque sia delle due a litigare, è Holmes
a prendersela di più, a rinchiudersi a bozzolo finché Jane, spazientita, non
esce di casa a sbollire la rabbia e la frustrazione.
Da qualche settimana, però, Sheridan ha preso
un’abitudine per farsi perdonare senza doversi abbassare a chiedere scusa.
Quando sa che Jane sta tornando (e se ne accorge perché
sta appollaiata alla finestra, attendendo), si mette a suonare il violino,
cercando di adattare al meglio possibile la sua ultima ossessione musicale. Ora
che è libera dalla guerra e da tutto ciò che ad essa è collegato, almeno
fisicamente, Jane passa molto tempo su internet ad ascoltare tutto quello che
può, e quello che più la colpisce lo canticchia con voce sottilissima mentre
prepara da mangiare o mentre fa la doccia. Così Sheridan le fa uno spettacolino
privato per metterla in pace con il mondo e con lei stessa.
Solitamente ci riesce.
I
Ogni tanto, ancora impercettibilmente, trema. Ogni tanto
sbarra gli occhi per una frazione di respiro, come se fosse terrorizzata, come
se non si ricordasse di dove si trova, come se si risvegliasse in un luogo
oscuro e sconosciuto. Jane, allora, smette – non la bacia più, toglie le dita,
la riveste, stende il lenzuolo sopra entrambe e aspetta il consenso per poterla
abbracciare. Ci sono ancora indelebili minuscole tracce di lei che non si
fidano, cellule maligne che ancora non vogliono che il suo corpo si mostri,
ancora quella paura e quella vergogna nel mostrarsi nuda e vulnerabile.
Sheridan si avvicina come per baciarla e non lo fa, e
allora Jane sa che può stringerla, sa che la compagna non farà storie e per una
volta sarà docile e muta. Non parla e non lo fa neppure la dottoressa,
semplicemente attende di sentire qualcosa, di sentire un sospiro impaurito –
Sheridan non lo ammetterebbe mai, ma Jane ormai sa tradurla bene – per
stringerla più forte e rassicurarla. Stanno zitte e si aspettano.
Sheridan, per anni, prima di farlo, ha creduto che il
sesso fosse una bestia strana che trasforma le persone. Non ha subito traumi in
quel senso, non è mai stata forzata a farlo – è stata Jane la prima a farla
sospirare –, ma non si è mai voluta avvicinare, non ha mai voluto sfiorare il
suo carico enorme. Pronta com’è sempre stata a non fidarsi di chi fosse in
grado di usare un cervello per tradire e distruggere, scoprire che esiste
qualcuno che è in grado di capirla con una sola occhiata, che è in grado di
aspettare non facendo altro che respirare, la fa sentire in un qualche modo
tranquilla, come sopra ad una zattera su un mare liscissimo, su una piccola
nave sicura, attaccata al molo con un filo eterno e lunghissimo che la fa
navigare ma, al contempo, sa tirarla a riva quando ha bisogno.