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Autore: Natalja_Aljona    06/04/2011    2 recensioni
Natal'ja vende fiammiferi e sogna la Rivoluzione.
Siberiana fin nelle ossa e nel sangue, nel cuore e nell'anima, nipote di uno dei capi dei Decabristi ed ultima erede della famiglia russa più temuta dallo zar, è quasi impazzita in prigione ma sa che non è finita.
Geórgos vive per la guerra e per il cielo di Sparta.
Nato durante la Guerra d'Indipendenza Greca e nipote del capo dei Kléftes, i briganti e i partigiani del Peloponneso, ogni notte spara alle stelle perché ha un conto in sospeso con gli Dei.
Feri è uno zingaro ungherese, il terzogenito di Kolnay Desztor, il criminale del secolo, e il più coraggioso dei suoi fratelli.
Legge il destino tra le linee della mano, e tre anni di galera e lavori forzati non sono bastati a fargli smettere di credere nel suo.
Nikolaj, ussaro polacco e pianista mancato, crede di aver perso tutto.
Sa che l'epilessia, i complessi d'inferiorità nei confronti del padre morto, l'ossessione per sua cugina e i suoi sogni infranti lo uccideranno, ma la sua morte vuole deciderla lui, e a ventidue anni s'impicca per disperazione e per vendetta.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Dodici


Parte Prima

Il merlo che camminava sui merli


Quante volte ho cercato il sole,

Quante volte ho mangiato sale,

La città aveva mille sguardi

Io sognavo montagne verdi

(Montagne Verdi, Marcella Bella)




Aveva atteso oltre un'ora, tacendo, accarezzando i capelli della sua Natal'ja, esausta, sopita sul suo petto.

Si era alzato, pianissimo, sussurrandole un flebile, dolce saluto.

-I'll be back-

Per la strada, aveva ignorato gli sguardi insistenti dei passanti, davanti ai suoi piedi nudi, la sua cavigliera d'argento, la sua camicia sbottonata.

Lo xiphos di Dekapolites, soprattutto.

Osservando gli altri giovani liverpooliani, notò quanto fosse impressionante la loro somiglianza con una consistente colonia di panciuti ed impettiti pinguini imperatore.

Che gente strana, gli Inglesi.

Se l'avessero saputo Leonida e Dekapolites, sarebbero morti dal ridere.

Leonida era capace di indossare la stessa camicia per giorni, lavandola tutte le mattine nelle acque dell'Eurota.

Poi la indossava così, completamente inzuppata, e andava in giro per Sparta sorridendo a destra e a manca, sebbene gli mancassero tre denti.

Era una forza della natura, suo nonno.

Nel 1827, Leonida Zemekis era diventato l'eroe spartano della Battaglia di Navarino.

Aveva affondato tre navi turche e, al ritorno, circondato dall'esercito di Ibrahim Pascià, aveva preferito frantumarsi le ossa sugli scogli piuttosto che rendere la vita al nemico.

Aveva avuto una vita eroica e avventurosa, che aveva preso una piega più tranquilla quando, nel 1832, aveva cominciato ad allenare aspiranti soldati.

George stesso era stato suo allievo, lo era stato da prima che cominciasse a insegnare. Lo era stato fino al 1828.

1 Ottobre 1828.

La pistola di Leonida l'avrebbe ricevuta in regalo il 14 Settembre 1829, il giorno del Trattato di Adrianopoli.

Prima, aveva usato solo armi egiziane.

George sorrise.

-Ibrahim, vecchio Ibrahim... Sapevi bene che quello che hai fatto al nonno non te l'avrei mai perdonato. Avevi a che fare con un nuovo Georgios Karaiskakis, avresti dovuto prevederlo-

Scosse la testa, senza smettere di camminare.

Suo padre lavorava al porto, sulla stessa nave con cui era arrivato in Inghilterra.

Il porto. C'erano pochi posti, in una città, che George amava con la stessa intensità.

Il mare. Non era come l'Egeo, il Mare del Nord. Era più scuro, più freddo.

Ugualmente tumultuoso, mentre si infrangeva sul molo.

Un giorno sarebbe andato a farsi un bagno.

Oh, non era esatto.

Un giorno ci sarebbe andato con lei.


Costeggiando la sartoria, George vide una lunga serie di belle fanciulle ben vestite, dai volti limpidi e sorridenti.

Attese, silente, guardandole, finchè non lo colse un'idea che gli piacque molto.

Natal'ja l'amava e, al suo paese, l'amore reciproco, non ostacolato, si risolveva, prima del matrimonio, con il fidanzamento.

Ne aveva visti, lui, di fidanzati, a Sparta.

Le ragazze sfoggiavano luccicanti anelli, pegni d'amore, e i ragazzi, per dimostrare la propria serietà, facevano loro doni e promesse al chiaro di luna.

Il chiaro di luna, a quell'ora, George non sapeva proprio dove trovarlo, ma certo una sera il suo amico Astolfo avrebbe potuto mandargliene giù un poco.

L'anello, però, sapeva come procurarselo.

Appartatosi in un angolo solingo, giusto pochi metri dopo la sartoria, prese tra le dita la stoffa della sua camicia, strappandola con decisione.

Sorridendo tra sé e sé, si diresse a passo sicuro verso la piccola sartoria, che poc'anzi aveva visto affollata di graziose figure.

Come egli attraversò il portone, un inquieto silenzio pervase la stanza, animata soltanto dai bisbigli e dagli sguardi perplessi delle ragazze.

Si sedette accanto ad una graziosa giovinetta bruna, accavallando le gambe facendo tintinnare la cavigliera.

Guardandosi intorno, ebbe modo di rendersi conto della raffinatezza delle stoffe e dei ricami presenti.

Con ottime probabilità, anche la clientela del negozio era di alta qualità.


Sedevano poco lontano Elaine Griffiths e Caroline Fogerty, entrambe prossime al matrimonio.

La seconda, attenta osservatrice, tirò una leggera gomitata all'amica.

-L'hai riconosciuto?-

Quest'ultima contemplava il nuovo arrivato sognante, ad occhi sgranati.

-Un gran bel giovane, sull'anima mia!-

-Vaneggi, Laine! Quel “bel giovane” è Brian George, il figlio del Capitano. Un delinquente fatto e finito, te lo dico io- la ragazza avvicinò le labbra all'orecchio dell'amica -Si dice che abbia passato più notti a Marshalsea che nella sua stanza-

Elaine sussultò.

-Non scherzare, Carol-

-Te lo dico io- ripetè la giovane Fogerty, con il sorriso di chi la sapeva lunga.

-Oh, Ciel!-


Notando l'inquietudine tra le sue clienti, Laetitia Moore, la sarta, si avvicinò a grandi passi al giovane che pareva essere la causa dei bisbigli concitati delle ragazze.

-Signore! C'è qualcosa che posso fare per voi?-

George indicò lo strappo nella camicia, facendole l'occhiolino.

-Can you...- cominciò, nel tentativo di formulare una frase cortese e comprensibile.

-E' il mio lavoro!- l'interruppe bruscamente lei, facendogli segno di togliersi la camicia.


Seguirono minuti di silenzio assoluto, interrotto solamente dalle maligne insinuazioni di Caroline Fogerty nei confronti dell'elegante fanciulla compostamente seduta accanto all'imperturbabile spartano.

-Guarda la giovane Williams, come civetta con quell'avanzo di galera!-

Aurora Williams, sposata da circa due mesi, si trovava nella Sartoria Moore per decidere gli inserti di un abito da sera.

Non aveva buoni rapporti con Caroline Fogerty, la quale l'accusava di aver ammaliato il suo fidanzato, l'organista Jean-Paul, ormai marito di Aurora.

Quel pomeriggio, ne era sicura, non aveva fatto assolutamente niente per attirare l'attenzione dell'ultimo entrato.

Era quindi doppiamente curioso il motivo per cui Brian George la guardasse con tanta insistenza, con un sorriso sempre più entusiasta.

La sorpresa fu ancora maggiore quando il ragazzo le sfiorò le mani con la sua, soffermandosi per diversi secondi sulla sua sinistra.

-Beautiful, very beautiful- commentò dolcemente, guardandola negli occhi.

Aurora non seppe come interpretare quel complimento.



-Così giovane e già questi brutti segni?- disse la sarta, indicando la lunga cicatrice che gli attraversava la spalla destra.

-Oh, c'est la vie-

Alcune giovani risero, lanciando frivoli sorrisi all'indirizzo del ragazzo.

-Efcharistó- ringraziò, stringendo la mano della donna -Grazie infinite-

A pochi passi dall'uscita, però, si voltò.

Sarebbe stato gentile augurarle buona giornata. Gli aveva appena rammendato la camicia, dopotutto.

-Feliz Navidad- esclamò con un gran sorriso, sebbene le parole non lo convincessero del tutto.

La sarta lanciò uno sguardo al calendario affisso alla parete, accigliandosi subito dopo.

Era l'otto di Aprile.

-A voi-


-Che tenerezza, questi stranieri- commentò timidamente Aurora Williams, concedendosi un lieve sorriso, che però svanì con il seccco intervento di Caroline.

-Aspetta a fidarti, Aurora. Potrebbe essere pericoloso-

La ragazza reclinò lo sguardo sulle sue mani, che teneva congiunte sulle ginocchia, in attesa del suo turno.

La fede.

Aurora sbarrò gli occhi.

Possibile che l'avesse dimenticata a casa?



George camminava raggiante per le strade di Liverpool.

Aveva l'anello, finalmente.

L'unica pecca, a voler essere pignoli, era quel nome, Jean-Paul, inciso a chiare lettere nell'oro.

Pazienza, si disse lui, a Natal'ja sarebbe piaciuto ugualmente.


Per concludere il tutto, però, occorreva qualcosa di veramente speciale.

Di comprare, chiaramente, non se ne parlava.

“Comprare” non era una parola per cui George nutrisse una particolare simpatia.

Non aveva neanche monete inglesi con lui!

Per lui erano sempre esistite solo le dracme.

Le dracme degli altri, ma pur sempre dracme.


Era ormai arrivato a Wavertree, poco lontano da casa.

Pensieroso, passava in rassegna tutti i negozi che gli capitava di affiancare.

Aveva assistito ad una lenta, ammaliante sfilata di meravigliose ciambelle zuccherate, oltre la vetrina di una pasticceria, visione a cui non era rimasto indifferente, ma il pensiero di Natal'ja l'aveva condotto a tirare dritto.

Era quasi l'ora del thé, e anche lui, seppur greco dalla testa ai piedi, se chiudeva gli occhi, cominciava a vedere paste fumanti e dolci marmellate con cui placare i gorgoglii dello stomaco.

Tornò indietro, incapace di resistere alla tentazione.

Guardando le ciambelle da vicino, George si accorse che non erano affatto belle come sembravano dalla strada.

Avevano una forma indefinita, piuttosto lontana da quella originale.

Per quanto bruttine, però, erano profumatissime e invitanti più che mai.


La donna al bancone impastava e impastava, ma di tanto in tanto qualche lacrima scivolava nell'impasto.

George la osservò per alcuni minuti, senza parlare.

Chissà perchè piangeva.


-Excuse me...-

La donna si voltò, andandogli incontro.

-Nikolen'ka?-

George spalancò gli occhi, confuso.

-Natal'ja...-

-She's my daughter- mormorò ella, altrettanto turbata.

Fu allora che George seppe cosa fare.

Le strinse una mano.

-I think I'll marry your daughter, one day-

Lei lo guardò con dolcezza, incredula, spiazzata.

-Really?-

George annuì, serio.

-Stin timì mou-

La donna non capì le sue parole, ma ne fu ugualmente contenta.

Gli accarezzò il viso, gli porse una ciambella.

-It's a test, I've never made donuts...-spiegò, allungandogli un tovagliolo -They are for Nikolaj...-

George la guardò con gratitudine.

- Efcharistó-

Lei sorrise.


Anche lui sorrideva, uscendo.

Sapeva cosa portare a Natal'ja, adesso.

Non appena l'ebbe individuata, corse verso la sua finestra.

Raccolse una manciata di sassolini e iniziò a lanciarli contro il vetro, invano.

Non rispondeva nessuno.

Rimase immobile per qualche minuto, guardando la finestra, ma fu inutile.

Cominciò a camminare nervosamente per la via, finchè non si trovò davanti un uomaccione corpulento e nerboruto, il quale, gli occhi ridotti a due fessure, lo guardava con poca simpatia.

Certe idee, si sa, spuntano come funghi prugnoli, inaspettate e geniali.

Alcuni di esse sono meno geniali, ma ugualmente efficaci.

Questo fu il caso di George.


Come impazzito, si lanciò sulle sue scarpe, tentando di sfilargliele.

L'uomo gridava, dimenandosi, e un consistente gruppo di persone gli si era già affollato intorno, sospettando la completa perdita della ragione del ragazzo.

-The shoe! The shoe!- ripeteva, senza alcuna intenzione di abbandonare il progetto.

Andò a finire che, esasperato, l'omaccione si sfilò entrambe le scarpe, piazzandole bruscamente tra le mani del folle che le reclamava.

Esultante, George le prese e le lanciò contro la finestra di Natal'ja, sperando ardentemente che lei se ne accorgesse.


-It's a jest?- l'uomo afferrò George per la camicia, gli occhi fiammeggianti, la pelle del viso tesa fino allo spasmo -IT'S A JEST?-

-I'm sorry, Sir...I'm sorry!- ripeteva disperatamente lui, ma fu inutile.


Si era affacciata alla finestra, Natal'ja.

Mentre l' “omaccione delle scarpe” scaraventava George a terra, si era affacciata.

-Georgij! What happened?- gli gridò, confusa.

-Come down!-


Natal'ja si infilò gli stivaletti di pelle blu, le sue calzature più pesanti, che ormai avevano ben più di un anno.

-Ahi!-

Si chinò a toccarsi la punta del piede.

Accidenti.


Sconfitta, ritornò alla finestra, guardando la strada dove George l'aspettava speranzoso.

Fu allora che decise.

Lanciò gli stivaletti contro la parete della stanza e scese le scale di corsa, a piedi nudi.

George la aspettava, con un'alone violaceo intorno all'occhio destro, dolorante e sorridente.

Aveva assistito a una scena che mai vista prima, mentre lei scendeva le scale.

-Luce, habibi...look there!-


Un merlo, un merlo sul tetto.

Il merlo camminava sui merli, a tratti saltellando, con le sue zampette sottili e gli occhietti vivaci, fermandosi di tanto in tanto, come in attesa di vedere qualcosa di meraviglioso.

Pur non trovando niente del genere, andava avanti alla stessa maniera, senza scoraggiarsi.

Quello sì ch'era un merlo entusiasta della vita.


-Oh...what is?-

-The blackbird that walked on the blackbirds...I think- rispose, abbracciandola.

-Battlements- sorrise lei -But "the blackbird on the battlements" haven't the same sound-



Blackbird singing in the dead of night

Take these broken wings and learn to fly

All your life

You were only waiting for this moment to arise.


Un merlo canta nel cuore della notte

Prendi queste ali spezzate e impara a volare

Tutta la tua vita

Ha aspettato solo questo momento per sorgere.

(Blackbird, The Beatles)







Parte Seconda


Fuoco dell'anima




Libertà

Vita in me

Sogno in me

Libertà

(Liberi, Riccardo Cocciante)





George la guardò attentamente.

I suoi occhi brillavano di una luce vivace e irrequieta, la luce di quando, a Krasnojarsk, mangiava biscotti caldi sul tetto, lanciando la neve ai passanti.

Con Nikolaj.

Aveva visto una nuova meraviglia, con quegli occhi.

George, l'amore.

La certezza che la morte di Nikolaj non l'avrebbe abbattuta al punto da impedirle di andare avanti, di vivere con la stessa fanciullesca passione di sempre, quella passione che neanche la povertà aveva saputo precluderle.

Non avrai vita facile, Natal'ja.

Ecco cosa dicevano i suoi occhi, occhi che erano il riflesso del cuore.

Una morte splendente, sole di cera sciolto tra le mani, una cascata d'acqua dolce nel petto, di una lentezza languida e devastante.

Un'emozione più tagliente dalla luce e più violenta del sangue, che faceva male quanto faceva bene, in eguale misura.

Troppo audace per i suoi undici anni, troppo incontrollabile.

Eppure sarà una bella vita.

La sua rivincita sul mondo e su quelle libertà negate troppo spesso.

Bella come lui.


Bambina nel 1836, donna con i diritti di un uomo, diritti inalienabili, innegabili, suoi.

A costo di bruciare la sua città, di morire con una spada nel cuore, come nelle tragedie di Shakespeare.

Sincera e impietosa, come Cordelia, terzogenita di Lear.

Eccola, Natal'ja, sogni alti quanto il sole, desideri feroci, pelle graffiata dalla brama di libertà.

Undici anni, che forse erano pochi, ma sicuramente erano abbastanza.

Quel pugno sui denti, quell'elettricità furente, tutto dentro di lei, nel suo corpicino sottile, nelle sue mani da bambina.

Rivoluzione.

E frastuono, tenebra azzurra, cielo accecante.

Rivoluzione.

Con la grinta di Hernán Cortés, il bisogno di far sanguinare una terra, di spingere indietro il passato.

E uccidere i luoghi comuni.

Rivoluzione.

Con la pazzia di Aiace, abbattere la Torre di Babele, parlare tutte le lingue del mondo, amare per tutta la gente del mondo.

E morire per uno solo.

Rivoluzione.

Come Ebe, l'Eterna Giovinezza, far sorridere i sogni.

E sarebbe bastato per sempre.


L'aveva aspettato tanto, Natal'ja.

L'aveva covato dentro fin dalla più tenera età, come una malattia.

Il fuoco dell'anima, irraggiungibile, sempre presente.

Era lui, il fuoco dell'anima, era lui.


Lo stesso bisogno di combattere per i propri diritti, le proprie vite.

Contro i pregiudizi della gente, una volta per tutte.

Un brigante e una fiammiferaia.

Lo stesso amore, la stessa dignità.

Lo stesso desiderio, il fuoco nell'anima.

La stessa Rivoluzione.


Perché ce l'avrebbero fatta, loro.



Il giorno fu pieno di lampi, ma ora verranno le stelle, le tacite stelle.

(La mia sera, Giovanni Pascoli)


Note


Georgios Karaiskakis: Generale della Guerra d'Indipendenza Greca, con una storia piuttosto particolare alle spalle, storia che verrà svelata pian piano insieme a quella di George, che in certi punti vi somiglia ;)

Marshalsea: Antico carcere Londinese.

Efcharistó (greco):
Grazie.

Stin timì mou (greco): Sul mio onore.

Habibi (arabo): Mia amata, mio amore.


Ci sarebbero molte spiegazioni da dare su questo capitolo, ma è dalle due che scrivo -tra compiti e capitolo- , non ho quasi la forza per aggiungere altro ;)


Spero di essere riuscita a trasmettere questa specie di incanto che George e Natal'ja vivono, essendo all'inizio di quella che sarà davvero una Rivoluzione, una Rivoluzione fatta a modo loro...

Seppur in secondo piano, i misteri continuano, e a questo proposito vi invito a notare il riferimento al 1 Ottobre 1828, data della partenza di Ibrahim Pascià, generale dell'esercito Egiziano, dalla Grecia, in seguito alla sconfitta subita nel 1827, con la battaglia navale di Navarino, e una delle ultime parole che George rivolge a Natal'ja, “habibi”...perchè ha usato l'arabo e non il greco?


Un saluto anche da George, che in questo capitolo ne ha combinate proprio di tutti i colori, e dal “merlo entusiasta della vita” ;)

A presto!

Marty






  
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