Capitolo 8
soundtrack
“No,
ti prego” sbuffai “non anche tu!”
Sapevo
che lasciarle carta bianca sui libri da scegliere si sarebbe rivelato un errore
fatale, come lasciare una porta aperta nei film horror. Avrei dovuto escludere
dalla lista volumi adolescenziali di urban fantasy.
“Non
bastava mia sorella a sfondarmi i timpani e fracassarmi i maroni con tutti
questi esseri soprannaturali … ti prego” la scongiurai “almeno dimmi che non
sei per il vampiro!”
Rise
di gusto al mio sproloquio nevrotico. Adoravo la sua risata, era così naturale
e spontanea, ne gustava ogni secondo e lasciava che le sue labbra, carnose e provocanti,
ma non volgari, si aprissero ad un sorriso liberatorio di quelli che da troppo
non si concedeva e che non aveva, almeno per una volta, incollato a sé il
ritratto macabro del suo mestiere, salato ed insolente come la lacrima del più
malinconico Pierrot.
Mi
rendevo sempre più conto, man mano che passavano i giorni assieme a lei, di
stare abusando eccessivamente della sua presenza, sempre più allegra e
positiva. Mi sarei fatto malissimo a starle così vicino e poi non vederla più;
sapevo che sarebbe andata a finire così e lasciavo scorrere i giorni sperando
che l’addio non arrivasse mai, osservandolo guardingo avvicinarsi da lontano,
come una nuvola di pioggia nel bel mezzo di un barbecue estivo all’aperto. Mi
sarei ferito alla fine, perché non sapevo dire di no alla parte più stupida ed
egoista di me stesso; le stavo vicino e non avevo nemmeno il buon senso di
indossare un giubbotto antiproiettile: ne sarei uscito disastrato, ma non è che
me ne importasse più di tanto. In fondo, cosa avevo da perdere, se non una vita
di cui ancora raccoglievo cocci dappertutto?
Lasciavo
che si imboscasse tra gli scaffali della libreria e leggesse insieme a me per
tutta la mia giornata lavorativa. Magari la lettura non era interessantissima: conoscere
le rogne di una tizia, apparentemente sfigata, cessa ed asociale, costantemente
contesa tra due eterni nemici, si da il caso uno più bello dell’altro, non era
proprio lo scopo della mia vita, ma sentirla scandire con passione ogni parola
e colorare ogni pagina con espressioni di stupore o disappunto era quasi un
miracolo, lo spettacolo più bello sulla terra. Ecco avrei giusto gradito che
non scaraventasse il libro contro una delle pareti, quando la protagonista
piange tra le braccia del suo fidanzato per l’altro, apostrofandola con epiteti
poco eleganti. Credo proprio che in questo potesse darsi la mano con Caroline e
con un milione di fan sparse per il mondo. Valle a capire le donne …
“E
così hai una sorella?” mi chiese incuriositasi quando la citai.
“Sì,
Caroline. Ha 10 anni” risposi.
“Devi
amarla parecchio” disse senza domandare, ma rivolgendosi a me con un dato di
fatto a cui non potei far altro che annuire. “Si vede” mi confidò, timidamente
“ti brillano gli occhi”.
Avrei
voluto mostrare un pizzico di spina dorsale in più, cercando una scusa
plausibile al mio inguaribile sentimentalismo, ma la verità è che la piccola
dama dagli occhi blu era stata la mia ancora di salvezza per mesi e mesi,
l’unico vincolo che ancora mi teneva legato alle mie radici e a quel mondo che
era stato la mia casa e la mia famiglia per oltre vent’anni. E poi era arrivata
lei, irriverente e scomoda come solo la verità può essere, ridandomi la voglia
di vivere e di fare qualcosa, e non solo per mero spirito di sopravvivenza.
Erano
passati solo cinque giorni dalla nostra cenetta a base di pizza e patatine ed eravamo
passati dalla fase dell’ “hey” timido, pronunciato per sbaglio ed ascoltato
ancora più per errore, alla fase dei nomignoli. Ty, Allie e lo stronzo cronico.
Più che un appellativo, l’ultimo era proprio la più adatta delle descrizioni
che potessero essere fatte di Aidan.
Lavorando
e vivendo insieme a lui non avevo potuto escluderlo dalla mia conoscenza con
Allison. All’inizio aveva storto il naso, proclamando una litania di
raccomandazioni; proprio lui, che era la persona meno affidabile e responsabile
sulla faccia della Terra. Ma alla fine era stato anche lui colpito dalla realtà
delle cose, dalla brillante e dolcissima ragazza che si celava dietro la
spogliarellista, al di là del suo magnifico corpo che, a discapito della
morigeratezza dei miei costumi in sua presenza, ancora mi faceva tribolare in
piena notte.
In
più di un’occasione avevo dovuto trattenere quel cretino, perché solo così puoi
chiamare una persona del genere, da commenti poco puliti ad alta voce in sua
presenza: non che non vi fosse abituata, nello squallido posto dove lavorava ne
avrà sentite sicuramente di peggiori, ma a me davano veramente fastidio, come
se avessero offeso la mia ragazza con avances pesanti in mia presenza.
La
mia ragazza … accostare questa definizione con Allison mi sembrava allo stesso
tempo strano eppure naturale; mi sarebbe piaciuto avere una ragazza, dopo i
casini dell’ultimo anno, mi sentivo pronto a rientrare in piazza e c’avrei
messo la firma perché fosse come lei. Una di quelle che guarda al di là della
facciata esteriore, una che sa apprezzare davvero le piccole cose come se
fossero dei tesori. Ma lei no, era solo il modello da cui partire. Lei nessuno
avrebbe dovuto sfiorarla, se non con il suo consenso: tantomeno io.
Averla
vista all’ingresso della libreria il lunedì mattina, quando ormai, dopo una
notte passata a rimuginare sui vari significati dell’espressione “ci vediamo
presto”, mi ero persuaso che ci avrei messo un po’ per rivederla e che, anzi,
avrei fatto prima a cercarla io stesso, fu per me la più piacevole delle
sorprese, la conferma insperata della sua volontà di uscire fuori da quel mondo
che le andava troppo stretto, che non era certo degno di lei. Eppure, quando terminavo
il mio turno, tornava a chiudersi in sé stessa, proibendosi libertà che si era
concessa fino a poco più di un minuto prima, precludendosi la possibilità di
riscoprire il mondo con i suoi occhi, al di fuori delle pagine di un libro. E
se ne tornava nelle fogne da dove era venuta, come punizione per aver osato
chiedere troppo dalla vita e da se stessa, per un sogno che non le era permesso,
un memento di ciò che per lei doveva essere solo un’esperienza fugace e
furtiva, inevitabilmente destinata a finire. Lo vedevo dai suoi occhi quanto le
dispiacesse andare via da ogni ultimo sguardo che lanciava alle pile di libri,
ai tavolini del bar, al direttore del personale che mi avrebbe licenziato in
tronco se non l’avessi fatta finita di importunare le nostre clienti più
giovani. Erano un milione di ultimi sguardi, gli stessi di quella prima mattina
passata insieme nella sua stanza quando incredula aveva trovato me ed una
colazione decente al suo risveglio. Incapace di godersi il presente perché
troppo convinta di non meritarselo. E lo stesso valeva per il suo futuro.
Tuttavia,
finché l’avessi trovata ad aspettarmi ogni volta che prendevo servizio, non
avrei perso la speranza di aiutarla, perché lei per prima stava combattendo
contro se stessa.
“Cosa
odono le mie orecchie?” domandò sorpreso Aidan, affacciandosi alla nostra
postazione segreta per la lettura, dove riuscivo a stare con lei senza dare
nell’occhio e al contempo sorvegliare l’intera situazione. Aidan, da parte sua,
faceva da vedetta e mi avvertiva ogni qual volta il capo del personale passava
in rivista il nostro piano. “La bellissima Cenerentola è ancora qui a
deliziarci della sua presenza?!” continuò nella sua recita, confermando la
teoria di Allison secondo cui sarebbe stato perfetto come giullare di corte
“Per fortuna non esistono più le fate Smemorine di una volta e gli incantesimi
non durano più fino a mezzanotte …” Lui, sornione, era riuscito a farla
illuminare di nuovo con un sorriso ed i suoi occhi sorridenti e raggianti
corsero immediatamente a me a cercare consensi. Risposi sommessamente al suo
riso, per sostenerla, ma c’era poco da stare allegri.
Non
può piovere per sempre … ma nemmeno il sole c’è in eterno; così come arriva
l’estate, arriva anche l’inverno; persino più puntuale della bella stagione.
Più tempo passava e più avrei faticato all’idea di non vederla più, perché l’incantesimo
sarebbe stato spezzato prima o poi e quel momento si faceva sempre più vicino e
cercare di allontanarlo dalla mia mente non serviva a granché. A meno che non
fossi stato io a fermarla, sarebbe stata di nuovo inghiottita dagli abissi
torbidi e profondi della mercificazione del proprio corpo. Sì, mi sarebbe
toccato fermarla, ma mi ero talmente assuefatto all’idea di averla in giro a
lavoro e vederla ogni giorno che agire contro la sua volontà mi sembrava quasi
una prevaricazione nei suoi confronti, oltre alla consapevolezza che l’avrei
persa per sempre se avessi commesso un solo passo falso, come poteva esserlo
mettersi contro di lei. Ma dovevo ricordarci che era folle, nonché criminale,
starsene con le mani in mano a permetterle di rovinarsi una vita ancora salvabile.
“Mi
dispiace disturbarla dalle sue ascesi quotidiane Mr. Nichilismo in persona”
blaterò Aidan, riscuotendomi dai miei pensieri “ma vorrei ricordarle che
dobbiamo chiudere e andare a casa, non …”
“…
non senza aver accompagnato alla sua carrozza la vostra amatissima principessa,
nonché me medesima” completò la frase Allison, con quegli occhi furbetti di chi
sapeva che era riuscita a spuntarla con noi e a farci suoi schiavi. Non credo
che Aidan sarebbe stato tipo da seguirla fino in capo al mondo, non era nella
sua indole, ma era riuscita a farsi offrire le ciambelline d’avanzo che di
solito il bar gli dava a fine giornata; anche se lui non aveva speso un
centesimo per averle, conoscendo il soggetto è come se l’avesse portata fuori a
cena da Tribeca. Erano ancora entrambi sogghignanti e sgranocchianti, più che
due ragazzi sembravano due pecore ruminanti, soprattutto Aidan aiutato dalla
barbetta incolta che si ostinava a voler tenere. Diceva che faceva
intellettuale. Contento lui …
“No!”
esclamai, ancora catalettico, a metà tra il mondo dei sogni e quello della
realtà.
“No?”
ribatterono loro, interrogativi; in particolare Allison, che sembrava rimarcare
nel suo volto il punto di domanda che aveva espresso a voce. Non capivano
evidentemente a cosa fosse da collegare il mio no perentorio.
“No”
spiegai meglio ad Aidan “non dobbiamo riaccompagnare nessuno”. Spostai la mia
attenzione su Allison e la vidi ancora più perplessa e probabilmente timorosa
che non ce l’avessi con lei per qualche motivo. Lasciai che i suoi occhi
incrociassero i miei e non avessero paura; la vidi rilassarsi, almeno un
pochino “Stasera stai con noi”.
Non
era particolarmente convinta che la serata potesse mantenere il tenore che
avevano le nostre giornate insieme in libreria e soprattutto, per quanto non
rinunciasse mai a scambiare battute e risate assieme a lui, Allison metteva in
dubbio l’autocontrollo sessuale di Aidan.
“Non
me ne vogliate ragazzi … ma io cose a tre non ne faccio, sia ben chiaro!!!”
Mise le mani avanti, mentre ci incamminavamo verso casa, con lei ancora
titubante se restare con noi o meno. L’avevo convinta almeno a pensarci lungo
il tragitto, visto che comunque l’ingresso alla sua linea della metro era di
strada. Se si fosse convinta, bene, altrimenti ci avrebbe lasciati a meno di
metà strada.
Vedevo
quella scalinata verso la New York sotterranea sempre più vicina, lei non aveva
ancora deciso e Aidan ci metteva come al solito del suo per farla scappare a
gambe levate. Se per oltre un mese aveva visto in me un bravo ragazzo, uno di
quelli che nel suo locale ci mettono piede solo per sbaglio, ora grazie ad
Aidan aveva iniziato a credere che fossi un maniaco sodomita.
“Oh
tesoro mio” si rivolse a lei Aidan “non ci tengo a soddisfare le voglie
omosessuali del mio coinquilino … a cui peraltro ho già rotto il naso per lo
stesso motivo tempo fa … ma se proprio senti l’esigenza di fare qualcosa lo
capisco, siamo fatti di carne. Sbattiamo fuori dai coglioni il nostro amichetto
triste e moscio e ci prendiamo il suo letto per fare due capriole” le disse,
rincarando la dose virgolettando con le dita alla parola capriole. Riusciva ad
essere veramente idiota quel ragazzo, e per fortuna al suo fianco non aveva
un’alunna del Sacro Cuore ma una a cui spesso la defecazione fuoriesce spedita
dalla bocca e non dal sedere in quanto a linguaggio. “Due
capriole te le faccio fare volentieri Aidan” le rispose provocante Allison,
spiazzandomi del tutto “… ma per le
scale buttandoti fuori a calci nel culo se non chiudi quella fogna che hai tra
naso e mento!!!”
Si
voltò sorridente verso di me, lasciando che Aidan somatizzasse
l’ennesima
batosta simil-sentimentale e corse da me che ero rimasto più
indietro rispetto
a loro. Si mise sottobraccio e camminammo insieme per quelle poche
decine di
metri che ci separavano dall’ingresso della metro. Era bello
stare insieme
così, camminando semplicemente, anche senza dirsi nulla.
L’avrei implorata di passeggiare con me per tutta la serata
finché non fosse crollata per il sonno e
mi avesse implorato di riportarla a casa. E poi vederla nei panni di
una
ragazzina acqua e sapone mi aveva fatto dimenticare l’immagine
sporca di lei in
quel locale, per me più un incubo che un ricordo vero e proprio.
“Non
senti più freddo Ty?” mi chiese, ricordando il freddo boia della serata che
avevamo trascorso insieme “che ti dicevo io che era solo questione di coprirsi
un po’ di più?”
“La
finisci di fare la maestrina?” la sgridai “altrimenti finisce che ti carico
come un sacco di patate e a casa mia ti ci porto con la forza …”
“Voglio
proprio vedere come fai …” cominciò a prendermi per il culo come al suo solito:
era bravissima nel prendere in giro le persone, ma con me le riusciva
particolarmente bene “… ultima volta che in libreria hai dovuto togliere 10
libri da uno scatolone c’è mancato poco che ti uscisse un’ernia …”
“Ah
sì?!” le domandai, in tono di sfida, mentre lei, staccandosi da me, mi si era
messa di fronte camminando all’indietro e non accorgendo di quanto fossimo
vicini all’ingresso dei sotterranei. “Vieni qui!” le intimai, cominciando a
correre verso di lei ed in poco tempo, per quanto fossero affollate le strade e
lei molto agile e veloce la raggiunsi e me la caricai sulle spalle come fosse
un sacco di patate, tanto era leggera. Iniziò a dimenarsi addosso a me come
un’anguilla fastidiosa e viscida, riempiendomi la schiena e il torace con pugni
e calci.
“Voglio
vedere dove vai ora!!!” sogghignai, dandole delle pacche giocose sul sedere.
Maledetto me quando avrei imparato a tenere le mani a posto: lei tirava forte,
lo avevo già sperimentato e non so come riuscì con precisione millimetrica a
sferrare un colpo al mio stomaco lasciandomi senza fiato. Riuscii però a
mantenere salda la presa e a non lasciarla scappare via. Aidan, sconsolato e
con la sua solita flemma ci raggiunse e, man mano che si avvicinava, rassicurava
i passanti che non stavano assistendo ad un rapimento ma ad una zingarata di
due matti. Intanto lei continuava a starnazzare come un’oca in preda ad una
crisi isterica, intimandomi di lasciarla andare “Eddai Ty!!! Mettimi giù non
sei per niente divertente” “Perché se no che fai … lo dici alla mamma? Uuuh
povera piccola Mallory … Guarda!!! Di’ ciao alla metropolitana che si allontana
… ciao metro!!!” “Che cosa? Noooo … sei uno stronzo Tyler!!!” “Lo so” ribattei
ridacchiando, ormai eravamo proprio andati, parlavamo e litigavamo a ruota
libera; non perché fossimo veramente arrabbiati l’uno con l’altro, io stesso
d’altronde avevo iniziato quel gioco, ma perché non sopportavamo di dare vinta
all’altro, nemmeno per gioco. “Eddai basta mettimi giùuuuuuuuu!!!!” continuò a
blaterare lei “va bene dai! Ci vengo a casa tua …”.
Contento
di aver conseguito quel piccolo successo la lasciai andare e, mentre si
ricomponeva al meglio, facendo finta di cercare Aidan con lo sguardo tra la
gente cercai di riprendermi dal gesto atletico che non ero abituato a fare. Era
difficile da ammettere, ma lei aveva ragione.
“Ehi
piccioncini?! Avete finito?” Aidan … era il solito bambino egocentrico, che se
non era al centro dell’attenzione si insospettiva e metteva il broncio. Ridemmo
di gusto tutti e tre insieme … se solo fosse stato possibile, se solo lei me lo
avesse permesso, saremmo potuti diventare una bella compagnia di amici e
avremmo potuto divertirci parecchio.
“Dai
ragazzi ma non avete visto che bordello lì sotto? Non lo saprà nessuno che ci
siamo imboscati … dai non potete dirmi di no!”
Il
rapporto di Aidan con l’alcol era piuttosto complicato. Non perché non lo
reggesse, anzi lo tollerava piuttosto alla grande, talmente alla grande che con
la dose necessaria a lui per essere sbronzo io sarei già in una cella frigorifera in obitorio, pronto
per essere squartato dal medico legale. Piuttosto era un rapporto difficile
nella misura in cui non riusciva a stargli lontano; non alcolista, direi invece
storia d’amore appassionata, di quelle dove ad amarsi troppo si finisce con il
farsi del male. Ed è universalmente noto che le bevande alcoliche sono amanti
focose e sadiche.
“Ed
invece ti dico di no Aidan … devo tornare a casa mia più tardi e preferirei
farlo con le mie gambe …”
“Eddai
solo unooo!!!” continuava a pregarci, sperando di convincerci con le sue
faccine ruffiane. Come se potesse funzionare con me che l’avevo visto strafarsi
e vomitare l’anima o con lei, che di uomini marci ne vedeva a decine ogni sera.
“Uno?
Aidan ricordami l’ultima volta che era stato solo uno?” gli domandai.
Iniziò
davvero a riflettere a quella mia domanda retorica. “Prima comunione?!” rispose
alla sua domanda da un milione di dollari. Io ed Allie ci guardammo e lo
guardammo perplessi e preoccupati per il suo comportamento e la sua stupidità,
e non c’era dubbio che nei nostri occhi passava silenziosa la stessa domanda,
se mai quello spettacolo indecoroso avrebbe trovato fine. Ma il nostro compare
di sventura pareva ben determinato nel suo intento di dare sfogo alle sue manie
etiliste e fondo alle scorte di vino da quattro soldi che circolavano a casa
degli inquilini del secondo piano; così, mentre ancora discuteva tra sé e sé il
modo più opportuno per ricevere da noi il permesso di andare e trascinarci con
lui, lo lasciammo lì sul pianerottolo tra i due piani a discutere con
l’angioletto ed il diavoletto sulle due spalle. “Smettila di blaterare da solo
e vai a divertirti!” gli urlai dal nostro pianerottolo. Non se lo fece ripetere
due volte che lo vidi sparire dalla mia vista e buttarsi a capofitto per la
tromba delle scale. Entrammo e chiusi la porta alle mie spalle.
“E
così questa è casa tua …” commentò Allison, politicamente corretta, quando ebbe
finito di fare un giro dell’appartamento. Non si era sbilanciata, ma i suoi
occhi curiosi mi suggerivano un vago apprezzamento.
“…
e di quel pazzo” precisai io. “Naaaaaa …” considerò “lui ci dorme solo qui, sei
tu che la vivi”
“E
cosa te lo fa pensare?” domandai incuriosito da una teoria interessante e
potenzialmente vera. “Non c’è niente che ricorda lui qui dentro. Tutto mi parla
di te … ed è un bene visto che non mi hai mai voluto dire nulla”
“E
sentiamo …” la sfidai “cos’è che ti dicono queste quattro mura logore?”
“Che
sei molto più profondo di quanto voglia far credere, che ti piace conoscere più
cose possibile … e che vivi di ricordi, visti gli appunti sparsi sul tuo letto
– che non ho letto sia ben chiaro - e le foto che riempiono questa casa …”
Ed
io che mi ritenevo un abile lettore di anime! Aveva appena fatto una
radiografia di me e della mia vita attraverso quelle quattro cianfrusaglie
ammassate senza ordine e senza rispetto in quelle due stanze; in poco meno di
mezz’ora aveva capito di me più di quanto io stesso sapevo di me stesso, dopo
una vita di convivenza forzata. Vivevo di ricordi … avrei preferito che non
fosse vero.
“Ah!”
aggiunse, spensierata “e ho capito anche un’altra cosa. Che sei un porco … cioè
hai visto quel bagno?! Dio che schifo!!!”
“Senti
chi parla … preferirei farla per strada piuttosto che dovermi sedere sul cesso
di casa tua. Veniva un profumino quando ci sono venuto!!!” “mmmmm” mi tirò una
linguaccia bella e buona e finii col vendicarmi lanciandole un cuscino in pieno
volto. Era uno spettacolo vederla tutta arrabbiata, con le rughe d’espressione
che le corrucciavano la fronte ed il naso che si arricciava, contratto, insieme
alle labbra che si serravano in un broncio che a vederla, mi veniva voglia di
mangiarmela di baci. Ok, dovevo smetterla con certi pensieri del kaiser,
sembravo una fan di Justin Bibier in calore, ma uscivano spontanei e non sapevo
controllarli.
Mentre
mi perdevo in fantasie adolescenziali, fatte di lettere d’amore imbucate
nell’armadietto di scuola e di frullati alla fragola in un bar stile Happy
Days, non avevo avuto modo di controllare e prevedere la reazione della piccola
peste. Iniziò a rincorrermi per tutta casa con la stessa arma con cui l’avevo
ferita e sapevo che, se conosceva il proverbio quanto me, avrei dovuto
soccombere con la stessa spada, nella fattispecie un cuscino che perdeva piume
neanche fosse un rettile nel periodo di muta.“Tyler KEATS Hawkins?!” scandì
incredula e divertita “davvero ti chiami Keats … porca puttana, i tuoi devono
essere dei tipi davvero pretenziosi?!” Nella fuga dai suoi fendenti per poco
non inciampai ed evidentemente dalla tasca dei jeans venne fuori il mio portafogli,
perché c’era un solo posto al mondo dove tenevo sigillata a tenuta stagna la
verità sul mio nome intero: la carta d’identità, ben mimetizzata nel quarto
scomparto a sinistra. Arrivammo nel piccola cucina e cercai di difendermi da
lei con il primo oggetto che mi capitò tra le mani, un misero tagliere di
legno, lasciato lì sulla mensola da una vita e chissà quando era stato usato
per l’ultima volta.
Nella
concitazione della battaglia, quasi arrivati allo scontro diretto, accadde
quello che nessuno dei due poteva aspettarsi: eravamo vicini, a ridosso del
mobile della cucina, talmente vicini da sentire i battiti dei nostri cuori
rimbombare alle orecchie dell’altro e scontrarsi l’un l’altro, mentre i respiri
concitati muovevano e scontravano le rispettive casse toraciche.
Oltre
al martellare dei nostri cuori ed i nostri sospiri affaticati, c’era la musica
ovattata della festa hippy al piano di sotto. Erano passati ai lenti anni '60/’70,
tipico sintomo che il vino aveva iniziato a fare effetto. Sobrio di vino, ma
ebbro della sua presenza cercavo di non pensare a quella colonna sonora come un
segno del destino, ma come una razionale, seppur bizzarra, coincidenza. Bastava
davvero poco ad annullare quella distanza, bastava solo volerlo. Vedevo i suoi
occhi, mentre i miei si perdevano in quel suo visto disteso, concentrato in una
comunicazione verbale che per una volta non riuscivo a cogliere, preso e perso
com’era il mio cervello a studiare ogni dettagli di quella situazione. Sembravano
dirmi qualcosa i suoi occhi, grandi e verdi, occhi irlandesi li avrebbe
ribattezzati la bisnonna Hawkins, lei che il Donegal l’aveva visto davvero, sconfinati
come l’oceano e verdi come le ampie radure; sembravano chiedermi perché eravamo
arrivati fino a lì e cosa esattamente stesse accadendo. Cosa rispondere a degli
occhi ammaliatori come quelli?
Ma
lei sembrò abbastanza lucida da decidere per entrambi e si tirò indietro. Forse
era meglio così: niente contatto, meno dolore quando fosse scomparsa dalla mia
vita. Era così brava a saper riprendere il controllo della situazione, così
padrona dei suoi istinti che sembrava impossibile avere davanti una
diciassettenne. Era per questo, forse, che non era uguale alle altre, per
questo c’era in lei qualcosa in più, solo per me.
Feci appena in tempo a riprendermi da
quell’attimo un po’ pericolo, che capii che un altro era in arrivo, ben
peggiore. Con la coda dell’occhio vidi partire un tiro mancino, pronto a
colpirmi in pieno volto. Riuscii a schivarlo appena in tempo, ma forse avrei
fatto meglio a prendermelo: una vagonata d’acqua bollente mi venne addosso
dalla pentola in cui avremmo dovuto cuocere la pasta. Stavo aspettando che
bollisse, quindi per fortuna non era eccessivamente calda, ma sentirsela
addosso d’improvviso non era certo una bella sensazione.
“Oh
merda! Tyler scusami! Cazzo! Non volevo, ti giuro! Ho esagerato come al mio
solito … perdonami ti prego!” iniziò a scusarsi Allison che non sapeva dove
mettere prima le mani, se correre a raccogliere il pantano sul pavimento oppure
a me che, fradicio e bollente, sembravo appena uscito sulla neve dalla sauna ed
avevo il corpo fumante. Mi affrettai a spiegarle che non aveva nulla di che
scusarsi, era stato un incidente. “Capita” la rassicurai, sorridendole “quando
si fa gli scemi per casa come facevamo noi!”. Certo che però se mi avessi
baciato ora eravamo a fare altro ed i vestiti non avrei dovuto certo toglierli
per evitare di ustionarmi!
Andai
in camera a cambiarmi e lasciai gli abiti ad asciugare sul davanzale
arrugginito della mia finestra, tanto comunque avrei dovuto portarli alla
lavanderia a gettoni ad un paio isolato da casa. Lei era rimasta nella zona
giorno, quasi avesse pudore a vedermi senza maglietta; lei, che era abituata a
ben altre visioni, ben più raccapriccianti. D’un tratto la sentii bussare allo stipite
della porta “Posso?” chiese, titubante. “Certo” la esortai.
Era
guardinga, forse ancora un po’ in colpa per quanto era successo.
“Aspetta”
disse, mentre mi abbottonavo la camicia “ma hai un tatuaggio sul petto? Non ti
facevo tipo da tatoo, sai? Che poi sul cuore … spero non l’abbia dedicato ad
una ragazza che ti sei scopato e poi hai lasciato la mattina dopo perché
sarebbe imbarazzante …”.
“È il nome di mio fratello” la freddai e lei passò
delicatamente la mano sulla pelle, percorrendo ogni lettera come fosse cieca e
quella fosse una scritta in Braille, provocandomi un leggero brivido. Sembrava
voler carpire ricordi ed immagini direttamente dal mio cuore, sul quale quel
nome era stato inciso.
“Scusami”
si giustificò, ancora, la voce balbettante “io … io non avevo idea che …”.
Abbassò lo sguardo e si allontanò da me, andando a sedersi ai piedi del letto.
Era sconvolta, neanche le avessi comunicato la morte di un suo parente; ma
allora compresi che dietro il suo dramma doveva celarsi qualcosa di simile, un
lutto o una perdita abbastanza grave da ridurla a schiava di qualcuno per
chissà quali motivi. Non eravamo così distanti. La raggiunsi sul letto e mi
avvicinai quel tanto che bastava a farle capire che non me l’ero presa e che,
anzi, ero ben felice di levarmi finalmente quel peso con lei, dimostrandole che
la mia vita non era poi così perfetta come lei credeva.
“È
il ragazzo delle foto che hai di là, vero?” annuii. “Come …”
“Suicidio”
faticai a spiegarle, anche se era necessario “si è impiccato poco più di un
anno fa il giorno del suo 24esimo compleanno. Si era laureato in economia ed
aveva da poco iniziato a lavorare con nostro padre … ma la sua passione era la
musica e lui gliel’ha distrutta, mandando in rovina tutto il resto …”
“so
che sembra strano ma … ma so come ci si sente. Sia nei suoi panni che nei tuoi,
credimi”.
Mi
stesi sul letto, ad occhi chiusi, cercando di riordinare le idee. Era
stata una
bella giornata, ma anche piuttosto lunga; con Allie le cose andavano a
meraviglia e sembrava essersi instaurato tra noi un clima di
distensione e
amicizia, forse anche qualcosa di più. Mi riusciva difficile
credere che quel
qualcosa di più, per me, lo avesse lei; ma l’amore
è cieco, non chiede
permesso, ed il più delle volte si presenta a noi irriverente ed
inopportuno.
D’improvviso sentii il letto scuotersi sotto delle piccole mosse;
era
evidentemente Allison, che si stava avvicinando a me in maniera
difficile,
tanto perché tra noi le cose non erano abbastanza complicate.
Venne ad
appoggiare la testa sulla mia spalla e, mente una mano si era fermata
sul
petto, l’altra era corsa ai capelli, con una timida audacia che
faceva di lei predatrice e preda nel medesimo istante, in un perenne
gioco di attacco
e difesa. Aprii gli occhi e le sorrisi, lei però non
riuscì a distendersi e a
rispondermi. Le carezzai la guancia con il dorso della mano ed i
suoi occhi
erano tornati ad essere fermi e tristi, imploranti una pietà ed
un aiuto che
non avrebbero mai potuto ottenere senza sapere quale fosse il problema.
“Hei?!” le sussurrai dolcemente, stringendola a me. Avrei voluto che quel
momento non finisse mai. Il suo profumo si era addolcito, addomesticato da un
mondo di nuove esperienze, e ne avrei aspirato e respirato l’essenza
all’infinito.
Puntò
il suo sguardo dritto nei miei occhi, con la severità che solo le cattive
notizie possono dare. Lo sapevo che quel momento non avrebbe tardato la sua
visita, lo sapevo che sarebbe stata questione davvero di ore. E quel che è
peggio che lei lo sapeva, e si era tenuto dentro fino all’ultimo minuto,
soffrendo fino all’estremo sacrificio dell’addio, eppur godendo fino all’ultimo
di questi attimi. Era arrivato il momento dell’insensato abbandono.
“Oggi
è l’ultimo giorno Tyler” mi disse, senza celare in alcun modo la disperazione
di quelle parole “domani torno a lavoro”.
L’abbracciai,
d’istinto, e lei non s’oppose, chiedendo solo con tutta se stessa di potersi
gustare quell’ultimo momento d’amicizia tra noi.
Le
cose sarebbero cambiate, inevitabilmente, in un modo o nell’altro.
Piccolo annuncio: per scrivere i prossimi capitoli, i più impegnativi di tutta la storia, credo che mi prenderò due settimane di pausa. Tuttavia, se saranno pronti prima del previsto, non esiterò a pubblicare.
Spero che questo di oggi sia stato di vostro gradimento, che non sia stata ripetitiva, pesante o prolissa.
Per qualsiasi consiglio, critica o commento in generale sapete dove trovarmi, e vi ringrazio per il sostegno ed il consenso che mi date ogni, volta. So che siete molti di più di quanti vi vedo ogni volta e mi piacerebbe che anche voi, lettori silenziosi, vi facciate sentire. Per me è fondamentale ... nonché gratificante.
Oggi sono di una chiacchiera ...XD Vabbè ... vi lascio andare
à bientot
Federica