La corona di Artù
Non è che non capisse i loro pensieri, né poteva davvero dire
che non avessero ragione.
Tutt'altro. Li guardava, il suo miglior cavaliere e quel servo così strano,
persone che il suo cuore aveva sempre chiamato “amici”,
ma per cui la sua mano e la sua bocca avevano fatto – sempre -
troppo poco.
Soltanto, li guardava in quel momento
e provava invidia per la complicità che gli leggeva sul volto,
per quella strana sensazione che condividessero un segreto
che a lui era precluso.
Soltanto, non portava poi tutte le colpe
sulle sue giovani giovani spalle
se non aveva chiesto lui quella corona e quella vita,
se Uther era suo padre e se una parte di lui lo amava e desiderava compiacerlo
- cosa c'era di sbagliato in fondo, nel volergli vedere orgoglio nello sguardo? -,
né avrebbero potuto rimproverargli di non aver fatto sforzi per cambiare.
Così una rabbia sottile gli cresceva dentro, un sentimento cattivo che non s'addice ad un re,
e capiva, capiva,
che qualunque fosse quel segreto – e se davvero esisteva -
era solo lì che giaceva,
nella distanza che sempre li avrebbe divisi,
nel motivo per cui loro potevano darsi pacche sulle spalle
e non portavano corone sul capo.
Lì, in alto, dove il destino e nient'altro lo avevano posto
- che sapeva bene non esserci nessun merito personale in questo, cosa credevano? -
lì in alto sarebbe sempre stato da solo,
e non capivano, nessuno dei due, che questa era la sua condanna,
che già questo bastava a punirlo
per tutta la sua arroganza e quella superbia da contratto.
E avrebbe pagato, pagato tutto l'oro di Camelot,
per potersi inginocchiare davanti a loro
e distruggere finalmente quella distanza.