REST
Se
c’è qualcosa che ho imparato
è che la morte è veloce, quando vieni colpito dall’Anatema che uccide.
Un
momento, un attimo, un lampo di luce verde: chiudi gli occhi e poi più
nulla,
il vuoto, il nero ti avvolge e non sei più.
Non sei più perché è proprio l’esistenza che viene a mancare, non solo
l’esserci, in un certo luogo e in un
certo
tempo: l’essere e basta.
Ma
non è così. Non importa
come, o per mano di chi, la morte è sempre una dilatazione temporale,
un
allungarsi dei secondi che improvvisamente diventano ore. Credo che la
spiegazione sia semplice: Dio, il Fato o chiunque in questo mondo si
occupi
della nostra durata terrena, ci regala un ultimo istante. Un istante di
assoluta chiarezza, in cui vedi finalmente ciò che hai fatto e ciò che
gli altri
hanno fatto intorno a te, senza limiti di alcun genere. Sei già fuori
dal tuo
corpo, ma non l’hai ancora abbandonato del tutto.
Improvvisamente
diventi poco
più che un respiro, un soffio d’aria, come un alito di vento; e
finalmente
riesci a pensare, perché tutto ciò che in vita ti schiaccia al suolo si
solleva
e ti lascia libera dal peso della mortalità.
Non
è esattamente un istante,
non è una vita, eppure è abbastanza per trovare esattamente quel
minuscolo
punto sulla retta spezzata che è stata la tua vita, in cui hai scritto
la tua
storia. Perché per tutti noi esiste quel punto: è un momento in cui,
con una
scelta, abbiamo definito per sempre il resto della nostra esistenza,
persino la
nostra morte.
Per
me, Bellatrix Lestrange, è
stato quando avevo venticinque anni e conobbi Tom Riddle. Fu in quel
momento
che la mia strada venne segnata, e in quel momento, da qualche parte,
fu deciso
che sarei morta così.
Non
ho mai creduto nell’essere
artefici del proprio destino, e non ci credo nemmeno ora che sono alla
fine.
Perché vedo un vortice attorno a me, meri istanti prima che la luce
verde si
schianti contro il mio petto, e so che era già stato deciso. So che non
ho
sbagliato, e so che tutto ciò che potevo fare l’ho fatto con una
scrupolosità
ammirabile. Il fatto che stia per morire non toglie che sia stata una
grande
guerriera, forse la più grande.
Dovrei
essere furiosa, perché
tra tutti i maghi relativamente dotati presenti nella stanza, è stata
quell’inutile mamma chioccia ad avere la meglio su di me. Dovrei essere
ripugnata dal fatto che una Weasley sia riuscita a giocarmi, a farsi
beffa
della mia magia pura, di una Black. E soprattutto dovrei essere
devastata,
perché quando il Signore Oscuro verrà portato in trionfo io non ci sarò.
Ma
nessuno di questi sentimenti
ha più posto nell’anima che va in frantumi di una donna arrivata
all’ultimo
respiro. Non c’è rabbia, non c’è furore, non c’è più nemmeno quella
folle
ossessione per il sangue, la famiglia, la discendenza. Solo una
rassegnazione
che non ho mai conosciuto nella mia vita, quasi accettazione di ciò che
mi è
stato imposto.
C’è
stato tempo per il fuoco,
per l’ardore, ora rido. Alcuni potranno credere che rido per follia,
per
delirio di onnipotenza, ma la verità è che rido perché quando vedo la
luce
verde che viaggia verso di me so già che non riuscirò a proteggermi.
Rido
perché so cosa sta per succedere.
La
morte, in fondo, non è che
l’ultimo sonno.
Verrà
la vittoria per il mio Signore;
io non ci sarò, ma il mio Signore avrà ciò che vuole, senza di me.
Poi
la sento, come una scossa.
La maledizione mi colpisce e tutto si ferma. La sala si ferma, le
persone
attorno a me si fermano, tutto è muto e freddo. Tranne un ultimo,
agghiacciante
urlo che riconosco, e che conferma ciò di cui la mia morte mi ha voluto
dare l’ultima
prova.
È
l’ultimo dono che la vita ha
voluto fare a me, la sua seguace più fedele.
È
lui, colui per cui ho dato
tutto, che grida. Ora posso: posso lasciare il mio corpo, lasciare
questa
stanza che oramai non può più trattenermi, sapendo che la mia morte ha
avuto
risonanza. Non per me, quanto per quell’uomo che mai l’ha dimostrato
fino ad
ora.
Non
per me.
Per
me, oramai non conta più
nemmeno la morte.
Sono
in pace.
Il
peggior peccato contro i
nostri simili non è l'odio,
ma l'indifferenza: questa è l'essenza della disumanità.(George Bernard
Shaw).