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Autore: Evazick    11/04/2011    3 recensioni
(Seguito di "I fell apart, but got back up again". Ultima storia di questa serie!)
"Improvvisamente e lentamente allo stesso tempo, i miei ricordi iniziarono a disfarsi e a cadere nel buio che stava avvolgendo la mia mente, come le tessere di un puzzle quando vengono riposte nella loro scatola. Ma quelle immagini non cadevano in un posto da dove potessi recuperarle in seguito: finivano nel vuoto, nell’oblio, dove non sarei mai più riuscita a ritrovarle. Vidi sparire mia madre che mi abbracciava e mi scarruffava i capelli quando erano ancora lunghi, la mia amica JoJo che mi tirava un cuscino addosso, Simon che mi sovrastava con la sua pistola in mano, io in volo con le mie ali nere, Slay che si preparava ad uccidermi, Bubble Tower chino sulle sue apparecchiature, Grace che correva e rideva, Frank e Gee durante la ricognizione, Mikey e Ray che sparavano, Joshua che mi stringeva forte a sè per consolarmi...
Joshua."
(AU! Killjoys, make some noise!)
Genere: Avventura, Azione, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Frank Iero, Gerard Way, Mikey Way, Nuovo personaggio, Ray Toro
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Eve.'
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A beautiful lie.

 

Al mio risveglio ero consapevole che c’era qualcosa di strano. Lo capii da due cose: quel tremendo mal di testa mi era passato e avevo cambiato la posizione in cui ero. Mi ricordavo vagamente che prima del blackout (o qualunque cosa mi fosse successa) ero seduta su una sedia, ma adesso ero sdraiata su un materasso. Un materasso estremamente morbido e confortevole, di quelli che sembrano riempiti di nuvole, e mi dava l’impressione che ci sarei potuta affondare dentro da un momento all’altro. Mi rigirai nel dormiveglia per un paio di volte, poi mi sdraiai sul fianco sinistro e aprii gli occhi.

La stanza dove mi trovavo era immensa, considerando che la occupavo solo io: la parete opposta al letto dove ero sdraiata doveva distare almeno quattro metri. Lì campeggiava un altrettanto enorme armadio di un bianco abbagliante, quasi fuori posto contro la parete azzurra. A sinistra, sulla parete accanto, una scrivania di legno faceva mostra di sé insieme a un’immensa sedia girevole nera e con uno schienale alto persino più di me, e sul ripiano di legno un computer portatile aspettava soltanto di essere aperto e usato. L’ultima parete, quella alla mia destra, era quella che conteneva la porta, anch’essa bianca e lucida come l’armadio.

Mi sedetti lentamente sul letto e stirai le braccia, appoggiandomi con la schiena alla parete dietro di me. La luce entrava da una finestra alla mia sinistra, e riuscivo a vedere un enorme paesaggio di grattacieli che si stagliavano contro il cielo grigio e coperto di nuvole. Nonostante questo, il sole riusciva comunque a fare capolino e i suoi raggi riuscivano a penetrare dentro la camera, facendomi sentire meno sola. Anche se avrei voluto lo stesso che con me ci fosse… ci fosse…

Dio, come si chiamava era la persona di cui avevo bisogno in quel preciso istante?

Mi presi la testa tra le mani e cercai di concentrarmi: sapevo chi era, o meglio, sapevo che c’era qualcuno che volevo al mio fianco, ma il suo nome e il suo volto mi sfuggivano nella mente come il fumo tra le dita. Mi sforzai ulteriormente, ma una nuova e improvvisa fitta alla testa mi mozzarono il fiato e desistetti nel tentativo: come per magia, il dolore sparì.

Ho… ho perso la memoria? pensai impaurita. Sapevo che perdere la memoria non era affatto divertente, ma la cosa più importante adesso era mantenere la calma. Mi tolsi gli anfibi che portavo ai piedi, li poggiai sul pavimento e incrociai le gambe, facendo un respiro profondo. Okay, domanda semplice, mi dissi. Il mio nome.

Questa era una cazzata. Mi chiamavo Eve, Eve Blackshadow. Niente soprannomi, niente secondi nomi.

Età.

16 anni compiuti il 23 maggio.

Vengo da…

Aggrottai la fronte. Da dove venivo, dove ero nata? Mi concentrai di nuovo, ma una seconda fitta mi colpì la testa, facendomi uscire dalla bocca un gemito di dolore. Vagai nella mia testa a lungo per cercare altre informazioni, ma non c’era nient’altro. Solamente il buio, e gli unici ricordi che avevo iniziavano dal momento in cui mi ero svegliata, e avevo anche una vaga consapevolezza di essere stata seduta da qualche parte prima che mi svenissi o mi addormentassi. Basta.

Abbandonarmi alla disperazione mi sembrava un’ottima alternativa, ma capivo che non mi avrebbe portata a nulla. Mi alzai controvoglia dal letto e vagai per la stanza azzurra, raggiungendo l’armadio bianco. Un luccichio alla mia destra attirò la mia attenzione e mi voltai in quella direzione, incontrando il mio riflesso. Lo osservai attentamente: avevo la pelle bianca come un vampiro, i capelli corti e tinti di rosso fuoco, gli occhi castani ed ero vestita in un modo stranissimo. A parte gli anfibi che mi ero tolta, indossavo un paio di jeans che dovevano risalire a qualche anno prima tanto erano consumati, un giacchetto di pelle arancione e verde scuro su cui erano ricamate le iniziali L.B.V. (cosa significassero, era un mistero. Che fossero una decorazione?), un foulard amaranto legato al collo e una maglietta rossa e gialla. Guardai stranita un’ultima volta lo specchio, poi mi tolsi il giacchetto e il foulard per il caldo che avevo e li posai sulla sedia; quando mi voltai di nuovo verso il mio riflesso, trattenni un urlo di orrore.

La maglietta era a maniche corte, e mostrava le mie aggraziate braccia bianche, ricoperte di cicatrici rossi di diverse dimensioni. Sembravano molte vecchie, ma probabilmente sarebbero rimaste per sempre: ne toccai una impaurita, e la ritrassi quando il solo contatto del mio dito con la crosta mi fece rabbrividire. Deglutii, e mi accorsi che parte di una benda mi spuntava da sotto la maglia: tremando, mi levai la t-shirt e scoprii un’enorme benda che mi fasciava tutto il petto. C’era una minuscola macchia rossa sotto il mio seno sinistro: incuriosita, tolsi lentamente e dolorosamente la benda finchè non portai alla luce il foro di un proiettile, con ancora del sangue incrostato. Fissando quel buco nero mi si riempirono gli occhi di lacrime: che cazzo mi avevano fatto?

Stavo ancora fissando quel buco nero come ipnotizzata quando la porta si aprì e una voce femminile che non era la mia risuonò nella stanza. “Allora, dormito…” Si bloccò non appena notò che ero mezza nuda e senza benda, e si affrettò verso di me mormorando qualcosa tra sé e sé. Si mise a cercare qualcosa nell’armadio accanto a me, e ne approfittai per osservarla meglio: aveva i lineamenti tipici giapponesi, capelli neri a caschetto e indossava un tailleur grigio che mi metteva soggezione. La donna si avvicinò a me con un rotolo di garza in mano e, con gesti lenti e calcolati, fasciò di nuovo il mio petto, coprendo di nuovo la ferita. “Va meglio, ora?” mi chiese quando ebbe finito. Feci un cenno di assenso con la testa, incuriosita dal suo comportamento: per me era una perfetta sconosciuta, ma dai suoi gesti e dalle sue parole sembrava che mi conoscesse da sempre e si preoccupasse per me. Che mi fossi scordata anche di lei?

Rimise la garza dentro un cassetto dell’armadio e tirò fuori una maglia bianca a maniche corte, e me la porse. “Dai, mettitela. Non dovresti prendere freddo, potresti ammalarti,” continuò premurosa.

Titubante, presi la maglia e me la infilai, senza smettere per un solo secondo di fissare la donna. Quando fui pronta, mi rivolse un sorriso soddisfatto. “Come stai?”

“Bene… bene, credo,” dissi. Mi morsi il labbro inferiore. “So che può sembrare una domanda strana da fare, ma… cosa mi è successo?”

L’espressione di lei si fece confusa e allo stesso tempo allarmata. “Non te lo ricordi?”

Scossi la testa, quasi come se mi vergognassi. “Quando mi sono svegliata non ricordavo più niente. So solamente il mio nome e quanti anni ho, ma non so da dove vengo, non so chi sono i miei genitori…” Feci un sorriso imbarazzato. “Ad essere sincera, non so nemmeno dove sono e come ci sono finita.”

La donna adesso sembrava terribilmente a disagio, come se dovesse dirmi qualcosa ma non ne avesse voglia o non riuscisse a trovare il coraggio per farlo. L’unica cosa che riuscì a fare fu mormorare: “Penso che tutto sarà più facile se ti siedi.”

Deglutii. Col cuore che mi batteva all’impazzata come se dovesse scoppiare da un momento all’altro, mi sedetti lentamente sulla grande poltrona nera e fissai la donna, aspettando che iniziasse a parlare. Dopo qualche minuto di silenzio indicò le mie braccia e disse: “Immagino che non ti ricordi nemmeno come ti sei fatta quelle, vero?”

Annuii.

“Bè…” Afferrò uno sgabello che non avevo notato prima e si sedette davanti a me, senza smettere di fissarmi con i suoi occhi castani. Fece un respiro profondo prima di iniziare a parlare. “Hanno distrutto la tua casa, quattro giorni fa. Vi hanno piazzato dentro una carica di dinamite e l’hanno fatta esplodere, con dentro i tuoi genitori. A quanto pare tu sei riuscita a uscire dalle macerie, l’unica ancora viva, e hai provato a scappare, ma loro ti hanno sparato nel petto per fermarti e poterti prendere. Ti hanno portato in una baracca sperduta da qualche parte nel deserto, non lontano da dove abitavi, e ti hanno torturato per tre giorni. Sono loro che ti hanno lasciato quelle cicatrici sulle braccia, usando degli aghi e altre cose. Non so cosa volessero farti, ma alla fine ti hanno iniettato qualcosa nelle vene e sono scappati mentre arrivavamo noi. Ti abbiamo trovata legata ad una sedia, incosciente, e ti abbiamo portata qui per guarirti.”

Quando il silenzio calò di nuovo nella stanza, mi sembrò che un immenso macigno mi stesse schiacciando con tutto il suo peso. I miei genitori, morti. La mia casa, distrutta. Il mio corpo, torturato. Le lacrime mi salirono agli occhi: perché mi ero dimenticata tutto questo? Volevo che tutto mi ritornasse in mente, volevo vedere per un’ultima volta il volto di mia madre e mio padre, il luogo dove ero cresciuta, i visi di chi mi aveva fatto tutto questo per potermi vendicare. Toccai la benda sotto la mia maglietta e rabbrividii. La donna notò il mio tocco e disse: “Ti hanno curato e fasciato loro la ferita. Non so perché l’abbiano fatto, ma di sicuro volevano tenerti in vita.”

“Che gesto nobile,” mormorai sarcastica. Al solo pensiero che qualcuno mi avesse guarita per potermi torturare non riuscii a fermare le lacrime e loro iniziarono a scorrermi lungo le guance inesorabilmente, senza che io potessi fare niente per fermarle. La donna si alzò velocemente dallo sgabello e mi raggiunse, abbracciandomi stretta come una madre. “Ssh, tranquilla, va tutto bene. Sei al sicuro adesso.”

Affondai il viso nel suo petto e piansi senza ritegno, desiderosa soltanto di un poco di affetto e consolazione. Quando mi fui un po’ calmata mi staccai da lei, e notai con imbarazzo che aveva bagnato la sua camicia bianca con le mie lacrime. Le mie guance divamparono e le sentii diventare rosse come il fuoco. “Mi… mi scusi, non volevo sporcargliela,” mi scusai a bassa voce. Lei, per tutta risposta, rise. “Dammi del tu, non mi sento ancora così vecchia. E figurati, farei di tutto per la figlia di un’amica, Eve.”

La guardai scioccata. “Come fa… come fai a conoscere il mio nome?”

“Io e tua madre eravamo amiche da sempre, Eve. Aiutarti dopo la sua morte è il minimo che possa fare.” Si avvicinò di più al mio volto. “E ti aiuterò a vendicarti, se è quello che vuoi.”

Sgranai gli occhi di fronte a quella proposta. “Dici sul serio?”

“Certo.” Sorrise. “Anch’io vorrei vendicare la morte dei tuoi genitori, ma penso che tu abbia più bisogno di questa vendetta rispetto a me. Hanno distrutto la tua famiglia e la tua casa e ti hanno torturata come se fossi un pupazzetto che non sente dolore. Posso aiutarti a far in modo che loro provino lo stesso dolore che hanno inflitto a te, se non uno ancora più grande.”

Riflettei su quella proposta: in corpo avevo un fuoco che mi bruciava inesorabilmente, e le mani mi prudevano da tanta voglia avevo di sistemare questa faccenda. Volevo vedere le facce di quegli assassini davanti a me, volevo ucciderli uno per uno da sola, volevo vendicarmi per ogni singola ferita che avevo sul mio corpo e nella mia anima. Questo non avrebbe riportato indietro i miei genitori e non mi avrebbe ridato indietro la mia vecchia vita, ma di sicuro mi avrebbe fatta stare meglio. Molto, molto meglio. Guardai la donna con sicurezza. “Dimmi come fare.”

Fu allora che accade una cosa strana: nei suoi occhi passò un guizzo, un lampo veloce, che sparì veloce come era arrivato. Aggrottai le sopracciglia, confusa, poi mi rilassai di nuovo: insomma, quella donna voleva aiutarmi, voleva lenire il dolore che mi avevano inferto. Come poteva essere passato un lampo di soddisfazione nei suoi occhi, come se fosse stata sicura che avrei scelto la via della vendetta, come se un suo piano avesse funzionato? Lasciai perdere e mi alzai lentamente dalla sedia mentre lei si avviava verso la porta e la apriva su un corridoio bianco. “Scusa, non mi sono ancora presentata. Sono Airi Isoda,” mi disse con sorriso.

“Sei giapponese?” le chiesi ingenuamente.

Si lasciò scappare una risata. “Di nome e di fatto. Forza, vieni con me.” La seguii fuori dalla stanza e dentro un labirinto di corridoi bianchi che a me sembravano tutti uguali. Pensavo che ci saremmo perse, ma Airi mi condusse fino all’ascensore senza problemi. Entrammo dentro e ci dirigemmo verso il quindicesimo piano, un po’ più in basso. Quando le chiesi dove stessimo andando, rispose: “All’archivio. Ci sono tutte le informazioni su tutti i tuoi rapitori, e hai bisogno di più informazioni possibili per quello che devi fare.”

Annuii, poi dissi: “Non mi hai ancora detto chi sono.”

“È un gruppo di ribelli che vive lontano dalla città, nella Zona 5, in pieno deserto,” disse disgustata, come se stesse parlando di insetti invece che di esseri umani. “Si fanno chiamare The Fabulous Killjoys. Che nome idiota,” commentò con una risata acida.

“E… io dove sono adesso?” chiesi cauta.

“Tranquilla, sei molto lontana da loro, al sicuro. Sei a Battery City, in un grattacielo nel pieno centro della città. Anzi, lascia che ti dica…” disse mentre le porte si aprivano su un corridoio, dove in fondo, sul muro, campeggiava il disegno di una faccina nera sorridente.

“Benvenuta alla Better Living, Eve.”

*
Stasera mi girano, Sunshines. Ho fatto casino col mio account su fanfiction.net e non riesco più a entrarci. E avevo mandato una mail a una ragazza per chiederle se potevo tradurre la sua storia sui Killjoys e postarla qui su EFP. Qualcuno mi uccida, vi pregooooo ç_________ç
AnyWay, ora sapete che fine ha fatto Eve. Spero siate contente ù.ù
Il titolo del capitolo è ispirato alla canzone "A Beautiful Lie" dei 30 Seconds To Mars ("Davvero? Non l'avrei mai detto ù.ù" "Piantala di rompere, Evelyn!") e Airi Isoda è la (stronza) giapponese del video di SING, ma nei ringraziamenti di Danger Days è indicata come NewsAGoGo, la vocina che sclera durante Party Poison.
Kumiko_Chan, scusa se non ti rispondo, ma sono un pò di fretta D: Sono contenta che tu sia tornata, mi sei mancata, Sunshine ^_^
LudusVenenum: ooh, l'overdose di nesquik *va a farsela anche lei* Happy Gee-day in ritardo!
Maricuz_M: grazie mille per i complimenti e sì, anch'io adoro quei due deficienti quando sono insieme *-*
Vampire_Zombie: GIOOORNO!! Benvenuta in questo manicomio, spero che la permanenza ti sia gradita! Grazie per i complimenti, sono contenta di 'averti ispirata' *si sente inutilmente potente*
Momoka chan: boh, ormai ho perso il conto anch'io o_O AHAH A dire la verità non ricordo cosa stavo ascoltando mentre scrivevo il capitolo precedente, ma sono sicura che non fosse Save Yourself. Però sì, l'influenza c'è, soprattutto in quel "JOSHUA, SALVATI! LI TRATTENGO IO!" Eh sì, sono solamente in seconda... grazie per i complimenti, però! :D
So Long And Goodnight. Look Alive, Sunshine!
  
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