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Autore: Treilhan    12/04/2011    1 recensioni
VegetableMan? Una Silfide? Una pianta colta o un amico di Poison Ivy?
No, solo un albero e la sua concezione della vita, del bene e del male, della guerra, della giustizia e delle nostre azioni per dirci che, certe volte, anche le cose più insospettabili rivelerebbero qualcosa di interessante se noi sapessimo ascoltarle.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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La Voce Del Vento

 

 

 

 

 

Era il quarto, o forse il quinto inverno che avessi visto in tutto. Ricordo il freddo e la pioggia torrenziale che fondeva inesorabilmente la sottile distesa di neve ai miei piedi in una lastra incolore, animata dalle scosse del vento. Le mie radici erano fine come capelli e i miei rami non più resistenti di una piuma quando per la prima volta mi sono inconsciamente ritrovato a sviluppare uno di quei ragionamenti che chiamano “di natura filosofica” non meno complicato di tutti quegli interminabili aforismi che avrei sentito posarsi sulle labbra di tanti sofisti in seguito.

Però, di quel preciso istante del mio quarto o quinto inverno, quello che veramente non riuscirò mai a cancellare dalla mia mente, è il sangue: il sangue rosso sulla neve ancora bianca come le nuvole o i sogni dei bambini, il sangue rosso sullo smeraldo dei miei germogli ormai secchi, un rosso che in quella notte mi sembrava coprire anche il colore del cielo.

In mezzo a tutto quel rosso, tra tutti quei corpi non più mossi dal vento, i miei pensieri erano chiari, limpidi. Sentivo che questo non era giusto, anche se non avrei saputo dire perché.

Perché, in fondo, cosa mi diceva che la mia percezione di giustizia era esatta e la loro sbagliata, o entrambe corrette e completamente fuori strada al contempo?

Passarono altri inverni senza che io giungessi ad una risposta, mentre quegli strani esseri dotati di razionalità e soffio di vento (anche se non riuscivo a capire come potessero decidere dei propri movimenti, forse l’assenza di radici…) giungevano a nuove tecniche di morte, nuovi strumenti che avrebbero protetto i loro ideali seppellendo quelli degli altri sotto i loro corpi, corpi di vittime che in altre circostanze avrebbero potuto essere carnefici.

Allora, tra i boati, le grida e i pianti delle case al di là della collina, ho vaghe reminescenze di un’idea che mi attraversava la mente, che la giustizia non poteva essere affidata al caso, che non poteva essere flessibile e contorta come il fato… o un giudizio logico e umano.

Con il tempo i ruggiti delle armi si placarono e, al di là di chi avesse vinto o perso, il dolore dei reduci non si era spento, aveva solo perso la voce.

Credo di aver smesso di contare il tempo, ad un certo punto, di essere stato stanco di ammassare gli anni e i ricordi gli uni sugli altri in questa mia personale fossa comune che era diventata la mia mente.

Mi chiedevo come facesse il sole a sorgere ogni volta sugli stessi orrori, dove riuscissero i torrenti a trovare l’energia per scorrere attraverso quegli stessi paesaggi macchiati di rosso secco.

Eppure, proprio quando la bellezza della natura mi sembrava più illusoria e ingannevole, proprio quando la luce mi appariva come una mera trappola per insetti, penso di aver cominciato a capire.

Era una giornata calda d’estate come tante altre, tante altre che avevano offuscato i miei colori con l’odio e con il risentimento, e invece questa, per la prima volta, illuminava la terra di un colore vivo e folle d’amore per quelle esistenza che, così piccole, risanavano le ferite del vento giocando tra i miei rami, riscaldando la mia austera corteccia, riempiendo l’aria con le loro risate naturali, che alle mie orecchie erano i più melodici trilli che gli spiriti dell’estate avrebbero mai potuto portare in dono alle nuvole.

È stato allora che ho capito che il dolore è solo una questione di equilibrio, che la vita non può essere fatta solo di un’emozione, sebbene così bella e travolgente come l’amore, che l’odio è semplicemente l’altra faccia della medaglia, inscindibile, come la generosità e l’egoismo, come la vita e la morte, che l’unica cosa che possiamo fare noi burattini del destino è provare le emozioni più forti che le situazioni ci offrono e renderci conto che le nostre leggi morali non hanno il diritto di calpestare quelle degli altri.

Così, nella mia ennesima primavera, mentre la vita s’inverte e non ho più foglie da mostrare al sole con orgoglio, posso dire di aver capito che la giustizia non è altro che equilibrio, lo stesso che mi ha regalato gioie e dolori e che, come mi ha donato la vita, verrà a riprenderla indietro.

So che gli strani esseri che cadono e appassiscono contendendosi pezzi di terra forse non arriveranno mai a capire veramente cosa mi hanno insegnato involontariamente, ma forse è meglio così.

Forse è meglio che io porti questo mio segreto con me, lontano, a cantare nel vento.

Perché, in fondo, cosa potrà mai capirne un albero di giustizia?

  
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