-portami via di qui..-
mormorò lui, sbiancando.
Era incredibile come
fosse drammaticamente bello, in quel momento: gli occhi vuoti, trasparenti,
trasudavano dolore, imploravano aiuto, cercando, però, di non perdere l’ onore,
di conservare l’ apparenza. I capelli ricadevano scomposti a nascondere la
fronte, ad accarezzarla e tormentarla. La mano sinistra si agganciò saldamente
al braccio esile di Jess, mentre la destra, grondante
sangue, copriva convulsamente il taglio nell’ addome.
Jess era immobile, e rivolgeva i profondi occhi scuri
al cielo, in cerca d’ aiuto: possibile che Dio non fosse accanto a lei,
possibile che rifiutasse di mandarle un’ illuminazione, possibile che.. l’
unica cosa che si sentisse di fare era di portare quell’ uomo a casa sua?
Egoista, ecco cosa si sentiva
di essere, la ragazza: egoista perché voleva prendere Billie e portarlo con sé
a casa, per averlo tutto suo, egoista perché se ne fregava della sua salute,
egoista perché pensava a quanto le avrebbe fruttato in denaro rilasciare
interviste su Billie accoltellato che girava per New York.
Doveva portarlo in
ospedale, di corsa, avrebbe potuto spirare avvinghiato al suo braccio solo per
il suo egoismo e la sua indecisione, doveva farlo curare e lasciarlo ai suoi
cari. Ma non l’ avrebbe visto mai più, ne era sicura.
-venga.- gli disse, e lo
portò alla sua macchina, parcheggiata in un garage sotterraneo lì vicino.
…
Vendetta era fatta, ora
tutto sarebbe stato più giusto. Ora avrebbe potuto riposare in pace, la sua
furia era stata calmata, era stata disciolta nel sangue del suo carnefice.
Tutto sembrava avere sfumature diverse, ora, tutto aveva più colori: si avvertivano
profumi diversi, si vedevano colori più vivi, come se tutto il mondo fosse più
felice, ora. Anche il sangue sul coltello era più rosso, colmo di riflessi,
densa vernice che calzava a pennello sul metallo argentato della lama. Che
bella, che era, slanciata, aguzza, fiera, si stagliava nella notte brillando di
luce propria, come una stella, come una donna impettita nel suo vestito rosso
fiammante. Il vestito gocciolava, lento, scandiva i secondi; i secondi di una
vita che finiva, ogni goccia toglieva qualcosa. Doveva togliere il respiro, la
vista, la voce, i sensi tutti, finchè la vita non
sarebbe volata via, voltando le spalle al corpo, inorridita da ciò che aveva
compiuto, e pronta alla sua fine.
Era stata l’ ora di porre
fine alle sue sofferenze, a quel fuoco che ardeva incessante nel suo petto, che
bruciava tutto ciò che incontrava, che non guardava in faccia a nessuno e non
risparmiava vittime. Vittime, vittime, vittime che sparivano, si
disintegravano, annientate. Stavolta era stata lei ad annientare il suo fuoco,
la causa di tanti disastri.
Rigirò il coltello tra le
piccole mani e, quasi per caso, ci si vide riflessa: una piccola parte non
coperta di sangue, un minuscolo pezzo lucido di metallo, le rimandò un occhio,
inconfondibile: l’ occhio della vittima e del carnefice, il filo che l’ avrebbe
sempre tenuta legata a chi aveva ammazzato, che sarebbe vissuto con lei. Il
verde brillava feroce, mischiato all’ azzurro e venato del nero di quella notte
tremenda.
…
Il parcheggio sotterraneo
era illuminato dai neon e pullulava di barboni che dormivano sulla carta,
proteggendosi alla meglio dalla notte newyorkese. Accoccolati su se stessi,
sognavano una speranza, sognavano che qualcuno li portasse via, via dalla
frustrazione, via dalla miseria, via dalla vergogna della loro condizione.
Billie si aggrappava alla
ragazza, accasciandosi ogni tanto per il dolore. Era quello che si meritava, e
che il colpo gli fosse stato inferto da una persona o dall’ altra non
importava: doveva soffrire fisicamente, doveva provare le pene dell’ inferno
ancora prima di scenderci, doveva pagare per quello che aveva fatto.
Talvolta, quando si
provoca talmente tanto dolore da non riuscire a immaginarlo, quando le
sofferenze causate ci permettono solo di essere spettatori delle loro
manifestazioni, è bene sperimentarle, anche se solo in parte, sul corpo: è bene
torcersi dalle fitte, piangere, credere che non si vivrà più.
Così la pensava Billie,
arrivando alla piccola utilitaria di Jess.
-non mi portare all’
ospedale, ti prego..-
-dove vuoi che ti porti?-
rispose, esterrefatta, la voce argentina della cubana.
-in un luogo dove possa
soffrire a fondo, dove possa capire con quanta forza il colpo mi è stato dato,
dove il volere dell’ assassino possa compiersi. Me lo merito, ti prego. Non
lasciare che rimanga impunito.-
Fu allora che Jess prese la decisione definitiva. Che cosa le
interessavano le interviste, la fama, i soldi? C’ era di mezzo la vita di un
uomo, la vita di un uomo che non si poteva gettare al vento per del denaro.
Mentre gli occhi verdi
che tanti malanni avevano dato al mondo si chiudevano, stanchi, mentre un
sipario morbido calava sul palco della bellezza più assoluta, Jess uscì dal parcheggio, sapendo dove dirigersi.
…
Il carnefice diventa
vittima, la vittima carnefice. Paradosso della vita. Ed è proprio quando ciò
accade, quando le parti si invertono, quando la Terra gira attorno alla Luna,
quando il disco bianco latte che vediamo la notte si vendica della sua
condizione di schiavo che insegue i continenti, che il cerchio si deve
chiudere, che tutto deve avere una fine. Ciò che è fatto è fatto, gli errori,
gli spargimenti di sangue, le scuse.. è finito il tempo della vendetta.
…
Il telefono squillò nella
piccola macchina. Un nome faceva la sua bella mostra sulla schermata: Glenn. Jess si sentì gelare il sangue, mentre il suo dito
indugiava sul tasto di risposta. Se non avesse risposto, sarebbero stati guai
seri. Schiava, ecco cos’era: schiava di un uomo che la usava, schiava di un
mondo che non le aveva permesso di realizzarsi, schiava di quelle maledette
serate in discoteche di periferia. Uscì dalla macchina con le gambe che le
tremavano, pronta all’ ennesima umiliazione.
-ehi, negra, tu sei
fuori.-
Jess si appoggiò alla macchina, intontita. –che vuoi
dire?!-
-sei stata rimpiazzata,
c’è una tipa che prenderà il posto tuo, ecco. Sembra pronta a tutto e mi sono
scocciato di te.-
-co..com..come sarebbe a
dire?! Senti, Glenn, non sono stata abbastanza soddisfacente? Dimmelo, dammi il
tempo di fare una cosa e vengo, aggiustiamo tutto, ma, per favore, quel lavoro
è tutto quello che ho!-
-senti, cerca di non
essere isterica, Livia è una ragazza che ci sa fare. Addio.-
…
Glenn chiuse
violentemente la chiamata, sbattè il cellulare dall’
altra parte della camera e cominciò a dedicarsi a qualcosa di più interessante.
La ragazza lo aspettava sdraiata sul letto, completamente nuda. Non aveva altro
da fare che approfittarne. La prese, la usò, e lei nulla, non si lamentò. Sorrideva,
appariva trionfante, quella era la sua vera dimensione.
-ci sai fare, Livia,
domani sera si comincia il lavoro serio..- esclamò Glenn, subito dopo, una
sigaretta in mano e l’ aria di chi ha trovato una miniera d’ oro dipinta sul
volto.
-non vedo l’ ora.-
ammiccò lei, sogghignando e inarcando la bocca in un sorriso felino. Era
davvero bella: sbarazzina, dai capelli corti e rosso vivo, le forme perfette,
pareva disegnata da uno scultore greco. E sapeva lavorare, soprattutto. Doveva
essere abituata a quel genere di prestazioni, conosceva come muoversi. Glenn
era convinto che il giro sarebbe impazzito per lei, e con un po’ di polvere
bianca avrebbe potuto dare dei festini grandiosi.
-hai esperienza? Nel
campo, intendo.-
-ho fatto qualcosa, in
Italia.-
Quante cose aveva fatto,
Livia, e quanto si era pentita, tempo addietro. Ma che senso ha opporsi, se non
si può fare altro nella vita? Che senso ha non seguire il proprio destino?
…
Poteva sentirlo ancora
cantare, poteva sentire ancora la sua voce diffondersi nella sua stanza, anche
in quel maledetto aereo. I motori rimbombavano, e fuori dall’ oblò non si
vedevano altro che nuvole, soffici, bianche.
Doveva fargliela pagare,
doveva raggiungerlo e sbattergli in faccia tutto ciò che aveva fatto, una volta
per tutte. Aveva distrutto famiglie intere, quell’ uomo senza scrupoli e senza
vergogna. Doveva soffrire, e non le sarebbe importato nulla, se fosse dovuta
andare in carcere. Ammazzare l’ uomo che l’ aveva così profondamente ferita era
l’ unico modo per porre fine a tutto, e distinguersi, una volta.
Ma Clarissa non sapeva
che stava viaggiando invano, che tutti i suoi sogni si sarebbero a breve
sbriciolati di fronte alla realtà, e a ciò che era compiuto. Non era destino, e
che senso ha andare contro il destino?
…
Jess rimase immobile, impassibile, una statua di cera.
Aveva perso tutto, aveva distrutto i suoi sogni con le sue stesse mani.
Rifiutare Glenn era stata la sua rovina, ora nessuno l’ avrebbe più presa in
considerazione. Glenn era troppo influente, una sua parola contraria e tutto
saltava via, ogni volta. Quante vite aveva spezzato, quell’ uomo, quante donne
aveva rovinato, quante dignità aveva leso.
Eppure, se Jess avesse accettato di passare con lui quella maledetta
notte, se avesse accettato di vendersi, forse sarebbe già stata sulla cresta
dell’ onda. Ora si ritrovava con un pungo di mosche in mano, e senza un soldo
in tasca. Restava un’ unica cosa da fare: speculare sul corpo dell’ uomo che
teneva in macchina, fare delle foto e venderle al miglior offerente. La
situazione era disperata, e la ragazza si sentì ribollire le carni quando mise
in funzione la fotocamera del cellulare e si voltò verso il sedile dell’ auto.
Ma, lì, non c’ era
nessuno. Ed era destino anche quello, che senso ha opporsi la destino?
…
Eccolo, avvolto in una
coperta raccattata in un angolo. Eccolo, alla fine della sua vita. Era nato
nella povertà materiale, e stava morendo nella povertà dell’ anima. Aveva
cantato la giustizia, l’ amore, ed ora spirava nel rimorso, nella coscienza del
male che aveva fatto. Era la fine.
Quel corpo, bello, sodo,
toccato da tante mani e bramato da tante labbra, si torceva, conscio della sua
imminente disfatta. Era la fine.
Il sangue macchiava il
pavimento, fuggiva dalle membra, liquido, inchiostro rosso e rovente; quanti
respiri aveva trasportato, quanta adrenalina si portava via seccandosi sul
cemento. Era la fine.
E quegli occhi, lucidi,
vivi, quegli occhi stregati, colpevoli di tutto, quegli occhi che avevano
incantato, istigato, violentato, imprigionato, quegli occhi che avevano portato
persone alla rovina, quegli occhi che mai nessuno avrebbe dimenticato, quegli
occhi che avrebbero rincorso per sempre le loro vittime, quegli occhi che non
si sarebbero mai più rivisti su nessun uomo, quegli occhi capaci di cambiar
colore nel giro di un secondo si chiusero, straziati, incapaci di bagnarsi di
nuovo di vita. Era la fine.
E i capelli, ribelli,
scompigliati, che avevano inseguito tanti venti e si erano venduti alla brezza
di mare tante volte, quei capelli che parevano sempre voler volare via,
raggiungere il sole, giacevano nella polvere, abbandonati, spenti, opachi. Era
la fine.
…
Aveva deciso di morire
così, Billie, aveva deciso di non salvarsi, di non tentare di riprendersi la
sua vita. Aveva provocato troppi dolori, per continuare a vivere. Sarebbe stato
meglio se lui non fosse mai nato, ma almeno valeva la pena di farla finita.
Se ne era andato via
senza scandalo, senza far rumore, si era confuso con la gente trasparente,
quella cui mai nessuno volge uno sguardo. Era volato via in punta di piedi.
E quando, la mattina
dopo, quel barbone nel parcheggio sotterraneo non voleva svegliarsi, tanti lo
chiamarono, tanti gli urlarono gli insulti più atroci. Ma lui no, lui non si
muoveva, rimaneva nel suo giaciglio improvvisato.
In realtà, non c’ era più
da tempo, e solo una frase accompagnava il suo cadavere: “che senso ha andare
contro il destino?”.