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Autore: Miss Demy    15/04/2011    18 recensioni
Raccolta con vari pensieri di Lei: Bunny, la protagonista di Moonlight. I suoi sentimenti, le sue paure, i suoi stati d'animo narrati per la prima volta direttamente dal suo punto di vista.
Genere: Introspettivo | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Usagi/Bunny
Note: AU, OOC, Raccolta | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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In guerra con il mondo intero



Oggi mi sento in guerra con me stessa.
Oggi mi sento in guerra con il mondo intero.
È da ormai un anno che mi sento in guerra con chiunque.
I giorni trascorrono lenti, veloci, noncuranti di me e dei miei stati d’animo; le stagioni si susseguono e le persone vanno avanti con le loro vite anche senza di me.
La mia vita è una lotta continua, una corsa ad ostacoli e so che, se non sto attenta, alla prima occasione cadrò e mi farò male. Tanto male.
Lo so che sono lunatica; d’altronde il mio segno zodiacale è il cancro e, sotto l’influsso della Luna, è facile esserlo; ma io lo sono forse un po’ troppo!
Certe mattine mi alzo più fiduciosa nel mondo e nelle persone e altre, invece, mi sembra che tutto vada per il verso sbagliato, che qualcuno, qualcosa, qualche entità voglia punirmi e trascinarmi verso tutte le prove che credo non sarò mai in grado di superare.
Oggi mi sento fragile, vulnerabile; proprio oggi che invece devo sembrare forte e sicura di me!
 
In questa stanza, nuova per me da soli due giorni, capisco che le prove non saranno mai abbastanza; che la vita è difficile e non ha niente a che vedere con le favole che da bambine ci fanno illudere che il principe azzurro arriverà a salvare la sua bella.
In un regno chiamato Manhattan, non esiste il principe azzurro… neanche arancione; esistono uomini pronti a sbavarti addosso e a usarti come si usa un oggetto senza valore, senza anima, senza sentimenti. Senza vita.
 
Mi guardo in giro e respiro un odore fastidioso di spezie aromatiche e di estraneo; vedo soltanto pareti beige spoglie e un letto matrimoniale che non è il mio ma su cui comunque sarò costretta a dormire. E a lavorare.
 
Sento un peso al cuore, un tremore alle gambe, gli occhi pizzicare e le narici bruciare al solo pensiero di dover essere costretta a fare del mio ingenuo corpo uno strumento di lavoro. Ma perché? Perché proprio a me? Non è giusto!
Ecco; è più forte di me, non riesco a trattenere più le lacrime; devo piangere, voglio piangere e liberarmi l’anima da questo profondo dolore che sento dentro e che so sentirò sempre d’ora in poi.
Dicono che mi ci abituerò, che pian piano diventerò sempre più forte per affrontare questo locale, questo mondo, questa vita crudele e ingiusta.
Ma quando la vita è ingiusta, quando è crudele, quando ti fa soffrire così tanto spogliandoti da tutti i ricordi, da tutti gli affetti, allora mi chiedo: è vita? O diventa sopravvivenza?
Quando si avverte così tanto dolore al cuore, quando si sa che non ci sarà nessuno a porgerti un fazzoletto mentre le lacrime usciranno come uno sfogo spontaneo, come una rabbia repressa per così tanto tempo che poi, finalmente, esce tutta d’un tratto; mi chiedo:
quando finisce la vita e inizia la sopravvivenza?
  
Guardo alla mia destra e la sveglia a forma di luna segna le 20.00. “Mamma…” esce spontaneo dalle mie labbra, come un sussurro spezzato dal tuo ricordo che fa ancora male.
Continuo a guardare quell’oggetto giallo, un piccolo ricordo di te. Me lo hai regalato tu, mamma, quando ho compiuto sette anni.
Ricordo ancora che la sveglia era esposta in una vetrina di un negozietto del Queens, in una strada adiacente a casa. Rimasi ad osservarla, incantata dalla mezza luna che roteava all’interno del quadrante scandendo i secondi, e tu, mamma, carezzando i miei codini biondi con fare amorevole come solo tu sapevi usare; mi chiedesti:
“Ti piace?”, e quando ti risposi semplicemente annuendo, con le mani ancora impresse sulla vetrina posando un braccio sulla mia spalla, mi conducesti all’interno del negozio, accontentando quel mio desiderio tacito ma evidente. Rendendomi felice.
Sì: erano piccole cose che, però, fatte col cuore come solo una mamma sa fare, mi facevano sentire piena di gioia e fortunata.

Fortunata… che brutta parola! In un’altra vita dovrò ricordarmi di non usarla più perché appena la si pronuncia, qualcosa accadrà e farà pentire di averlo fatto. Farà rimpiangere di essersi sentiti fortunati.
 
Mi desto da quel lontano e bellissimo ricordo che porterò nel mio cuore per sempre ma; ora che tu non ci sei più, mamma, non posso fare a meno di piangere al solo pensiero, ai tanti ricordi di te, di noi, della nostra famiglia unita. Ormai sparita.
 
Chissà se ti vergogni di me, mammina, chissà cosa penseresti di me se sapessi che da oggi, tua figlia, la tua coniglietta come usavi chiamarmi tu; quella ragazza sempre allegra, solare, piena di vita e di estrema euforia che illuminava le tue giornate, da un anno triste e malinconica, smette di essere ingenua e pura per diventare una Moonlight dancer.
Sì. Oggi divento ufficialmente una Moonlight dancer, una delle ragazze più desiderate di tutta Manhattan se non addirittura di tutta New York City.
Ballerò e avrò gli occhi di tutti i clienti addosso a me; mi muoverò a ritmo di musica, seminuda, e avvertirò la voglia di tanti uomini che, lasciate le proprie donne a casa, verranno qui per me. Per guardare me, per possedere me.
Non so tu, mammina mia, ma io mi vergogno di me, di quella che d’ora in poi sarò. Non è ancora arrivata l’ora e già mi sento sporca dentro, mi sento sporca fuori, non mi sento più degna di essere tua figlia.
Tutto ciò che mi hai insegnato, tutti i valori che mi hai impartito con tanta dolcezza ma anche con estrema fermezza; che fine hanno fatto?
Avrei voluto, avrei tanto voluto, che tu, da lassù, avessi potuto continuare ad essere fiera di me, della tua coniglietta; avrei desiderato che, guardandomi, non avessi provato delusione per la Moonlight dancer che sono diventata.

Perdonami mamma.
 
La porta è chiusa a chiave e, sola in questa camera estranea, apro la finestra e sento il vento di questo giorno di metà Novembre sbattermi in faccia; a tratti mi accarezza, a tratti invece sembra schiaffeggiarmi. Chiudo gli occhi prendendo respiri profondi e sentendo l’aria entrarmi dentro e darmi l’idea di essere per qualche istante libera. La City ha appena iniziato ad illuminarsi; sta per calare la sera, sta per arrivare la luna. Sta per arrivare il mio primo giorno di lavoro.
È di nuovo più forte di me. Avevo provato ad auto convincermi, avevo capito che era necessario ma, inevitabilmente tutto ciò mi terrorizza, mi spaventa. Oddio, ho una tremenda paura e l’unica cosa che riesco a fare è piangere a testa bassa e con le mani sul cornicione freddo; e tremare, mentre le lacrime, a contatto con l’aria, diventano fredde, gelide sulle mie guance.
 
“Lo faccio per te, Usa; lo faccio solo per te, sorellina mia…” ripeto, fino allo sfinimento, fino a quando soffoco tra i miei singhiozzi mentre il mio cuore batte sempre più forte dentro al mio petto; mentre le braccia si fanno sempre più tese, rigide. Non posso essere egoista; quando la razionalità si fa più forte dentro di me, capisco che non potrei mai perdonarmi se, per colpa delle mie paure e del mio egoismo ingenuo, fossi costretta a perdere te.
Se è vero che io soffro, se è vero che il mondo è stato ingiusto con me perché mi ha privato dei miei genitori quando avevo ancora bisogno di loro, delle loro carezze, dei loro consigli e, perché no, anche dei loro rimproveri; è anche vero che tu, piccola Usa, soffri molto più di me; il mondo è stato più crudele e meschino con te.
Sei costretta a vivere in un reparto di oncologia pediatrica; ti attorcigli i capelli come fai sempre prima di dormire e sei obbligata a notare come il tuo dito li raccoglie e li porta via, facendoti capire che qualcosa non va, che il ramato dei tuoi capelli preferisce stare tra le tue dita piuttosto che sulla tua cute. E piangi, hai paura. E sei sola.
Sei costretta a dormire tutta sola, senza favole, senza la mamma che ti rincuora quando le braccine ti fanno male, quando le osservi e le noti viola. Non riesci a volte neanche a distenderle. E piangi, hai paura. Sempre da sola.
Mi rendo conto che se io sono sfortunata, tu lo sei più di me e, questa mia guerra contro il mondo la combatterò per tutte e due, la vincerò per me, ma soprattutto per te. Per quello che la vita ti ha tolto, per quello che ha voluto darti e che tu non eri pronta ad accettare. Non lo ero neanche io.
E se… E se il mondo già abbastanza crudele volesse togliermi anche te? Che farei? Come farei io ad impedirlo?

Sento di nuovo un tremore addosso, sento di nuovo la sensazione di vuoto che mi entra dentro e mi logora nel profondo. Ho ancora il vento che accarezza i miei capelli facendoli spettinare e solleticarmi le guance. Sento ancora l’aria gelida che profuma di libertà: libertà che io non avrò finche non l’avrai pure tu, piccola Usa.
Solo quando sento le gambe tremare al solo pensiero che anche tu potrai andare via per sempre da me, mi lascio scivolare giù, inerme, sul pavimento di marmo gelido temendo di non poter mai essere sicura di vincere quella che è per me la sfida più importante di tutte, perché riguarda te.
Mi rannicchio con le gambe al petto, stringendomi da sola dato che nessuno lo farà mai; non potrà farlo mai.

Per un istante, toccando le mie ginocchia leggermente indolenzite, mi viene in mente quel calore al cuore che ho provato per pochi secondi tra le tue braccia, ragazzo sconosciuto.
Io ero distratta da ciò che avrei dovuto subire questa sera durante il mio lavoro e tu, dolce e gentile, mi hai sollevato da terra tenendomi stretta a te. Chi eri? Chi sei? Perché quando ti ho guardato negli occhi avrei tanto voluto chiederti aiuto? Perché se il principe azzurro non esiste, io ho avuto la sensazione di potermi fidare di te? Sono qui, sola, proprio come lo sarò sempre d’ora in poi; non posso fidarmi di nessuna qui dentro perché so che questo luogo è pieno di squali pronti a divorarti viva pur di toglierti dalla concorrenza. Io non ho nessuno a cui poter confidare i miei pensieri, le mie paure, le mie speranze di diciannovenne e i miei sogni che so resteranno chiusi in un cassetto.
Chissà dove sei adesso, chissà cosa fai e chissà perché continuo a pensare a te e ai tuoi occhi che ispiravano fiducia e protezione. Sono una stupida ragazzina romantica… Probabilmente non ti rivedrò mai più, forse resterai un amico immaginario con cui parlerò quando sarò triste e sconfortata, quando sarò in lotta contro il mondo come ora.
Mi stringo ancora di più su me stessa, mentre le lacrime finiscono sulle mie labbra. Rimango lì, per terra, lontano dal vento che continua a soffiare, dalla City illuminata che non dormirà neppure stanotte, resto nascosta persino dalla luna.
Lontano da tutto e da tutti.
È una guerra la mia, una guerra contro il mondo.
E il mio nemico, lì, fuori da quella finestra, non dovrà mai vedere le mie lacrime.


Fine

   
 
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