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Autore: Neal C_    17/04/2011    2 recensioni
[L’INVENTORE DEI SOGNI_ Ian McEwan]
E se Peter Fortune parlasse e capisse l’italiano?
E se ascoltasse un giorno una famosa canzone di De Andrè e finisse per pensarci su?
Che ne uscirebbe?
Forse qualcosa di più ingegnoso di questo, ma non essendo io quel geniaccio di Ian McEwan, accontentatevi di questo breve, strano episodio, frutto di una altrettanto bizzarra fantasia.
Genere: Avventura, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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Non avrai altro Dio all’infuori di me,

spesso mi ha fatto pensare,
genti diverse, venute dall’est,
dicevan che in fondo era uguale.
credevano ad un altro diverso da te,
e non mi hanno fatto del male,
credevano ad un altro diverso da te,
e non mi hanno fatto del male.


Com’è noiosa questa canzone. Mi hanno detto che era bellissima e profonda.
Invece non ha una musica di quelle che ti colpiscono, sempre i soliti tre accordi qua e là, le parole hanno un ritmo cantilenante. Ma proprio queste devo capire. Mi dicono di ascoltare le parole.
Parlano di Dio e dicono di aver incontrato genti dell’est.
Mah.
Anche io ho incontrato spesso genti dell’Est, tutte ammantate per difendersi dalle sabbie dei deserti, chi in lino, come gli sceriffi, con ricami dorati e una cintura da cui pendevano grosse scimitarre, ma il loro metallo aveva perso il suo scintillio perché la sabbia aveva incrostato tutto di loro, tranne i visi misteriosi.
E poi c’erano i pellegrini ed erano avvolti solo in tele grezze, alcune  color sabbia che giocavano a mimetizzarsi con i colori bruni del deserto,  altri in tele scure.
Io ne ho incontrato un gruppo che avanzava lentamente a cavallo, verso l’oasi a cui mi stavo abbeverando.
Non erano gli sceriffi, erano i pellegrini. E subito mi circondarono mentre  l’acqua mi toglieva spazio e li aiutava  ad accerchiarmi meglio.
Forse rimasero un po’ stupiti dal mio abbigliamento. Loro erano tutti in tono con l’ambiente, qualcuno in sabbia, qualcuno in nero, facevano la loro bella figura.
Io invece ero in jeans e felpa e stonavo terribilmente con tutto il resto.
Uno di loro da un paio di colpetti rapidi sul collo del cammello che, da sotto, dal livello dell’oasi, mi appariva altissimo. Il cammello emette uno strano verso e sembra fermarsi un attimo ad osservare dritto davanti a se, poi si mette seduto piegando le zampe anteriori.  
L’uomo adesso mi guarda dalla mia stessa altezza e sento un senso di inquietudine quando incrocio bene gli occhi scuri, quasi neri del carovaniere.
“Salah elDin”
Il tizio parla con una voce profonda  che interrompe i miei pensiero inquieti, ma io non capisco un accidente di quello che dice. Lui fa un respiro e prende a parlare e a parlare, tirando fuori lunghe “aaam”  e poi, “hiiim”  o “ikum” e “sabah” e “rama” o ancora “tafa”.
Quando sembra aver terminato, mi osserva dubbioso come se si aspettasse qualcosa da me. E io non lo capisco. Io parlo inglese e italiano. Nient’altro.
Non so cosa dire e  alla fine agito le mani, indico me stesso e scuoto la testa più volte in cenno di dissenso.
Poi gli rispondo come posso: “Sorry”
Quello non si da per vinto e comincia a fare grandi gesti verso i compagni, e allora davanti a me vedo prima, rannicchiarsi e poi sedersi altri cinque cammelli.
E nessuno sembrava capirmi, si guardavano tutti perplessi, qualcuno torvo e minaccioso, qualcuno semplicemente annoiato. Vero era che essendo tutti ammantati si capiva ben poco e soprattutto non avevo idea di chi mi trovavo davanti.
Uno di loro spiccicò qualche parola d’inglese e da lì capii che mi trovavano molto strano, perché ero vestito in quel modo, perché non vedevano il mio cammello, perché non sembravo avere con me delle provviste e io non sapevo come spiegargli che era solo un sogno, che mi ero distratto un’altra volta quando mi avevano detto di stare attento e ascoltare una stupida inutile canzone italiana, noiosissima poi.
Non ci provai neppure altrimenti forse avrebbero potuto pensare che ero veramente impazzito.
Dissi solo che mi ero perso e non mi ricordavo né dov’ero, né dove fossero i miei genitori.
Poi, mentre si consultavano, gli chiesi: perché vi vestite di blu nel deserto?
Meglio il bianco così fa meno caldo.
Loro non sapevano spiegarmelo. Dicevano che lo facevano da sempre.
Alla fine fra noi c’era solo un silenzio imbarazzante.
Loro erano chiaramente silenziosi e bisbigliavano, lamentando suoni allungati e beduini, incomprensibili e io me ne stavo zitto, ad osservarli discutere a voce bassissima, ma concitata.
Alla fine il traduttore, quello che spiccicava l’inglese sembrò chiedermi, solennemente come mi chiamassi.
“Peter Fortune”
Ma la mia risposta non cambiò la situazione. Rimanemmo a fissarci in silenzio e io tentai persino di sorridergli ma non riuscivo a sorridere a gente che non conoscevo.
Anzi cominciavano ad inquietarmi. Io non parlavo mai con gli sconosciuti. Mia madre mi diceva sempre di non farlo e quando questi si interessavano a me, di andare via, rifugiarmi nel negozio di Fred il panettiere o Sam il macellaio.
E qua non c’era nessuno di loro, io non ero al parco dove ogni tanto osservavo il mio amico Leo e i suoi compagni che giocavano a calcetto, dalle panchine. Insomma niente stava andando come doveva andare.
Ad un certo punto, il capo dei beduini, che io chiamavo così perché era il primo che aveva fatto sedere il suo cammello, portò tutte e due le gambe su un solo lato e si diede la spinta scendendo giù dal cammello.
Poi, dopo aver tastato il terreno sabbioso con i suoi larghi sandali, si dirige verso di me con passo zampettante.
A me non piace che mi si avvicinino gli sconosciuti, e non c’è nessun negozio nelle vicinanze. Solo l’oasi dietro di me e l’acqua che sembra fredda. Lui si avvicina un sacco e io faccio un mezzo passo indietro. Lui per coprire mezzo metro ci sta mettendo un secolo.
E io ormai ho le scarpe da ginnastica tutte bagnate, a furia di indietreggiare lentamente.
Lui protende verso di me  il braccio ammantato, pronto ad afferrarmi.
è allora che mi spavento , mi giro e mi tuffo nell’oasi, rompendo l’acqua cristallina e schizzando le rive e i beduini. Prendo a nuotare velocemente, a rana, ma non so dove andare.
L’oasi è piccola, l’acqua è poca e intanto i beduini scendono dal cammello per pattugliarne le rive finché non mi sarò deciso ad uscirne.
Forse non sanno nuotare. Certo che no. Siamo nel deserto dopotutto.
Decido che non mi muoverò da lì e loro non potranno stare su quelle rive per sempre.
Non fa nemmeno caldo per me.
 E loro prima o poi dovranno pur ripartire.
Dopo un po’ mi sento qualcuno che chiama e agita le mani davanti al mio viso. O sono ancora gli spruzzi che ho provocato io con il mio movimento?
“PETER!”
 Dimenticavo. Quella canzone che dovevo ascoltare.
E lenta, noiosa e anche bugiarda. Forse non gli hanno fatto niente perché non ne hanno avuto il tempo.

Non nominare il nome di Dio,
non nominarlo invano,
con un coltello piantato nel fianco,
gridai la mia pena e il tuo nome.
Ma forse era stanco, forse troppo occupato
e non ascoltò il mio dolore.
Ma forse era stanco, forse troppo lontano
davvero lo nominai invano.


Spazio dell'Autrice

Inutile dire quanto sia bella questa canzone di De Andrè, forse ce ne sono di migliori nel suo repertorio ma sicuramente questa è quella che preferisco fra le tracce de "La Buona Novella".
Forse sarebbe stato meglio rendergli onore con un racconto meno futile, potrà pensare qualcuno, ma questo mi è uscito! 
Saper cogliere dettagli apparentemente insignificanti e trasformarli in una storia è sempre stato il mio hobby preferito.
Quanto amo McEwan! Uno dei migliori romanzieri inglesi degli ultimi anni. Non mi stancherei mai di leggere alcune delle sue trovate."L'inventore dei sogni" è stato il primo dei suoi libri che ho letto. Poi non ho saputo resistere e ho scritto del "mio" Peter.
  
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