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Autore: Rossy_89    17/04/2011    20 recensioni
La nostra vita è fatta di attimi. Alcuni di questi, in un battito di ciglia,sono in grado di cambiarci l'esistenza. Quello che in fondo succede a Bunny, figlia di un Commissario di polizia e studentessa modello alla Florida State University. Uno scottante segreto rivelatogli dal suo migliore amico Moran, un incontro con l'affascinante poliziotto marzio, sono solo alcuni degli avvenimenti che la porteranno in un viaggio ai confini di se stessa.
Genere: Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Un po' tutti
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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Capitolo 3.
 
Insieme.

 
 
 
 
“…Nonostante la recente identificazione di molecole di RNA con proprietà catalitiche, i ribozimi, per definizione un enzima è una proteina dotata di proprietà di innesco, dovute alla capacità di specifica attivazione.”
Il professor Tomoe si alzò dalla cattedra, facendo veleggiare l’ampio camice da laboratorio.
La punta di diamante del nostro college era un uomo sulla sessantina, molto attraente, capace di catalizzare l’attenzione della classe (almeno, della componente femminile) soltanto modulando la sua voce pacata, sicura, estremamente accattivante.
 Il suo Curriculum Vitae avrebbe fatto impallidire qualsiasi giovane ricercatore di buone speranze: più di novanta pubblicazioni su riviste nazionali come l’American Chemical Journal e il Carbohydrate Reserch, innumerevoli convegni per la Ivax Corporation e i Laboratori Romark, era appena stato nominato Presidente del Corso di laurea in Biologia della mia università.
“Bene. Ora passiamo ai diagrammi di reazione.”
 
Il suo sguardo, enigmatico per natura, era reso ancora più indecifrabile da uno spesso paio di occhiali, che, per una mania quasi ossessiva, era solito pulire in un panno di velluto rosso almeno una ventina di volte in un’ora.
Un ghigno beffardo gli storceva il labbro inferiore ogni volta che al suo colloquio si fosse presentato  uno studente impreparato o particolarmente emotivo. Puntualmente si ravviava la chioma brizzolata, fissando la vittima con aria di sfida. Se non avesse ottenuto la risposta desiderata, proruppeva in una risata sguaiata, causando una paresi mentale immediata al malcapitato di turno. 
Infierire gli piaceva,e per questo tutti scorgevano una profonda vena di sadismo e cattiveria in lui.
Lo squadrai rapidamente.
Qualcosa mi faceva pensare che dietro il suo comportamento si nascondesse invece un quieto malessere, un desiderio di vendicarsi della vita.
Tutti i giorni, finite le lezioni, attraversava il Tamiami Park, percorreva la 112esima strada per poi immettersi in Coral Way, dove abitava.
La sua ombra allungata dal sole del tramonto sul selciato era l’unica confidente; le palme aggraziate che costeggiavano il sentiero, le sue guardiane silenziose. 
Ad aspettarlo, nel suo appartamento, c’erano solo una rigida tavola in legno d’acero non apparecchiata e una inespressiva poltrona ancora nuova, perfetta, senza una sgualcitura.
Su di essa nessuna macchia di caffè, nessuna sbaffatura di colori a spirito; nessun giocattolo appoggiato contro lo schienale imperioso.
Perché su quel divanetto color tortora non vi si era mai seduto  nessuno.
 
Il professor Tomoe non amava rilassarsi lì, di fronte alla finestra; preferiva piuttosto rintanarsi nel suo laboratorio privato.
 Così poteva non pensare a sé, alla sua non-vita, al fatto che tutto in questa dannata esistenza abbia un prezzo.
E lui il successo l’aveva pagato caro: poiché aveva incanalato  tutte le sue forze nel raggiungimento delle più alte onorificenze sulla carriera, non era riuscito a costruirsi una famiglia.
Quello che aveva guadagnato come ricercatore, lo aveva perso come essere umano.
 
Rimuginandoci sopra, era giunto alla conclusione che vivere implicava fare delle scelte continue, drastiche; da uomo di scienza, non credeva al fatto che a guidarlo fosse una Mano Superiore, ma piuttosto la sua volontà.
Aveva disegnato lui stesso il suo destino, e quando era giunto il momento di tracciare il volto di una moglie e, perché no, di un figlio, si era accorto che l’inchiostro nella penna era terminato. Non aveva fatto in tempo.
 
Allora al professor Tomoe  faceva comodo pensare che in fondo, nessuno di noi poteva avere la vita che voleva. Chissà, magari il giornalaio da cui acquistava quotidianamente lo USA Today avrebbe voluto diventare un bravo avvocato e aggirarsi per la città fiero della sua borsa in pelle marrone da professionista.
Magari, la ragazza dall’aria sempre triste che prendeva sempre la sua metropolitana avrebbe desiderato affermarsi come pittrice, e non come una segretaria d’azienda. (Era sicuro fosse un’impiegata perché aveva sbirciato alcuni documenti che le fuoriuscivano dalla borsa).
 
“Forse un giorno  qualcosa sarebbe mutato per lui”, pensai, ritornando con la mente da dov’ero partita, all’aula C5.
Tomoe non avrebbe preso le briglie del suo Destino, questa volta. Avrebbe posato la penna, lasciando che il Caso giocasse le sue carte.
Se si fosse presentata un’occasione, una svolta, lui l’avrebbe colta. Non avrebbe fatto più rinunce, non si sarebbe più sacrificato come in passato. Mai più.
 
Scossi la testa, come per risvegliarmi da un sogno ad occhi aperti.
“Bunny, basta perdersi in questi viaggi mentali senza capo né coda. Che ore sono?”
 
Quel giorno tutta l’avvenenza del docente e le fantasticherie sul suo conto non bastavano a farmi interessare alla catalisi enzimatica;
ogni tre minuti guardavo l’orologio, sperando che una forza miracolosa avesse trascinato le lancette in avanti di qualche tacca in più.
Quando sarebbero arrivate le quattro?
 
L’insegnante tirò le tendine e spense la luce. Voleva mostrarci alcune proiezioni al computer.
Mi sforzai di fissare lo scienziato, tentando di rimanere attenta per almeno l’ultima parte dell’ora, ma la mia mente volò via ancora una volta, oltre i muri del Dipartimento di Biochimica, oltre i cancelli della Miami University.
Ben presto infatti il suo volto divenne un alone opalescente, dello stesso colore del pavimento.
Ora, quasi al buio, la piccola aula dalle pareti giallo canarino parve ingrandirsi, assumendo le sembianze di una sala cinematografica.
Nella penombra, le parole del docente risuonavano nella mia testa come echi deformati, rumori di sottofondo.
“Enzimi”, “acetilcolina”, “sintesi proteica.”
 
Sul proiettore si susseguivano filmati tridimensionali in cui lunghe molecole ramificate si legavano l’una con l’altra in un caotico valzer roteante.  
Atomi di carbonio, di idrogeno e azoto si rincorrevano da una parte all’altra dello schermo come biglie impazzite su un tavolo da biliardo, formando mulinelli confusi .
Notai la sagoma di Amy  china sul suo block notes, indaffaratissima nella foga di trascrivere ogni virgola dettata dal docente. La sua penna ondeggiava a destra e a sinistra, tracciando frenetici fiumi d’inchiostro sulla pagina.
Sprofondai sulla punta della sedia.
Di solito ero sempre seduta in prima fila; sulle ginocchia un librone dalle dimensioni enciclopediche, armata di carta, penna ed evidenziatore, i capelli raccolti a lato in una crocchia spettinata.
Quel giorno invece avevo scelto un posto in fondo, il più vicino possibile alla porta, in modo tale da sgattaiolare via il prima possibile senza farmi notare; magari avrei potuto approfittare del buio.
 
Inutile dirlo, mi sentivo in colpa per avere trascurato le lezioni, in quell’ultima settimana.
La Bunny Intransigentestava rimproverando fortemente la Bunny Ribelle per non aver compiuto il suo dovere, verso se stessa e, soprattutto, verso gli altri.
Ma avevo cose più importanti da fare. Dovevo aiutare Moran.
 
Spostai lo sguardo da Tomoe al vuoto. Il fascio luminoso proveniente dal riflettore mi ferì gli occhi, rivelando uno spesso strato di pulviscolo atmosferico.
Il professore si schiarì la voce, bevendo un sorso d’acqua. Poi riprese a parlare.
 
All’improvviso qualcosa vibrò sul banco. Un sms. Un suo sms. Il cuore iniziò a scalpitarmi nel petto.
“Ho avuto un imprevisto, posticipiamo di un’oretta. Ci vediamo alle cinque e mezza al parco. Di fronte al lago.”

Sospirai profondamente. Avrei dovuto aspettare altre due ore.
Oscillavo fra il sollievo per l’avvicinarsi del momento tanto atteso e il nervosismo nato dalla consapevolezza dell’importanza di quell’ appuntamento.
 
Avevo confidato ad Amy la mia volontà di confrontarmi con il mittente del messaggio una settimana prima, alla spiaggia. La mia amica non pensava fosse la mossa giusta scendere a compromessi con un tipo come lui.  
Avrei rischiato di rimanere invischiata  in una faccenda più grande di me.
 
Ma in fondo io c’ero già dentro fino al collo, mi dissi.
Una smania affannosa mi impediva di restare con le mani in mano: i problemi di Moran erano i miei.
Non potevo lasciarlo andare via così, a più di  1700 chilometri in linea d’aria, senza nemmeno tentare di trovare una soluzione alternativa alla sua partenza.
Forse non sarebbe stata la cosa più giusta da fare, forse non si sarebbe trattata della soluzione più corretta, ma era l’unico espediente che mi fosse venuto in mente.
Mi sarei addossata tutto ciò che la mia decisione comportava.
 
Insomma, dovevo fare qualcosa per Moran, e subito.
Se c’era una cosa, dico una, che detestavo più di me stessa era l’impotenza, quell’intorpidimento interiore che ti tiene le mani legate da un filo invisibile di rassegnazione. Che ti porta a vedere la tua vita scorrere, pulsare, attraverso una lastra di vetro.
Ma io, da brava paladina della legge, avrei spezzato quelle catene.  Avrei frantumato in mille pezzi quello specchio irrisorio.  
Avrei salvato Moran, e lui sarebbe stato fiero di me.
“Quanto sono melodrammatica”, mi dissi.
 
 Se il mio stratagemma non avesse funzionato, allora avrei parlato con mio padre.
In questo caso però non mi sarei trovata davanti al genitore comprensivo e disponibile di sempre, ma di fronte al Commissario George Tsuckino.
Lui non avrebbe fatto sconti a nessuno, neanche al migliore  amico di sua figlia.
 Si sarebbe agito secondo la prassi: deposta la denuncia per aggressione, la Polizia avrebbe indagato sull’eventuale rapporto che intercorreva fra Moran e i pusher responsabili dell’agguato.
E inevitabilmente, con Milena, sarebbero stati accusati di detenzione di stupefacenti, con tutte le conseguenze del caso.
Conoscevo la legge, e conoscevo  mio padre;
questa consapevolezza rafforzò la mia decisione: sarei ricorsa a questo piano solo in condizioni estreme.
 
Finalmente, il professore guardò il grande orologio a muro appeso alla parete. Le quattro in punto.
“E con questo concludo. Domani la lezione si svolgerà in aula D1, dalle dieci alle quattordici. Arrivederci.”
Scattai dalla sedia e uscii per prima dalla classe.
 Non volevo che Amy mi vedesse.
 
Chiusi la porta e mi diressi a passo spedito al Tamiami Park, un angolo verde nel grande campus di Coral Gable.
Adoravo quel posto; nel fine settimana ero solita  fare una passeggiata lungo il sentiero ghiaioso color perla che dall’entrata conduceva ad un delizioso laghetto contornato da un basso steccato.
Lasciata alle spalle Coral Way, svoltai a destra, e varcai i cancelli del parco.
Mi inoltrai nella brughiera. Attraversando una collinetta erbosa, pervasa da un intenso profumo di glicini e oleandri, si presentarono a me le nobili betulle che ingentilivano abitualmente il paesaggio con i loro delicati fusti longilinei. Da quel punto iniziai a scorgere lo scintillio della luce del sole, riflessa sulle acque limpide del laghetto.
 
Nella brezza del pomeriggio inoltrato, rumori di risatine e grida divertite popolarono l’aria di una nota di allegria.
Quel parco era la meta preferita anche di molti bambini, che dopo la scuola amavano lanciarsi a gran velocità sugli scivoli e sulle altalene, con grande apprensione delle mamme.
Tamiami Park aveva la capacità di farmi sentire protetta, in un’oasi di pace. Avrei potuto trascorrere giorni interi  su quel ponticello in legno coperto da un tettuccio rosso mattone, che si ergeva sopra il laghetto.
Riccioli d’edera e margherite di campo incorniciavano gli arbusti che immergevano le radici nelle acque cristalline dello stagno.
Sorrisi. Da piccola chiamavo quella piccola costruzione “la casetta sul lago”. Forse erano i miei ricordi a rendere così speciale Tamiami Park..   
 
Presa da queste memorie d’infanzia, mi sedetti su una panchina subito accanto al parco giochi. Mi piaceva osservare i bimbi scorrazzare da un albero all’altro, piangere per un nonnulla, litigare per fare pace un attimo dopo.
 
Guardai l’orologio.
 Lui sarebbe arrivato fra tre quarti d’ora.
Distesi le gambe. Ero un po’ nervosa.
Tirai fuori dalla borsa “I Passi dell’Amore”; ero arrivata all’incontro fra Landon e Jamie, al corso di teatro.
Riscontravo molte analogie fra me e la protagonista, ma allo stesso tempo avvertivo una profonda linea di demarcazione fra quello che era il mio carattere, impulsivo e senza fronzoli, e la riflessività, l’essere mistico di Jamie, che la vedeva spesso immersa nella lettura della Bibbia.
 
Gli eventi narrati nelle pagine del libro presero corpo davanti ai miei occhi, sul palcoscenico della mia mente.
 
Non so dire per quanto tempo rimasi lì, seduta sulla panchina. Totalmente rapita dalla trama, d’un tratto mi accorsi che con l’imbrunire il parco giochi era ormai deserto.
Dei ragazzini di poco tempo prima erano rimaste solo le impronte sulla sabbia e un cappellino celeste dimenticato su un ramo vicino allo scivolo.
Un’altalena ondeggiava cigolando, lentamente, avanti e indietro.
Mi ci sedetti sopra, pensosa.
Dovevo riflettere su come affrontare l’argomento quando lui sarebbe arrivato.
 Andare subito al sodo? Prendere tempo, giungendo al punto con circospezione?
La cosa non si stava rivelando così facile come avevo pensato.
“Dai, Bunny, pensa. Sforzati, su!”
Quel giorno non ero particolarmente ispirata.
Sbuffai rumorosamente. Non riuscivo né a farmi uno schema mentale per un discorso, né a  trovare le parole adatte.
 
All’ improvviso, un gemito sommesso, simile ad uno squittio, catturò la mia attenzione.  Proveniva da dietro.
Feci leva sulle punte e fermai l’altalena, dirigendomi verso alcune casette in miniatura di plastica leggera, alte circa un metro e sessanta, dal tettuccio rosso scarlatto.
Mi inginocchiai davanti ad una di esse.
Rumore di pianto.
“Papà…“
La vocina proruppe in un singulto disperato.
“Voglio il mio papà..”
Aprii delicatamente la porticina.
“Ciao, piccolina..”
Un frugoletto  di circa tre anni giaceva in un angolo, rannicchiata, con le ginocchia al petto.
“Come ti chiami?”
La bimba mi rivolse gli occhi rossi di pianto.
Per un momento rimase interdetta; evidentemente non sapeva se avesse potuto fidarsi di me.
 Affondò le scarpine rosse nella sabbia.
“Chibiusa.”
Doveva essere molto spaventata.
“Che bel nome! Chibiusa, dimmi, perchè piangi? Dove sono la tua mamma e il tuo papà?”
A queste parole la piccola iniziò a singhiozzare più forte.
“Non lo so!! Il mio papà.. Non lo trovo più!”
Evidentemente si era smarrita nel parco.
Presi un fazzolettino dalla borsa e le asciugai le guance intrise di lacrime, ravviandole la frangetta castana.
“Non ti preoccupare, stellina. Adesso ci sono io con te. Lo cercheremo insieme; vedrai che lo troveremo.”
Presi Chibiusa in braccio e la tirai fuori dalla casetta.
La piccola si aggrappò a me con tutta se stessa, affondando le sue guanciotte rosee nella mia spalla.
 Ebbi un tuffo al cuore.
 Quanta forza, quanto bisogno d’amore in quell’abbraccio.
Deja-vù.
Restai disorientata per una manciata di secondi.  Mi sembrava di averla già tenuta stretta stretta nel mio abbraccio, per un attimo, un’eternità di tempo prima.
Ignorando quella sensazione, cercai di capire dove Chibiusa si trovasse prima di smarrire suo padre.
“Dimmi, piccolina.. Cosa stavi facendo prima di perderti?”
La bimba aggrottò la fronte. Qualcosa sembrava sfuggirle.
“Io.. stavo giocando a nascondino con Victoria. Mi sono nascosta dentro la casetta. Quando sono uscita.. Papi non c’era più! E neanche Victoria!” Gli occhi le si riempirono di nuovo di lacrime.
Era ancora scossa, così decisi di tranquillizzarla, di metterla a suo agio.
E niente avrebbe funzionato meglio di un dolcetto.
“Facciamo così.” Sorrisi. “Tuo papa ti starà sicuramente cercando nei paraggi, quindi è meglio non allontanarsi troppo dalla zona. Noi daremo un’occhiata qui intorno. Cosa ne dici, intanto che aspettiamo,  ti va un bel cono?”
Un sorriso fece capolino sulle sue labbra.
“Sì, sì! Però tutto al cioccolato!”
“Perfetto! Andiamo, allora!”
Con la mia nuova amica in braccio, mi avviai verso il carretto dei gelati.
 
Un minuto dopo, eravamo sedute sulla panchina fianco a fianco, con in mano un cono gigantesco.
Approfittai dell’occasione per osservarla meglio. Indossava una salopette di jeans  e una maglietta rossa, in tinta con le scarpine.
I suoi capelli erano raccolti con due elastici a forma di coniglietto in due lunghi codini castani. Il suo non era un abbigliamento ricercato, ma notai comunque una grande cura nella scelta degli abitini e degli elastici colorati. I suoi genitori dovevano volerle molto bene.
Ad un tratto, la bimba si rese conto di non avere recepito un’informazione fondamentale.
Mi guardò curiosa, con due baffi di cacao agli angoli della bocca.
“E tu come ti chiami?”
“Mi chiamo Bunny.”
“Anche tu hai un bel nome. Invece il mio papà si chiama Marzio. E’ un poliziotto.”
Che coincidenza.
“Sai, Chibiusa..  Anche mio padre è un poliziotto. Fa il commissario della questura di Miami.”
“Il mio papi è proprio bravo. Ha due pistole. Fa così ai delinquenti: bum, bum, bum!!”
Imitò il gesto di uno sparo con la mano sinistra.
Le pulii le labbra color cioccolato. Era proprio adorabile.
“Bunny..?”
“Sì?”
“Che cosa vuol dire “delinquenti”? ”
Scoppiai a ridere.
“I delinquenti sono delle persone cattive, che non rispettano la legge. E tuo papà li porta in prigione.”
La capacità di sintesi era sempre stata una mia dote.
La bimba rimase un po’ perplessa; forse non le era ben chiaro il concetto di “rispettare la legge”.
Decise di cambiare argomento.
“E tu quanti anni hai, Bunny? Io ne ho..”
Fece un rapido conto con le dita.
“Tre!” esclamò, trionfante.
Non mi ero sbagliata di molto.
“Io ne ho ventuno.”
Stavo per chiederle di sua madre, visto che non ne aveva ancora fatto parola, quando la piccola si alzò di scatto.
“Papà!! Papà!! Che bello, è arrivato papà!!”
Attraversò a razzo il sentiero di assi in legno, incespicando per  due volte.
“Bunny, corri!! Mio papà è quello laggiù!!”
 
 
Focalizzai due figure maschili a cinquanta metri di distanza. Uno di loro era un po’ brizzolato, sui sessant’anni; più in lontananza invece scorsi un ragazzo moro,  ma non gli prestai attenzione.
Un po’ intimidita, seguii Chibiusa  verso l’entrata del parco.
Le persone adulte mi mettevano sempre un po’ in soggezione, così, mentre procedevo, cercai di assumere un atteggiamento da ragazza responsabile. Dopotutto dovevo giustificare  la mia presenza con la bambina.
 
Ma con mia enorme sorpresa, Chibiusa si diresse spedita verso il ragazzo.
Rimasi letteralmente di sasso.
“Papi!! Papi!!”
“Tesoro! Ti ho cercato dappertutto! Dove ti eri cacciata, piccola Chibi?”
Il ragazzo sollevò la bambina e la strinse forte, socchiudendo gli occhi.
 
“Era nel parco giochi, dentro una di quelle casette di plastica laggiù. Piacere, mi chiamo Bunny.”
Ancora un po’ sbalordita, gli porsi la mano per presentarmi.
Il ragazzo mi fissò  intontito, senza sciogliersi dall’abbraccio di quella che ormai avevo identificato come sua figlia.
“Papi.. Sta dicendo a te!”
“Oh, sì.. Certo.. Ciao. Piacere, Marzio.”
 
Un ragazzo come Marzio non sarebbe certo passato inosservato.
Il suo fisico asciutto, molto atletico, era messo in risalto da  una tuta da trekking su una canottiera aderente  dei Lakers.
Anche lui, come mio fratello, era un appassionato di baseball, dedussi.
Corti ciuffi color carbone gli scendevano leggermente sugli occhi, anch’essi profondi come la notte.
 
Avrei tanto voluto guardare quello che avevano scrutato quegli occhi così malinconici.
Immergendomi nel suo sguardo, vidi passare davanti a me troppo freddo, troppa pioggia, troppa sofferenza da poter spiegare.
Sarebbe stato in grado di distruggere qualsiasi corazza, con la sua espressione soave e magnetica allo stesso tempo; quando i miei occhi si persero nei suoi, mi sentii vibrare nel profondo, fino ai confini di me stessa.
L’ombra di tristezza che accompagnava anche il suo sorriso più dolce sparì però, quando abbracciò la piccola Chibi, come l’aveva chiamata lui. Nell’attimo in cui la strinse a sé tutta la desolazione in lui sembrò svanire, lasciando spazio ad una scintilla di luce nuova. Un attimo di serenità totale, completa.
Tutto quello di cui aveva bisogno si trovava fra le sue braccia.
 
Sentii il bisogno di rompere il silenzio che era seguìto alla presentazione.
“Ero seduta sulla panchina, quando l’ho sentita piangere dentro una casetta. Ho aperto il portoncino e l’ho trovata. ”
“Ho creduto fosse meglio non allontanarsi troppo dal parco giochi perché pensavo che tu avresti iniziato a cercarla proprio da lì, o almeno, nelle zone vicine. Così abbiamo preso un gelato e ti abbiamo aspettato qui.”
 
Marzio sorrise.
“Non so come ringraziarti, Bunny.
 Appena mi sono accorto che non era più con la sua amichetta, mi sono preso un bello spavento. Non so come mi si sia potuto distrarre.. Un attimo, e lei non c’era più.”
Intanto ci eravamo seduti sull’erba, sotto le fronde di una robusta quercia.
“ A volte capita anche a me. Soprattutto qui, al parco. Sarà l’atmosfera, sarà il fatto che sto attraversando un periodo un po’ burrascoso, ma.. spesso perdo la cognizione del tempo, mi alieno dalla realtà.”
Mi morsi la lingua. Perchè stavo raccontando i fatti miei ad uno sconosciuto? 
 Ma Marzio sembrò essere piacevolmente sorpreso da quella confidenza.   
“Questo è il posto che preferisco in tutta Miami. SouthBeachnon fa per me. Troppe luci, troppo  rumore.. non amo affatto la vita mondana.”
Posò lo sguardo su Chibiusa, ancora accoccolata fra le sue braccia.
“E poi il mio tesoro adora la natura. Vero, piccolina? ”
Chibiusa non rispose. Respirava profondamente, russando appena appena.
Marzio ridacchiò, abbassando il tono di voce..
“E’ già entrata nel sonno REM! Questa mattina si è svegliata molto presto.”
Le accarezzai la fronte.
“E’ una bimba adorabile, davvero. Siamo subito diventate amiche. E’ dolce e molto simpatica. Secondo me ti assomiglia tantissimo.”
“A dire la verità, più cresce, più assume i lineamenti di sua madre. E’ impressionante.”
“Deve essere una ragazza molto bella. Da quanto tempo state insieme?”
 
Per la prima volta quel giorno, lo vidi in difficoltà.
“Ecco.. non stiamo più insieme da due anni ormai. Ha abbandonato me e Chibiusa quando lei aveva appena tre mesi.”
Rimasi di stucco.
“Marzio, scusami.. Io.. io  non lo sapevo. Non volevo ricordarti un fatto così spiacevole. Fa’ come se non te lo avessi chiesto, ti prego.”
Ero profondamente dispiaciuta. Ora nei suoi occhi era ritornata la pioggia, il freddo, la sofferenza che l’abbraccio della piccola Chibi sembrava avesse spazzato via.
Marzio mi guardò con un sorriso triste.
“Sai, Bunny, io non ti conosco, ma mi sembra di sapere già tutto di te. Non fraintendere le mie parole, voglio solo dirti che qualcosa mi spinge a fidarmi di te. Vorrei rispondere alla tua domanda.”
Non lo interruppi.
“Ho conosciuto la madre di Chibiusa circa 4 anni fa, quando ancora vivevo a Key West.. Lei proveniva da una famiglia molto in vista della città, mentre io.. Beh, non ero quello che si sarebbe potuto definire un buon partito. I miei genitori si sono separati quando ancora ero molto piccolo, e hanno sempre fatto di tutto per togliermi di torno; né mia madre, né mio padre volevano prendermi con sé.  Così, a sedici anni ho deciso di andare a vivere da solo. Per mantenermi però ho dovuto fare cose di cui non vado affatto fiero. Ti dico solo che sono andato un paio di volte in riformatorio.”
Strinse ancora di più a sè Chibiusa.
“Poi ho incontrato Sydia. Il nostro non è mai stato un rapporto lineare. Vivevamo di alti e bassi, ma io sentivo di amarla. O almeno, di volerle molto bene. I suoi mi hanno reso la vita impossibile fin dall’inizio, Un giorno suo padre mi ha persino offerto trentamila dollari affinché la lasciassi. Io gli risposi che non era il denaro quello che mi interessava, e che i trentamila dollari poteva infilarseli gentilmente dove preferiva.
Poi tornai a casa, e trovai Sydia che piangeva sul letto
. Dopo un ritardo, aveva fatto il test di gravidanza, ed era risultato positivo. ”
 
Ero entrata in uno stato di trance. Non riuscivo a staccargli gli occhi di dosso.   
“Fui sconvolto dalla sua reazione”, proseguì. “Sapevo che non era il momento giusto per avere un bambino, sapevo che non sarebbe stato facile, ma in quel periodo ero uscito dal riformatorio, avevo abbandonato la vita che avevo condotto sino a quel momento.  Ero entrato in Polizia e le cose sembravano andare per il verso giusto. Ma non per lei e i suoi genitori. ”
“Un figlio avrebbe significato il mancato conseguimento della sua brillante carriera, l’avrebbe costretta a  rinunciare al futuro che i suoi avevano preparato per lei: sarebbero andati a monte gli studi  in Europa, gli stage, le feste esclusive per fare sfoggio della proprio successo. Sarebbe crollato il suo mondo.”
“Voleva abortire, Bunny.”
Silenzio.
“E tu.. tu come sei riuscito a farle cambiare idea?”
 
“Le dissi che come padre, avevo il diritto di decidere sulla vita della mia Chibi. Le dissi che dopo la gravidanza poteva anche andarsene se voleva. Non le avrei chiesto né soldi, né di partecipare all’educazione di sua figlia. Preferivo occuparmene da solo, anche se tutt’ora sono consapevole che a Chibiusa manca una figura femminile accanto a me.”
Avvampò di rabbia.
“ Ma, accidenti, che razza di insegnamento può dare una mamma ad una figlia che avrebbe preferito non venisse mai alla luce?”
 
Abbassai lo sguardo.
In quel momento Marzio mi sembrò più grande dei suoi 23 anni.
Anche se nei suoi occhi erano riemerse tutte le paure e preoccupazioni da ragazzo padre, vidi in lui tutta la sua umanità. Tutto il suo sacrificio. Tutta la sua infinita bontà.
Mi avvicinai al suo viso, prendendogli le mani.
“Essere genitori significa mettere il proprio figlio al centro dell’universo; significa mettere  da parte se stessi  per realizzare qualcosa di più grande.”
Guardai la piccola.
“E tu lo stai facendo meravigliosamente, Marzio. Chibiusa ti ammira moltissimo.  Non potrebbe avere un padre migliore di te.”
Ora anche Marzio mi guardava negli occhi. La distanza fra di noi si ridusse alla bimba che gli riposava in braccio.
 In un attimo, tutto era scomparso. La panchina, la quercia, il lago, Tamiami Park, Miami, la Florida, l’universo.
Eravamo io, Lui e la piccola Chibi.
Eravamo noi.
Insieme.
 
“Bunny, scusa per il ritardo. Ti avevo mandato un sms. Ah, ma vedo che hai trovato compagnia... Ciao, Marzio.”
Seiya ruppe la magia di quell’incantesimo, con l’odore acre della sigaretta che aveva in bocca.
Squadrò Marzio con aria di sfida. Il padre di Chibiusa si gelò all’istante.
“Ciao, Seiya. Da quanto tempo..”
   
 
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