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Autore: Tahoe    18/04/2011    0 recensioni
Per quelli che non lo conoscono ancora Tahoe e' un romanzo tra il fantasy il romance e il paranormal. Provate a leggere e ditemi che ne pensate! ciao
A tutti gli altri dico: Scusate!!! Ho erroneamente cancellato tutti i capitoli. Provo a reinserirli. :)
Genere: Avventura | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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 "CI SONO STORIE CHE QUANDO LE RACCONTI SI CONSUMANO. ALTRE, INVECE, CONSUMANO TE."
(Chuc Palahniuk)

E' vero, maledettamente vero!
Ci sono storie che rimangono incollate addosso fino a consumarti l'anima: storie insolite, inverosimili e rare che ti stravolgono i sensi alterando la percezione del mondo.
Sogni? Fantasie? Allucinazioni?
Talvolta vorresti non averle mai vissute, altre non puoi neppure immaginare cosa sarebbe stata la tua vita senza.
Il mio nome e' Camilla e questa e' la mia storia...

Me ne stavo seduta in disparte, anche se in aereo questa può essere solo una condizione mentale più che fisica, assediata da una variegata moltitudine di ragazzi che si godevano spensierati il viaggio.

Quella sarebbe stata la più grande avventura della nostra vita, ed io mi sentivo come una mosca bianca, l’unica nota stonata in quella sinfonia di entusiasmi adolescenziali. Io stessa mi stupivo della mia scarsa partecipazione emotiva.

Quell’onda di euforia dilagante mi infastidiva, mi distoglieva dalla mia anima, dalla mia parte più intima; mentre l’unica compagnia di cui sentivo davvero il bisogno, era la mia.

Tante erano le cose accadute negli ultimi mesi, tanti i cambiamenti nella mia giovane vita. Tutto il mio mondo si era sgretolato dopo la morte della mamma. Era stato un colpo durissimo, un’implosione devastante che aveva sconvolto il mio piccolo microcosmo, polverizzando la mia serena quotidianità. Niente sarebbe mai stato come prima, ne ero certa, ma in qualche modo la malattia, la sofferenza, il senso di assoluta impotenza che avevo provato in quegli ultimi mesi, mi avevano insegnato molto. Mi avevano cambiata molto.

Le difficoltà aiutano a crescere, era una frase fatta, un concetto banale, tramandato con sufficienza e assorbito con noncuranza. Tutti lo sanno, tutti lo hanno detto o se lo sono sentiti dire almeno una volta nella vita, ma solo quando lo provi sulla tua pelle ne capisci veramente il senso.

Ed io, quel senso, lo avevo davvero capito.

Ero diventata più forte, più matura, più corazzata nei confronti delle avversità della vita. In poche parole mi sentivo più grande e percepivo nettamente questa virtuale differenza anagrafica che mi distingueva dai miei coetanei.

 

Mi trovavo su un volo Alitalia diretto a NY per trascorrere un anno con una famiglia che ancora non conoscevo. Partecipavo ad un programma di scambi culturali. Mi ero lasciata alle spalle quell’ultimo anno di dolori, sperando che la distanza chilometrica e un oceano intero, potessero aiutarmi, se non a dimenticare, almeno ad alleviare la sofferenza nel mio cuore. Sentivo il bisogno di ritrovarmi, di ricostruire una nuova esistenza, ma era ancora troppo presto per concedere ad altri di entrarne a far parte.

Tutti quei ragazzi partecipavano al mio stesso programma; per molti di loro quel viaggio rappresentava un’occasione unica, l’opportunità di sperimentare una nuova cultura e soprattutto di imparare una nuova lingua.

Io ero sicuramente una privilegiata, l’inglese lo parlavo perfettamente. Mia madre era americana: alta, bionda e bellissima, seguiva fedelmente il migliore degli stereotipi della californiana media. Non le assomigliavo affatto, non avevo beneficiato dei suoi cromosomi perfetti, ma da quando ero nata quella lingua era stata il nostro mezzo di comunicazione. L’inglese era a tutti gli effetti la mia “lingua-madre”. Ero nata e cresciuta in Italia, la mia patria, ma mi sentivo madrelingua inglese, non solo perché ero fluente in inglese quanto in italiano, malgrado avessi frequentato sempre scuole italianissime, ma soprattutto perché quella era la lingua di mia madre. C’erano significati intrinseci che andavano oltre la mera definizione della parola. Avevo tutto un mondo di ricordi, melodiose canzoni e ninnananne sussurrate, che il mio cuore non poteva tradurre in nessun’altra lingua.

In parte, se avevo preso la decisione di passare un anno negli Stati Uniti, lo dovevo a lei. Quel viaggio era il pretesto per rafforzare, almeno psicologicamente, quel legame che si era tragicamente spezzato la primavera passata.

Mio padre, Luca, mi aveva accompagnata all’aeroporto come tutti gli altri genitori. Io ero uguale a lui, gli somigliavo in modo inquietante. Tutte le volte che lo guardavo non potevo fare a meno di sentirmi il suo clone femminile. Stessi capelli castani e ricci, stessa carnagione olivastra, stesso carattere introverso. Mi distinguevo da lui solo per il colore degli occhi. I suoi erano nerissimi, i miei verdi; il risultato di un giusto compromesso con quegli azzurri della mamma. Era un uomo di grande statura, sia fisica che morale, un uomo giusto, onesto, con uno spiccato senso del dovere. Era sempre stato un tipo allegro, ma le ultime vicende avevano inevitabilmente intristito anche lui. Eravamo partiti da Firenze con la macchina della mamma, una FIAT Multipla rossa metallizzata, alle prime luci dell’alba. A quella macchina erano legati mille ricordi: viaggi, conversazioni, istanti di vita familiare impressi a fuoco nella mia mente. Il profumo della mamma, ancora persistente nel tessuto dei sedili, ci aveva accompagnato per tutto il tragitto in autostrada.

L’aeroporto di Fiumicino era gremito, un centinaio di persone, genitori figli e parenti vari, si erano radunate per i saluti di rito. Tra fiumi di lacrime e abbracci strazianti, assistemmo increduli a vere e proprie crisi d’abbandono. Incrociai lo sguardo di mio padre, era così estraneo a quella situazione. Per noi, che avevamo condiviso l’esperienza del vero, unico, ineluttabile e definitivo addio, quella scena sembrava quasi una farsa.

Così, mentre all’aeroporto di Fiumicino si consumava questo dramma di separazione familiare multiplo, avevo salutato mio padre con una insolita compostezza.

«Ciao papà! Ti chiamo quando arriviamo a New York.» gli avevo detto con un veloce abbraccio e due anonimi baci sulle guance.

«Anzi, è meglio se ti chiamo quando ci sistemano in albergo, forse avrò più tempo libero».

«Va bene Camilla, ma non sparire dalla circolazione, okay?» Mi aveva accarezzato i capelli con la mano e mi aveva sorriso con dolcezza. Eravamo rimasti a guardarci intensamente per qualche istante, e poi via, ognuno in cerca del proprio futuro.

Quello era stato il nostro breve addio; ma adesso, rannicchiata sul mio seggiolino, quel ricordo mi faceva un po’ male al cuore. Non lo avrei più rivisto per quasi un anno, forse avrei dovuto essere più affettuosa, pensai, dirgli che gli volevo bene e che non lo avrei mai lasciato solo con il suo dolore; ma nel mio cuore sapevo che erano parole inutili. Mio padre mi conosceva bene, aveva compreso i motivi della mia scelta, ne ero sicura.

«Hey Camilla tu cosa ti sei portata di speciale da casa?» esclamò Lavinia che mi stava seduta accanto, interrompendo il fiume di pensieri che si susseguivano nella mia mente.

Lavinia era la mia migliore amica dai tempi delle elementari. Eravamo inseparabili. Era alta e magra, con due gambe lunghissime che metteva sempre in evidenza sfoggiando pantaloni aderenti. Era la voglia di vivere fatta persona.

Mi spostai gli occhiali da sole sulla testa, usandoli per contenere quella massa di riccioli indomabili che da sempre rappresentavano il mio orgoglio e il mio tormento.

«Beh ... non saprei. Credo niente di particolare, insomma ... le solite cose: foto e canzoni che ho salvato sul mio ipod … qualche regalo che mi hanno fatto i miei compagni di classe … il mio diario ...» feci una pausa cercando di trovare qualcosa che potesse colpire la curiosità di Lavinia, ma lei mi bloccò con repentinità.

«Ma lo sai che quel tipo tre file dietro a noi si è portato un pacco di registrazioni della fidanzata? Non è romantico? E vedessi quant’è bello lui!!»

Girai appena la testa fingendo un qualche interesse per visualizzare il tipo descritto con tanto entusiasmo da Lavinia. Non volevo abbandonare la mia posizione indolente sul seggiolino dell’aereo, riuscii appena ad intravedere una nuvola di capelli castani chiari e un po’ arruffati, che spuntavano dallo schienale del ragazzo seduto dietro di me.

«Lo sai che non mi piacciono i tipi slavati!» le dissi tornando alla mia posizione. «Sarà l’uomo più romantico del mondo, ma non è il mio tipo!»

Lavinia sbuffò contrariata. «Ma se non l’hai neppure visto?»

«Beh ho visto quel che basta per dire che non è il mio tipo.» replicai risoluta.

«Okay, okay, ho capito. Non hai voglia di fare conversazione.» mi rispose con rassegnazione.

Mi piantai le cuffie dentro le orecchie, alzando il volume della musica. Cercai di rannicchiarmi sul sedile dell’aereo, tuffandomi in quella immaginaria bolla d’aria che mi permetteva di estraniarmi da tutto e da tutti, e mi lasciai trasportare dalla musica in una nuova dimensione.

 

«Camilla!» Lavinia aveva preso a scuotermi il braccio destro in modo compulsivo, cercando di catturare la mia attenzione.

«Camilla! Camilla!»

«Sì? Che succede?» aprii gli occhi e mi sistemai in posizione di ascolto. «Che c’è?» le chiesi sbuffando.

«Non ti avrò mica svegliata?» si affrettò a chiedermi con tono colpevole per poi continuare stizzita, «Del resto dietro a quegli occhiali specchiati, che non ti levi mai di dosso, non si capisce se dormi o sei sveglia! E falli vedere quegli occhioni verdi!»

Gli occhiali a specchio, ormai da mesi, erano diventati un must del mio look dark , non riuscivo più a separarmene.

«No, non ti preoccupare.» aggiunsi inspirando una quantità d’aria che lasciava pochi dubbi sul mio improvviso risveglio. «Stavo solo riposando.»

«Sono entrata in chat con qualcuno sull’aereo che mi sta chiedendo informazioni su di te.» disse tutto d’un fiato con un tono così basso che sembrava stesse parlando in un confessionale.

«Che faccio?» mi guardò impaziente. «Ho il tuo permesso? Posso rispondergli?»

Mi avvicinai a Lavinia allungando il collo per leggere sul suo monitor e lei mi assecondò scostandosi leggermente per lasciarmi spazio. Sul monitor lampeggiava una scritta:

 

COME SI CHIAMA LA TUA AMICA RICCIOLONA?

PERCHE’ NON RIDE MAI?

NON LE SARA’ MICA MORTO IL GATTO?

 

«Ma chi cavolo è questo cretino?» sbottai furiosa completamente destata dal mio torpore. «Fammi vedere…come si firma …» mi riavvicinai al monitor di Lavinia. «LN92? E chi è?» Il mio umore era definitivamente guastato. Lavinia, accortasene, decise di non insistere con la storia della chat.

«Lascia fare Cami! Sarà qualcuno del nostro gruppo che vuole fare il simpatico!» poi, nel goffo tentativo di glissare, propose euforica: «Facciamo una battaglia navale?»

«Magari dopo. Scusami, ma voglio ascoltare della musica.» Mi abbandonai sul seggiolino e mi chiusi al resto del mondo abbassando gli impenetrabili occhiali da sole.

Quando mi ridestai fu solo per la voce della hostess: «Lasagna o risotto agli asparagi?» mi chiese con voce melodiosa.

«Risotto, grazie!» risposi ricomponendomi ancora una volta per consentire l’apertura del tavolino da pranzo.

Il computer di bordo sul quale era sintonizzato il mio monitor mostrava il piccolo aereo lampeggiante ormai in prossimità degli Stati Uniti. Improvvisamente mi si chiuse lo stomaco.

   
 
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