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Autore: Natalja_Aljona    20/04/2011    1 recensioni
Natal'ja vende fiammiferi e sogna la Rivoluzione.
Siberiana fin nelle ossa e nel sangue, nel cuore e nell'anima, nipote di uno dei capi dei Decabristi ed ultima erede della famiglia russa più temuta dallo zar, è quasi impazzita in prigione ma sa che non è finita.
Geórgos vive per la guerra e per il cielo di Sparta.
Nato durante la Guerra d'Indipendenza Greca e nipote del capo dei Kléftes, i briganti e i partigiani del Peloponneso, ogni notte spara alle stelle perché ha un conto in sospeso con gli Dei.
Feri è uno zingaro ungherese, il terzogenito di Kolnay Desztor, il criminale del secolo, e il più coraggioso dei suoi fratelli.
Legge il destino tra le linee della mano, e tre anni di galera e lavori forzati non sono bastati a fargli smettere di credere nel suo.
Nikolaj, ussaro polacco e pianista mancato, crede di aver perso tutto.
Sa che l'epilessia, i complessi d'inferiorità nei confronti del padre morto, l'ossessione per sua cugina e i suoi sogni infranti lo uccideranno, ma la sua morte vuole deciderla lui, e a ventidue anni s'impicca per disperazione e per vendetta.
Genere: Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Storico
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Diciotto - Nessuno ti fermerà


A noi la giustizia ci passò vicino

(La Corte dei Miracoli, Riccardo Cocciante)


I suoi occhi guardavano le manette, assorti.

I suoi pensieri correvano ai soldati che l'avevano portato lì, all'uomo dal cappuccio nero che aveva ferito Natal'ja.

Infami.

In quel momento la odiava, l'aria fredda di Liverpool.

George sapeva che li avrebbe rivisti, un giorno.

La lama del suo xiphos avrebbe carezzato le loro gole.

Infami.

Infami per gli aver chiuso la sua libertà tra due cerchi di metallo senz'anima.

Infami per avergli strappato lei.


-Già tornato, Gee?-

Era simpatico, Kajal Demidoff, il carceriere poliglotta.

Con lui poteva parlare in greco liberamente, senza che nessuno lo guardasse male.

Era gentile, diversamente da alcuni carcerieri greci, ma quella sera era lui, che non poteva essere gentile con un carceriere.

Ugualmente gli strinse la mano, in segno di quell'amicizia disperata che accompagnava gli sventurati inquilini di quella triste locanda nei loro ultimi giorni.

Ne aveva visti tanti, lui, di uomini così, che entravano con un sorriso sfrontato e incurante, forse per guadagnarsi quegli ultimi minuti di scellerato coraggio prima della fine, e il mattino dopo, all'alba, quando nessuno vedeva, uscivano con una corda al collo e bollenti lacrime di coccodrillo, un ghigno di scherno per affrontare il boia e un terrore grande e implacabile che spezzava il cuore.

Suo nonno lo portava spesso a vedere le esecuzioni, la fine di briganti ed eroi, senza distinzione, ed ogni volta sgranava gli occhi davanti agli insulti e agli incitamenti degli spettatori, alle lacrime e alla disperazione dei familiari del condannato, intere vite messa sotto i piedi dai capricci dei potenti.

Doveva pur esserci un altro modo per punire le ingiustizie.

Doveva esserci e, ne era sicuro, se non avesse subito la stessa sorte di quei disgraziati, l'avrebbe trovato lui stesso.

E ancora rimembrava le parole di Leonida, insegnamenti che non avrebbe mai dimenticato.

-Noi siamo briganti, Geórgos. Ricordalo sempre: in questa vita avrai due grandi nemici, ed entrambi, sia con la forza che con l'astuzia, li dovrai calpestare. I Turchi Ottomani e i cosiddetti "Signori della Giustizia". Giustizia, bella parola, per omuncoli ben più ipocriti e vili di noi. Fallo e vivrai, credimi. Fallo e vedrai la luce, vedrai la prateria. Sii gladatiore per i tuoi diritti, anche per quelli che ti sei arrogato da solo. Prenditi quello che vuoi, ma senza essere avido. Fallo e nessuno ti fermerà-


"Prenditi quello che vuoi".

-Io vorrei...vorrei lei-

"Nessuno ti fermerà".

Magari.


Kajal lo trattenne per un braccio.

-Gee, io non lo so perché sei qui. Me lo sono chiesto, sai? Non sei cattivo. Hai sbagliato, sbagli e continuerai a sbagliare, credendo nei tuoi errori come nella tua Giustizia, e le ripercussioni saranno violentissime. Eppure non sei cattivo. Hai quindici anni, in fondo. Io ne ho visti, di ragazzi come te, salutare i sedici appesi a una forca. Adesso guardami, Gee. Vuoi gettarli al vento anche tu?-

-C'è una donna, lì fuori. Una donna che in realtà è una bambina, una bambina che mi vuole bene. Una bambina, un'anima per cui dilanierei i corpi degli stolti che per portarmi qui hanno fatto male anche a lei-

George socchiuse gli occhi, portandosi una mano al cuore.

-Dio, se solo fossi un eroe, uno di quelli le cui ossa valgono qualcosa, per poterla amare fino a vedere il mio cuore, disciolto in sangue, colare sulle pietre, e infine morire ai suoi piedi!-

Kajal rise di gusto.

-Buon Zeus, che sentimentale!-

-Non è una questione di sentimento. E' avere dentro qualcosa che massacrerebbe quegli infami che mi hanno rinchiuso qui, uno dopo l'altro, come mosche. Qualcosa di caldo, come il sangue, che va alla testa e non fa ragionare più. E' avere quindici anni e non poterli avere, perché c'è una forca, lì fuori, che li vuole dare in pasto all'humus marcio d'un cimitero-

-Coraggio, giovane uomo. Scaccia questi brutti pensieri e parlami della tua bella-

Il sorriso era tornato sul suo volto, a quelle parole. Gli occhi lucidi, scintillanti, sognanti.

-Amico, i suoi sono gli occhi di Arianna, braci inarrestabili, affamati di libertà. Se tu sapessi la luce che vi brilla...io ci ho perso la vista, con quella luce- George fece una pausa, sorrise -Con questo non sto cercando di giustificare la mia naturale miopia, per quanto mia madre sostenga che non sbattessi così spesso contro gli alberi, prima d'incontrare lei. Sai cosa dicevano al mio passaggio le ragazze di Sparta? "Ecco Geórgos, bello come il sole e cieco come una talpa". Eppure ti assicuro che lei è bella, bella come un fulmine, che prima stordisce e poi uccide. Fa ridere, già. Ho visto la Guerra e tremo per biondi capelli e occhi di cenere arsa. Conosci la storia di Saulo, Kajal? Coraggio, dimmi che esagero. Poi corri fuori e guardala affacciarsi alla finestra. Guardala e dimmi se non pare Afrodite armata, soave e selvaggia, splendida e feroce-

-Ecco perché mi sei simpatico. Mi piaci perché sei un ragazzino, l'amore ti brucia, il volto dell'amata ti sembra un'estasi e poi...vedi tutto bianco, con qualche macchia di sangue sullo sfondo. Vivi di felicità folgoranti e brevissime, sei come Icaro, come Achille. Sei un bravo ragazzo, lo sei alla faccia di quelli che ti chiamano delinquente-

George gli rivolse un breve sorriso.

-Sarà-

Poi si girò verso i suoi compagni di cella.

Appena arrivato in carcere, era stato salutato con larghi ghigni sdentati e pacche sulle spalle, aveva sorriso all'indirizzo di altri mille "Già tornato, Gee?" e addirittura qualche "Bentornato".

Chiuse gli occhi.

Alla fine era anche lui come gli altri, pronto a sfoggiare quel sorriso idiota fino a quando la forca non gliel'avrebbe strappato.

E se adesso erano saluti e pacche sulle spalle, presto sarebbero state lacrime, sangue e battiti mancati.


Da sognare in quelle ultime notti al gelo, non gli rimaneva che lei.

George temeva quella ragazzina sardonica e vivace, di un'irriverenza smodata e recidiva, la temeva perchè era evidente che fosse nata per vincere, proprio come lui era incapace di perdere.

Aveva letto, nei feuilleton che gli capitava di rubare per sua nonna -il brigantaggio era una tradizione di famiglia- di criminali redenti dopo un dolce bacio con una soave fanciulla, e di principi senza arte né parte sprecare una vita a dormire sotto torri infestate da principesse a cui sarebbe stato felice di sparare a sangue freddo.

Del resto, lui era capace di recitare brani dell'Iliade ad occhi chiusi, con un gomito piantato nella milza di una sventurata fanciulla, per poi accorgersi che il bel visino di quest'ultima era stato sostituito dallo strafottente sorriso a ventinove denti di suo nonno, l'unico che pareva apprezzare la sua idea di "romanticismo".

Lei l'aveva incontrata un pomeriggio che era quasi sera, con il chiarore dei cirri rosati che stavano già sfociando nelle nubi accese dell'imbrunire, l'aria che già si faceva gelida e tagliente come una lancia d'ossidiana.

Aveva tredici anni ed era arrivato dalla Grecia esausto, praticamente svenuto sull'ingresso di casa, sfinito dalle tensioni che, suo malgrado, lo vedevano protagonista a Sparta.

Tensioni prettamente femminili, nelle quali non avrebbe voluto neanche mettere il naso.

Tre donne belle quanto vanitose, che non avevano trovato niente di meglio da fare, in un pomeriggio d'estate, di riproporre il Giudizio di Paride in versione ottocentesca - e possibilmente ancorra più spettacolare e catastrofica della prima.

Anasthàsja, Cynthia e Talia.

Rispettivamente sua madre, sua sorella e sua nonna.

Era davvero necessario che fosse lui il giudice di tale scempio?

Evidentemente sì.

La sera stessa, Leonida si era presentato davanti al suo giaciglio, sotto le lucenti stelle di Spárti con un sorriso tutt'altro che amichevole.

D'altra parte Leonida, così come Talia, non era mai stato un vero nonno.

Aveva quarantacinque anni, ventisei arresti e due processi alle spalle, processi dal quale era stato scagionato solo grazie all'intervento dell'intera Banda, che in sua assenza era guidata da Dekapolites.

Era considerato la furia di Spárti, un uomo dalla grinta feroce e implacabile, l'ira di Achille in persona.

Pareva un dio guerriero, talvolta, una fiera imbizzarrita pronta a sfoderare denti e unghie letali, un Aiace moderno, il gigante, la rocca dei Kléftes.

In un attimo l'aveva messo al muro, puntandogli lo xiphos alla gola.

"Tu sai chi deve vincere, moccioso. Non credermi tuo amico giusto perché sei mio nipote. La stima di Leonida Zemekis, proprio come Dekapolites, Theodorakis e tutti gli altri, te la devi conquistare. Per adesso non vali che poco più di niente, e se entro il nuovo dì non avrai consegnato la mela a mia moglie, sarai un uomo morto".

Testuali parole, e George sentiva ancora il sangue scorrergli al contrario nelle vene, al ricordo.

Avere la stima di suo nonno era ancora tra le sue più grandi ambizioni.

Per quanto ne sapeva lui, il cuore di Talia Azvalakos era stato anelato fino ai confini dell'Asia Minore.

Era bella, davvero bella, con quei suoi capelli ricci e gli occhi chiari, aveva un portamento fiero e leonino, e dei quarantun anni che aveva non ne dimostrava nemmeno la metà.

Anche sua madre era bella, con i capelli rossi e gli occhi blu, sebbene lui avesse preso tutto da suo padre.

Sua sorella si limitava a guardarlo. Non aveva uomini disposti ad uccidere per lei -quell'uomo avrebbe dovuto essere lui- ma aveva due occhi grandi e pronti al pianto, con i quali sperava di suggestionare il fratello.

Era bella anche lei, e George davvero non riusciva a capire come mai, quando molti dei suoi amici avevano sorelle, madri e nonne veramente orribili, a lui fossero dovute capitare tre autentiche bellezze.

Doveva dipendere da Leonida, il capostipite degli Zemekis, il quale era profondamente convinto che gli uomini della sua famiglia discendessero dal grande Lisandro e le donne nientemeno che dalla bellissima Elena.

D'altra parte, anche lui, nonostante l'altezza piuttosto discutibile, la miopia discretamente accentuata e le orecchie lievemente a sventola, era indubbiamente un bellissimo ragazzo.

La cosiddetta "mela della discordia" -benché non fosse altro che un frutto mezzo marcio rubato da Leonida al mercato- era oltremodo importante per tutte e tre.

George non avrebbe mai voluto spezzare il cuore di sua madre, né essere la causa delle lacrime di sua sorella, né tantomeno beccarsi un pugno in un occhio da suo nonno -anche se, a pensarci bene, il pugno gliel'avrebbe potuto dare benissimo anche Talia, senza alcun intervento da parte di Leonida-.

Possibile che fossero tutte e tre così irrimediabilmente vanitose?


Guardando Talia, aveva ricordato le innumerevoli volte in cui la donna l'aveva trattenuto per un braccio, sulla soglia di casa, sussurrandogli premurosamente: "Stai molto attento, Geórgos. Potresti incontrare gente perbene", aveva ricordato i pomeriggi passati in punizione, a lucidare le monete della refurtiva del nonno, mentre lei gli accarezzava i capelli nel tentativo di consolarlo.

Guardando Anasthàsja, aveva risentito sulla lingua il sapore dello yogurt greco che la madre gli preparava, i giorni in cui gli occhi gli brillavano come dracme e lei rideva, paragonandolo a questo o a quell'eroe omerico, seppur aggiungendo che nessuno di essi, ne era sicura, mangiava quanto lui.

Guardando Cynthia, aveva rivisto i momenti in cui si rincorrevano tra le rovine di Micene, le mattine assolate in cui recitavano brani dell'Iliade sulla spiaggia di Delo, mischiando l'acqua all'ouzo che Leonida e Dekapolites nascondevano tra gli scogli.

Gli infiniti giorni passati con la sua famiglia nelle zone più selvagge di Spárti, i giorni in cui era stato fiero di essere un brigante, orgoglioso di essere uno Zemekis, un irrecuperabile scavezzacollo, come tutte e tre le donne lo chiamavano.

Ci pensava e non sapeva chi scegliere.

Non sapeva chi scegliere, perchè sia Talia, sia Anasthàsja sia Cynthia custodivano un frammento inestimabile del suo cuore.

Doveva parlare con suo padre.


Era arrivato a Liverpool e l'aveva vista, la fiammiferaia di Penny Lane, seduta sul muretto con i suoi fiammiferi, il sorriso sulle labbra e il libro in grembo.

L'aveva guardato e il libro era caduto ai suoi piedi.

Le sue mani tremavano, non era riuscito a capire se per il freddo o per lui, ma, inspiegabilmente la speranza che il motivo fosse il secondo gli faceva battere il cuore.

I suoi occhi erano corsi a un volantino affisso poco lontano.

Il ricordo di lui che aveva lasciato agli Inglesi, durante la sua ultima permanenza a Liverpool.

Era tornata a guardarlo e lui aveva scosso la testa, stupidamente, come a dire che non era lui, quello del volantino, quello che avrebbe fatto diventare ricco chiunque l'avesse consegnato nelle mani della Legge.

Quello che tra l'altro era stato pure dipinto male, con le orecchie ancora più a sventola che nella realtà e il naso adunco come il becco di una cornacchia.

Ad un tratto, era scoppiata a ridere.

Gli aveva sorriso.


Lui le si era seduto accanto, senza parlare, guardando prima il volantino -quanto lo avevano disegnato male- poi lei -che fortunatamente aveva visto l'originale prima del disegno-.

D'improvviso, aveva infilato una mano in tasca e ne aveva estratto una mela.

Quella mela.

Gliel'aveva offerta.

Al diavolo Talia e Leonida, al diavolo Anasthàsja, Cynthia e i loro capricci da dee incontentabili.


Aveva comunque parlato con suo padre, che allora era ancora un semplice marinaio inglese innamorato della Grecia.

Avevano parlato davanti a un'abbondante tazza di thé verde -e dire che lui detestava il thé, soprattutto se di colori diversi di quelli a cui era abituato-, avevano parlato di ragazze e della maledetta voglia di stringere quella ragazza, di strapparla da quel muretto e di bruciare il volantino con la sua taglia, di sorriderle e regalarle tutte le mele del mondo.

Suo padre gli aveva detto: "Con tua madre, è così che mi sentivo".

Gli aveva risposto: "Papà, io la sposo".

Gli era stato raccomandato: "Non avere fretta, Gee", da lui come da troppa gente, in tutti quei giorni.

Il suo amore era destinato ad andare di fretta, non c'era niente da fare.


Scacciando quelle malinconie troppo intense per essere sopportate, George si rivolse ai suoi compagni di cella, due uomini che non aveva mai visto prima.

-George- si presentò, tendendo la mano verso il più vicino dei due, di media altezza, con due folti baffi neri e lo sguardo fiero.

-Bartholomew- egli rispose, per poi indicare il suo compagno -Nicholas-

-Giatí eísai edó?- domandò allora George, per poi correggersi subito dopo -Why are you here?-

-Revolutionaries- si limitò a rispondere Bartholomew, con una nota di rammarico nella voce.

-Egó̱...- sorridendo, George ricordò le parole di Natal'ja -Too-

Uno sguardo. Bastò uno sguardo.

Non sarebbero stati compagni di cella ancora a lungo, George e quei due.



Io non augurerei a un cane o a un serpente, alla più bassa e disgraziata creatura della Terra - non augurerei a nessuna di queste ciò che ho dovuto soffrire per cose di cui non sono colpevole.

(Bartolomeo Vanzetti)


E credi di poter cambiare il mondo, anche se vali poco più di niente, anche se sei una bambina.

Ci credi e poi finisci a piangere sulla tomba di un ragazzo che sarebbe diventato un eroe, se solo la forca non gli avesse strappato quei suoi meravigliosi quindici anni.

Lui profumava di tutti i tuoi sogni, e il tuo sogno...era lui.



Per il bastardo che sta sempre al sole

Per il vigliacco che nasconde il cuore

Per la nostra memoria gettata al vento

Da questi signori del dolore

(Chiamami ancora amore, Roberto Vecchioni)


Album Personaggi - Sic Volvere Parcas

Note


Ouzo: Liquore tipico greco.

Giatí eísai edó? (greco): Perché siete qui?

Cynthia, il nome della sorella di George, è uno degli epiteti della dea greca della caccia e della luna, Artemide.

Talia, invece, è il nome di una delle tre Grazie (la Prosperità), oltre che della musa della Commedia.

Di Anasthàsja, madre di George, si parlerà più avanti ;)


Allora.

La tragedia infuria, e le ultime righe del capitolo, lo riconosco, sono particolarmente ambigue.

Ho deciso di amalgamare il “Giudizio di Paride” e il primo incontro di George e Natal'ja per rendere meno pesante la drammaticità degli avvenimenti e anche perchè, è più forte di me, non riesco a rinunciare all'ironia nemmeno in situazioni come queste ;)

E' chiaro, inoltre, che i personaggi di Nicholas e Bartholomew sono un esplicito omaggio a Nicola Sacco e Bartolomeo Vanzetti(citato anche tra le ultime righe), due uomini che, sin dal primo momento in cui ho conosciuto la loro storia, mi hanno profondamente colpito.

Quindi, ho preso una decisione.

In questa storia, anche Nicola and Bart -per il poco che posso fare- avranno la loro rivincita ;)


Augurandomi che il capitolo sia stato di vostro gradimento, vi saluto ;)


A presto!

Marty

  
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