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Autore: piccolalettrice    24/04/2011    10 recensioni
"...Lo fissai sbalordito. Se diceva la verità eravamo in pericolo. Se diceva la verità allora tutti i miei attacchi erano colpa sua. Se diceva la verità Talia aveva fatto bene a fare quello che aveva fatto. Se diceva la verità voleva dire che eravamo stati traditi di nuovo. Se diceva la verità tutte le cose successe negli ultimi tempi avevano trovato un’unica spiegazione: lui."
Genere: Generale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Quasi tutti
Note: Otherverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Solo intuendo'
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SPAZIO AUTRICE:
eccomi qui...
premetto dicendo che questo capitolo dovrebbe essere quello di ricongiungimento, solo che diciamo che non è proprio quello effettivo, in quanto  tutti i passaggi verranno spiegati nel prossimo.
ho fatto succedere quel che ho fatto succedere solo perché mi servirà più avanti, quindi non lapidatemi quando leggerete * si nasconde sotto il letto, spaventata *
come cap è molto deprimente, vi avviso, tranne forse l’ultimissima parte dell’ultimissimo POV che da una bella speranza futura.
Il penultimo POV è molto atteso, e i primi sono quelli che nessuno si sarebbe aspettato.
Che dire? Buona lettura
Piccolalettrice
Ps. Ho scritto una one-shot relativa ad una cosa inespressa de “il Cronide”...  mi piacerebbe che la leggeste J
 
 
18- nessuno sfugge alle grinfie della morte.
 
“A che pensi?” mi chiese dopo un po’.
Eravamo rientrati dal nostro allenamento ormai quotidiano perché si era fatto buio, ed eravamo sul divano, completamente avvolti in un piumone, rannicchiati vicini per la mancanza di riscaldamento.
“non lo vuoi sapere davvero”
“perché?”
“perché pensavo che se mia madre uscisse dal bagno proprio in questo momento e venisse di qua saremmo fregati”
“ti vergogni di me?” disse, scostandosi per guardarmi in viso e inarcando un sopracciglio... aveva un’aria divertita... all’apparenza; se avessi risposto di sì, conoscendola, avrei dovuto trasferirmi in Tibet.
“no, ma...” cercai di trovare le parole, “uhm... non voglio che si faccia strane idee, lo sai come sono i genitori, no?”
Ecco che avevo detto un’altra cavolata che volli rimangiarmi: i suoi erano morti da poco.
“scusa”
“nulla... comunque non ti capisco proprio”
“la mia corrente di pensiero è troppo complicata per essere compresa da una semplice figlia di Atena?” scherzai.
Alzò gli occhi al cielo, poi disse:
“io invece pensavo a Crono”
Ed ecco che rovinava un altro bel momento spensierato con i suoi pensieri... e con tutti quelli che potevano girarle per la testa, proprio Crono doveva andare a pescare?
Riuscii a dire solo:
“oh”
“ho come la sensazione che succederà qualcosa... qualcosa di brutto”
“ogni cosa che ha a che fare con Crono è brutta”
“ma ho come la sensazione che stia per colpire, che si nasconda da tutte le parti... sento che ogni mio movimento è osservato. Mi fa paura, Percy”
La strinsi più forte, come a proteggerla.
“ci sono io” le dissi poi, poco convinto; anch’io ero spaventato dalle sue parole... in fondo avevo la stessa sensazione. Tutte le notti sognavo lo sguardo di Time e quello che mi provocava. La notte della battaglia sembrava come impressa  a fuoco nella mia mente.
“ogni notte lo sogno.” Proseguì poi, “sogno quei suoi occhi neri, la pelle bianca, poi l’erba bagnata sulle gambe, il vento che soffia... la sua risata” rabbrividì.
“lo so... anch’io sogno la stessa cosa”
“è terribile... lo sento dappertutto... per quanto mi riguarda, potrebbe anche essere qui, adesso. Nascosto nelle ombre di questa stanza” fece vagare lo sguardo sui mobili spaiati, poi riprese in tono lugubre, posando lo sguardo sulla porta:“o qui fuori... sì, potrebbe essere esattamente fuori dalla porta in questo momento”. A qual punto successe una cosa strana  e spaventosa al contempo.
Qualcuno –o qualcosa- bussò alla porta.
 
POV
 
fissammo la porta allarmati.
Non poteva essere.
Dopo un secondo qualcosa tornò a bussare.
Io fissai Percy, incapace di muovermi... lui sembrava sorpreso e terrorizzato quanto me.
Ad un tratto la porta si spalancò lasciando entrare un forte vento.
Quello che vidi oltre la soglia fu terribile.
Talia con la mano protesa verso la porta, Silena e Backendorf che si guardavano le spalle, spaventati e alla fine, la parte che mi spaventò: Clarisse e Luke che sostenevano... Grover, ferito, esanime. Che non dava segni di vita.
“oh, dei... ma cosa?”
 Mi districai dalle coperte arrivando davanti alla porta, Percy mi imitò fissando il suo migliore amico.
“ragazzi...? ma cosa diamine...?” fece Talia, sorpresa. “non eravate...?”
“Portatelo dentro!” urlai. Non c’era tempo per le domande.
La maglietta del satiro era rossa di sangue, sul collo aveva un taglio che valutai come profondo e le zampe erano anch’esse rossastre per il troppo sangue perso. Era livido.
Luke e Clarisse appoggiarono il satiro sul divano.
In quel momento Sally uscì dal bagno con i capelli bagnati:
“ragazzi, che succede?” fece, allarmata, guardando i presenti uno ad uno, quando quei suoi occhi grandi si posarono su Grover sussurrò:
“oh, cielo”
Mi girai verso la porta, che era rimasta spalancata. Percy era sulla soglia e fissava il satiro con uno sguardo indecifrabile.
“dov’è Tyson?”
Tutti si fermarono e nella stanza calò il silenzio.
“Percy...” disse Silena alzandosi e guardandolo negli occhi.
“dov’è?!” urlò lui, con uno sguardo da pazzo negli occhi.
“non siamo riusciti a... è rimasto indietro”
“indietro?” sussurrò poi, fissando la figlia di Afrodite.
“l’hanno preso, Percy” intervenne Talia con tono neutro. “mi dispiace”
Il viso del figlio di Poseidone si fece duro, poi  guardò Grover, con aria interdetta.
Alla fine senza dire una parola si voltò verso il divano e si issò il peso del satiro al fianco.
Lo trascinò per alcuni passi, poi successe una cosa inaspettata: Clarisse andò in aiuto di Percy e sostenne il fardello.
Arrancarono insieme, velocemente, verso il mare.
Nessuno disse una parola, nessuno osò fare altro che dirigersi verso la riva, per poi fermarsi dove la sabbia era bagnata.
Percy e Clarisse lasciarono il corpo di Grover nell’acqua che si fece, pian piano rossa, creando un netto contrasto con il colore cupo dell’oceano.
Percy si inginocchiò accanto al satiro, poggiando le mani sulle sue spalle.
L’acqua coprì Grover come una coperta, la potevo quasi vedere insinuarsi tra le ferite, pulirle, tentare di rimarginarle...
Invano.
Se fino a un secondo prima in lui era rimasta una scintilla di vita ora... non c’era più.
L’acqua continuava a lambire il corpo morto di quello che era stato il mio.. il nostro Custode.
Clarisse cadde in ginocchio nel mare, al fianco di Percy, che continuava imperterrito nel suo tentativo di guarigione.
Lo vidi stringere gli occhi, moltiplicare gli sforzi.
Mi ritrovai a piangere, senza accorgermene le lacrime mi avevano rigato il viso, silenziose.
Anche gli altri al mio fianco piangevano.
Tutti tranne Clarisse.
Fissava il corpo livido del ragazzo.
“è inutile” sussurrò  Backendorf avvicinandosi “è...”
“Non dirlo!” gli sibilò in risposta Clarisse “non dire quella parola!”
Tornò a fissare il satiro, scostandogli i ricci dal viso.
La sua mano si ritrasse al contatto con la pelle. Come se avesse preso la scossa.
“è freddo” disse, più a se stessa che a qualcuno in particolare.
Ad un tratto Percy scostò le mani dal torace del suo migliore amico e lo fissò.
Anche i suoi occhi divennero lucidi.
Rimanemmo in quelle posizioni per un’ora, o forse un secondo, il tempo necessario per capire realmente la situazione:
Era morto.
Quel mio pensiero era quello degli altri, lo sapevo. Tutti piangevamo la morte dell’amico più leale che avessimo mai avuto.
Ad un tratto Percy si alzò, e voltò le spalle a quella scena avviandosi verso il confine del malcapitato lido. Per la prima volta aveva i vestiti bagnati. Bagnati di rosso.
Stava per fare una cavolata, lo sentivo.
Mi presi un secondo per asciugare le lacrime, poi mi voltai anch’io.
Il vento era davvero fortissimo, mi era avverso e rendeva ogni mio movimento lento. Arrancai fino al cartello con la scritta camping, con i capelli e i vestiti che mi frustavano la pelle, quando arrivai a pochi passi dall’entrata scostai i capelli dagli occhi e uno spettacolo orribile si parò davanti ad essi: mostri, almeno un centinaio, che pressavano i margini della barriera invisibile, tentando di crearsi un varco. Trovai Percy con la spada sguainata ad un passo dal varcare il muro.
Corsi più veloce, sfidando il vento.
“Percy!” lui non si voltò neppure,fece roteare la spada e mosse un passo per lanciarsi alla carica.
Ero a pochi passi da lui, mi lanciai e gli afferrai il polso trascinandolo indietro.
“Percy, che stavi facendo?!”
Lui fissò i mostri, tentando di svicolare dalla mia presa.
“Percy!”
Fissò i mostri con sguardo truce, una specie di grido a metà tra l’agonia e la rabbia gli svicolò dalle labbra.
“Percy...”
“hanno ucciso mio fratello e il mio migliore amico!” sibilò tentando di divincolarsi di nuovo.
“Percy, è inutile... guardami!”
Prima che potesse fare qualcosa gli presi la spada dalle mani e la piantai nella sabbia, poi gli misi le mani sulle spalle e lo scrollai.
“ascoltami, è inutile... ormai non puoi fare più nulla...” le sue mani si strinsero a pugno, fissò la sabbia in cui affondavano i piedi nudi.
Le lacrime agli occhi.
Poco dopo le sue spalle iniziarono a tremare, e le guance si bagnarono di lacrime.
Mi parve fragile. Come se fosse tornato il ragazzino spaventato che avevo conosciuto due anni prima... e per questo la sua... la nostra tristezza era ancora più struggente.
Lo abbracciai e lui prese a singhiozzare sopra la mia spalla di un pianto pieno di dolore, pieno di disperazione.
E piansi anch’io.
Piangemmo insieme, sentendo le lacrime degli altri bagnare la stessa sabbia e cadere nello stesso profondo abisso di tristezza.
 
POV
 
Entrai in quel rozzo prefabbricato, esitando appena sulla soglia.
Non avevo idea di quello che stavo per fare.
Ma sapevo che DOVEVO farlo.
Era giusto così.
Era giusto che lo salutassi come doveva essere salutato, lontano dagli occhi di tutti.
Mi sedetti sul pavimento spoglio e ruvido, accanto al suo sudario. Scostai il lenzuolo e fissai quel volto pallido, dagli occhi chiusi e infossati, adagiato sul pavimento di legno di un bungalow diroccato
Senza nemmeno rendermi conto delle mie azioni presi a sussurrare, senza controllo, quello che mi affollava la mente.
 “ mi hai salvato la vita. L’hai salvata a tutti noi... ti sono debitrice.”
Sospirai. Era davvero difficile.
“Sei morto per noi, sei morto da eroe, Ragazzo-Capra.”
Guardai ancora quel viso, eternamente avvolto tra le braccia di Morfeo, ormai. E tirai fuori ogni pensiero che mi passava per la testa, certa che il mio interlocutore avrebbe capito.
“Non posso fingere di non aver provato un vuoto dentro.
Non posso fingere di sentirmi normale quando invece mi sento come se mi avessero tolto il respiro.
Di te non mi è mai importato nulla, mai.”
Strinsi le mani a pugno, affondando le unghie nel palmo della mano.
“E allora perché devo trattenermi dallo scoppiare a piangere?
Perché sto così male, Grover? Sai dirmelo?
Io non ho mai sofferto così. Mai.
Nemmeno quando mia madre è morta. Nemmeno quando ho capito che era morta per mano del ragazzo che credevo di amare.
Mai.
È stato il tuo modo di morire.
Sì, è stato il tuo modo di tirare fuori il coraggio, di usarlo per frapporti tra la morte e me.
Perché tu mi hai salvato la vita.
Malgrado non siamo mai riusciti a stare nella stessa stanza senza insultarci, malgrado cercassimo di renderci la vita impossibile a vicenda... tu mi hai strappato alle braccia della morte, facendo sì ch’ella prendesse te al mio posto.”
Gli sfiorai una mano gelida involontariamente. Ma poi, senza sapere come mi ritrovai a stringergliela.
Ma cosa stavo facendo? Stavo davvero parlando con un morto? era una cosa così stupida... ma mi sembrava quella giusta da fare.
Parlare era l’unico modo per fermare le lacrime, perché il vuoto non si occupa con altro vuoto quindi le parole mi servivano per colmare quell’ abisso.
“sono una stupida, lo so. Me l’hai sempre detto infondo, no?...
E mi sento ancora più stupida nel dirti che non mi sei mai stato più... vicino... che in questo momento.
Non so perché ti sto dicendo questo, ma in questo preciso istante mi sento vicina a te, più che a chiunque altro.
Non so perché ma credo che il mio dolore sia più forte che quello di Backendorf e Silena, più forte di quello di Annabeth, Talia e Luke, i tuoi protetti... forse più forte di quello di Percy, il tuo migliore amico.
Non so perché ma sento che è così.
Non avevo mai sentito tanto dolore come ora.”
Fissai di nuovo il volto esanime di Grover, e una sola, singola, solitaria lacrima mi sfuggì dall’angolo dell’occhio, scendendo sulla guancia e lasciando un solco bruciante sulla pelle.
Chiusi gli occhi, aggrappandomi alla mano gelida che tenevo tra le dita.
“Perché fa così male? Perché la tua mano mi sembra l’unica cosa viva di questo schifoso mondo mentre tu sei...” chiusi gli occhi, incapace di dire quella parola.
“Perché proprio tu?... perché mi dispero per te? Perché?!”
Le lacrime ormai scendevano copiose, sospirai, tentando di aprire gli occhi.
“perché sento quella sensazione? Quella troppo famigliare che ho odiato, che ti rende schiavo e padrone insieme? E perché la sento per te?... perché la sento per un morto?
Perché è tutto così veloce? La durata di una vita, il momento di una morte... il crescere di un sentimento. Perché ogni dannato secondo deve passare così velocemente?
Perché? Perché non sei più qui?”
Mi bloccai, sopraffatta dai singhiozzi.
Ero vagamente consapevole di star parlando come una pazza, ad un morto, ero vagamente consapevole che quello che dicevo non aveva senso e che non potevo provare qualcosa per lui, che neppure esisteva più.
Non potevo.
Eppure ero vagamente consapevole della realtà delle mie parole.
 
POV
 
-Stupido, stupido idiota di un satiro- mi dissi, cercando di frenare la voglia di prendermi a pugni – ma perché? Perché il mio cervello è così poco sviluppato?! Perché?!”
Tirai un calcio alla poltrona davanti a me, facendomi regalare un’occhiata stizzita della vecchietta decrepita che vi era seduta sopra.
Ed ecco la fine di Grover, custode di Talia Grace, figlia di Zeus e Percy Jackson, figlio di Poseidone, per la seconda volta salvatore dell’Olimpo.
Mannaggia  a me.
Ma perché diamine avevo deciso di fare l’idiota?!
Con tutti i bei momenti in cui avrei potuto fare il coraggioso avevo scelto proprio una fuga all’ultimo sangue?!
Avevo scelto proprio di proteggere, tra la vasta gamma di protetti che mi ritrovavo, l’unica persona che se la sarebbe potuta cavare da sola.
Clarisse.
Avevo fatto scudo con il mio corpo a Clarisse.
Oh, dei, quanto ero stato idiota.
Ed ero stato ancora più idiota a non farmi nemmeno centrare dritto al cuore, provocandomi quella morte lenta e dolorosa.
-complimenti Grover -
Ma cosa avevo mai fatto di male, io?!
Mannaggia, mannaggia a me!
La cosa più brutta era stata l’essere abbastanza lucido da vedere il dolore nello sguardo di coloro che erano stati i miei compagni, i miei amici.
Anche nel SUO sguardo.
Mi era quasi sembrato uno di quei video-game a cui giocavo insieme a Percy, prima che scoprisse chi era davvero.
Quelli dove alla fine esce la scritta rossa “game over” e tu ti ritrovi con il gioistic in mano e quella sensazione di aver sbagliato qualcosa e grazie a quel qualcosa di aver perso l’ultima chance per vincere.
Era la stessa cosa, solo che al posto del gioistic mi ritrovavo ricordi frammentati, e la sensazione di “irrisolto” era dannatamente e dolorosamente più grande... non dovevo vincere, ma vivere.
E in quel momento, negli studi di registrazione R.I.P e con quel senso immane di attesa, mi ritrovavo a crogiolarmi nei ricordi, in attesa che quell’idiota di Caronte la smettesse di lisciarsi la cravatta e che caricasse un po’ di anime in quello stramaledetto ascensore.
Quel pallone gonfiato intercettò il mio sguardo, sorridendo con aria sadica, come a dire “aspetta un paio di secoli, satiro”, io gli lanciai un’occhiataccia e mi spostai verso la parte opposta di quella stanza affollata.
Incrociai ogni tipo di persona e di sguardo, dalla vecchietta stizzita di prima alla bambina innocente lì a fianco, dal tipo nerboruto e tatuato con la divisa da carcerato all’uomo d’affari in giacca e cravatta.
Alla fine trovai un angolino solitario, dietro un grosso vaso dall’aria vagamente grecizzante e mi ci accomodai, perso nei ricordi e nelle canzoni di Hilary Duff che tanto adoravo, con la voglia di rimanere da solo.
“ehi!”
Mi guardai attorno scocciato, girando la testa, ma non vidi anima viva... o, meglio non vidi anima morta... va bè, non vidi nessuno e punto, pensai di essermi immaginato tutto, ed era possibile dato il posto in cui mi trovavo, e tornai a canticchiare.
“ehi!”
Bene, ora non ero più un satiro stecchito amante di Hilary Duff e basta; ora ero un satiro stecchito amante di Hilary Duff visionario.
Scossi la testa, pensando all’ennesimo scherzo che aveva prodotto la mente malata che mi ritrovavo.
“ehi, ma sei sordo o cosa?”
Fissai il grosso vaso, con aria stranita...
Forse non ero proprio visionario.
Era... un vaso parlante?
“ma vuoi rispondermi?! Sono millenni che sto chiuso qui e nessuno mi si avvicina... tanto meno un satiro!”
“co-come sai che sono un satiro?” chiesi accostandomi al vaso.
Ok, forse mi sarei dovuto chiedere perché un vaso parlava, ma quella fu la prima cosa che mi venne in mente.
L’oggetto rise:
“oh, lo sento... lo sento”
“lo... senti?”
“proprio così...”
“scusa... ma, di grazia, perché parli... insomma, non vorrei offenderti ma sei... bè, un vaso”
“un vaso?... ma quanto vi siete instupiditi voi satiri senza di me?”
“non capisco” confessai
“sono colui che ti ha dato la vita, satiro, sono colui che protegge gli animali, la natura e l’ambiente, sono il dio protettore della fauna e della flora, il dio delle selve, sono...”
“PAN!”  

   
 
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