La settimana
seguente fu infernale. Ogni volta che io e Francesco ci incontravamo,
cominciavamo a litigare.
O meglio, io cominciavo a litigare.
Spinta da una
furia incontrollabile, cominciavo ad urlargli contro, senza dargli
nemmeno il
tempo di ribattere alle mie accuse. Solo dopo ho capito che la mia era
una
reazione esagerata, ma in quei momenti perdevo il controllo.
Avevo fatto di
tutto per rimanere nell’ombra, farmi conoscere da meno
persone possibili, e ci
ero anche riuscita. Certo, l’essere la più brava
della classe mi rendeva relativamente
famosa, ma i tre quarti dell’istituto non sapevano chi
fossi.
Ora, invece, ero
sulla bocca di tutti per una cosa che non avevo fatto. Già,
una cosa che non
avevo fatto. Su questo mi ci fece riflettere Alessia, durante uno dei
miei
tanti sfoghi spesso correlati con un pianto.
La piccola, dolce e ingenua
Alessia mi disse “Ma non è che la cosa ti
infastidisce tanto proprio perché non
è successa? Cioè, non so se mi hai capita….”.
Non risposi, ma l’avevo capita benissimo.
Aveva ragione. Se almeno lui mi
avesse baciata, mi sarei tolta uno sfizio, e la cosa avrebbe addolcito
la
situazione.
Chissà, magari lui si sarebbe accorto di me….
Invece, oltre al
danno la beffa.
E comunque, a me dispiaceva litigare così accanitamente con
lui. Era prima di tutto mio amico, gli volevo bene. Però non
riuscivo a controllarmi.
Il lunedì seguente,
ad una settimana dal “fattaccio”, ero andata a
studiare a casa di Alessia. Dopo il pranzo, avevamo guardato insieme la
nostra
serie tv preferita, e ci eravamo sistemate in cucina per
studiare.
La cucina
aveva un terrazzo che si affacciava sul cortile dove abitavano tutti i
parenti
della mia amica.
Quindi, non era raro
che qualche zio o cugino andasse a farle
visita quando c’ero anch’io.
E quindi, nessuna
delle due si stupì quando, verso
le 16.30, sentimmo trillare il campanello di una bicicletta. Alessia si
precipitò fuori per vedere chi era, e tornò
dentro con un’espressione
preoccupata “è per te” disse
soltanto.
Mi affacciai, e lo
vidi.
Era appoggiato al
muretto che delimitava il
piccolo orto, e giocherellava con i pedali della bici. Scesi
le scale, la
rabbia che montava.
“Che
vuoi?” ruggii raggiundendolo
“Ciao anche
a te, come stai oggi, inviperita
come sempre?”
“Che
vuoi?”
“Parlare”
“Mi sembra
che io e te abbiamo già parlato
abbastanza, che dici?”
“Forse tu
hai già parlato, perché da una settimana a
questa parte non mi lasci più aprire bocca”
“Per sentire
le tue scuse idiote?
No, grazie, preferisco di gran lunga urlarti contro!” Non era
vero. Però dissi questa
frase con cattiveria, e lo colpii.
Rimase per un attimo
interdetto, quindi
continuò “La cosa che non hai ancora capito
è che non tutti sono perfetti come
te. Gli essere umani compiono degli errori, a volte gli capita. Tu,
invece, fai
sempre la cosa giusta, non è vero? Bhe, ora ti
rivelerò un’altra cosa a te
sconosciuta. Le persone perfette sono noiose, monotone, sempre uguali
nella
loro impeccabilità”
Lo avevo
sottovalutato. Sapeva far male, altrochè. E quello
era un tasto sensibile per me.
“Io non sono
perfetta, io sbaglio, non sai
quanto. Semplicemente evito di compiere gli errori più
elementari”
“Giusto, io
commetto errori elementari. Ma hai ragione, hai perfettamente ragione.
L’errore
più grande l’ho fatto io” disse
risalendo in bici
“Vedo che
finalmente l’hai
capito, che bravo” risposi acida
“No, non mi
riferivo a quello, mia cara. Il
mio errore più grande è stato innamorarmi di te!”
esclamò, quindi corse via.
Lo
osservai svoltare l’angolo, e rimasi impalata.
Il vento mi sferzava
il viso, il
naso diventava sempre più rosso, ma non mi muovevo.
Dopo qualche minuto, o
forse qualche anno, due mani mi cinsero la vita trascinandomi
via.
E in quel
momento le parole che non avevo avuto la forza di prununciare, qualche
minuto
prima come negli anni precedenti, uscirono dalla mia gola, appena
udibili, e fu
come se mi fossi tolta un peso.
Dissi solo
“Ti amo anch’io”.