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Autore: Herit    24/04/2011    1 recensioni
Victor Stradivari è un giovane violinista di successo. Ha dalla sua un discreto fascino ed un carattere piuttosto altezzoso. Apparentemente frivolo, ha la fama del Don Giovanni bello e bastardo. Durante un concorso internazionale per una borsa di studio, la sua vita si incrocia con quella di Mark Violin: musicista pressoché sconosciuto nell'ambiente. E' proprio Mark a soffiargli la tanto ambita borsa di studio da sotto il naso. Una volta tornato nel conservatorio in cui studia, il Monteverdi di Londra, Victor è convinto che le strade sue e di quel "musicista da quattro soldi" non si incrocieranno più. Peccato che la Vita riservi parecchie sorprese...
E c'erano ricordi, in quella melodia. Un incontro fatto di sguardi penetranti ed astiosi. D'insofferenza reciproca e di sguardi lanciati di nascosto. Di risate fatte tra amici e di gelosie che avvolgevano il cuore come serpenti, iniettando il loro aspro veleno. Parlava di brividi, quella sinfonia. Quelli sollevati per lo scampato pericolo e quelli arrabbiati. Quelli provocati dallo schioccare di un bacio e quelli per la paura di perdere qualcuno di caro. C'erano nove mesi della loro vita, lì dentro. E li stavano offrendo al pubblico con il cuore aperto.
Genere: Erotico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash, Yaoi
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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11. Solo la melodia della vita.

    “Allora, come sta andando?” La voce fin troppo nota di Axel gli arrivò alle orecchie facendolo girare con calma. L'aveva sentito avvicinarsi. Ed erano in pochi ad avere il coraggio di  avvicinarsi a lui quando aveva quell'espressione cupa addosso. Se avesse potuto avrebbe tirato il collo al primo mal capitato di turno, in quel momento. Stradivari gli dedicò una delle sue occhiate svogliate e poco interessate. Non era quello ad intimorire i loro compagni di scuola, che invece si tenevano bellamente alla larga. No. Era quell'aura spaventosa che il ragazzo sembrava emanare da ogni poro. Stava male, si sentiva terribilmente in colpa e maledettamente idiota. Ma il rosso gli sorrise sornione. Sembrò quasi farsi beffe di lui, come sempre.
    “Sparisci, Ax. Oggi non ho una bella giornata.” Sbottò Victor allungando il passo per sfuggire da lui, lungo i corridoi del Monteverdi. Inutile. Nonostante la differenza di altezza tra lui ed il suo amico d'infanzia, e nonostante il palese rifiuto che stava dimostrando nell'avere un confronto con lui, l'altro gli trotterellò dietro prendendolo al collo con un braccio. In un modo giocoso e scherzoso che il violinista conosceva da una vita. Accolse per un attimo quel gesto, ma scansò sbuffandogli dietro. Non aveva voglia di vederlo. Né lui, né nessun altro, dopo l'ultimo scambio di battute con Violin avvenuto qualche giorno prima. Inoltre, di lì a poco si sarebbe tenuto il concerto di fine anno. Che idiozia. Esibirsi per chi? Un paio di Talent Scout che avrebbero fatto promesse mai mantenute? E lui perché diamine ragionava così? Era lui il primo a necessitare di un appoggio per allontanarsi da quella che, per sangue, era la sua famiglia. Il compagno di studi lo colse quindi alla sprovvista, immerso nelle sue tribolazioni, quando gli afferrò il braccio e lo costrinse a voltarsi, dimostrando una forza che Stradivari non si sarebbe mai aspettato.
    “Ora tu mi ascolti. Ma ti sei visto in faccia, ragazzino?- Proruppe, piccato, mostrando una fermezza che solitamente non dimostrava, se non con le sue prede. Victor avrebbe potuto giurare che fosse lui a condurre i giochi, con loro, solitamente. Gli venne spontaneo sgranare gli occhi. Da che lo conosceva -solo una vita- non aveva mai visto Axel tanto fuori di sé. -Non sembri più nemmeno tu, scemo. Hai litigato con Violin? Presumo di sì. Altrimenti sapresti che è stato ricoverato d'urgenza questa mattina e non saresti qui a girare a vuoto per la scuola!” L'uomo poté avvertire chiaramente il braccio dell'altro irrigidirsi, sgomento, sotto la sua presa. Medesima reazione che dovette avere tutto il corpo, ed accompagnata da quegli occhi solitamente brillanti che in un primo momento si oscurarono atterriti. Effettivamente non l'aveva visto né a lezione, né alle prove, quella mattina. Ma era convinto si fosse astenuto per gli allentamenti di pallacanestro. Il venerdì li alternava, di solito. Gli altri non sapevano della loro relazione, e se ne erano a conoscenza, se ne tenevano bene alla larga. I maschi per non essere coinvolti. Le ragazze perché per lo più erano schifate. Più da Stradivari che da Violin, in realtà. Per questo probabilmente non gli avevano detto nulla. A scuola non aveva mai smesso di palesare il proprio astio nei confronti del compagno. Per quieto vivere. Perché sapeva che una volta si fossero trovati da soli, si sarebbe fatto perdonare, in un modo o nell'altro. Perché sapeva che l'altro l'avrebbe perdonato, sempre e comunque. Scosse il capo più e più volte per riprendersi.
    “Mark è cosa..?! Dov'è ricoverato?” Gli chiese con urgenza, volgendosi spontaneamente verso l'amico ed afferrandolo per le spalle. Ed il volto di Axel si incupì per un istante. Non aveva mai visto, Victor, i suoi occhi tingersi di tanta tristezza. E non parve accorgersene nemmeno in quel momento. Lo affrontò quasi con difficoltà, l'uomo, abbassando il capo in un primo momento.
    Non andare. Se avesse potuto, il rosso lo avrebbe scongiurato di non correre dall'altro, come invece era certo avrebbe fatto. Non poteva sopportare di essere stato messo da parte per un altro. Nonostante quella silenziosa amicizia. Quella complicità nascosta tra loro, e solo tra loro, preclusa al mondo esterno. Nonostante non gli avesse mai parlato dei propri sentimenti. Era sempre stato certo che l'altro li avrebbe capiti, prima o poi.
    “Non andare... Non andare!” Quel pensiero prese vita da solo sulle labbra del musicista, che trovò solo in quel momento il coraggio di sollevare gli occhi su Victor. Lo stesso che in quel momento aveva aumentato la stretta sulle sue spalle, osservandolo attonito. E tremò Axel. Tremò perché quello sguardo lo conosceva fin troppo bene. Chiuse gli occhi pronto a sentirsi dare della “checca isterica” proprio dal suo migliore amico, preparandosi già mentalmente una risposta adeguata, visto che fino a prova contraria, anche lui lo era diventato. Ma la cosa non avvenne.
    “Ax... non tu, ti prego. Potrei accettare chiunque... ma non tu. Io... io ho bisogno di vederlo. Ho il terrore di perderlo proprio ora.” Il musicista per un istante riuscì a rivederlo. Per un istante che apparve quasi insignificante, ma lo vide ancora. Rivide quel bambino che prendeva lezioni di matematica da suo padre affrontando con aria svogliata quei problemi troppo grandi per lui che viveva di pane e musica e che comunque trovavano una soluzione nel suo testardo orgoglio di mocciosetto di buona famiglia. Rivide l'arroganza di quel bambino che tornava a casa con le ginocchia sbucciate e che ancora aveva il coraggio di dire che non era scappato di casa per giocare con gli altri bambini. Oppure con lui. Rivide la fragilità di quel bambino che puntualmente veniva sgridato da quei nonni troppo severi per un ragazzino con la sua sensibilità. Quel terrore di deluderli e di perdere quell'ultimo appoggio di umanità che gli avevano dimostrato una volta che era uscito dall'ospedale. Era lì, pregno di una tristezza immane. E non ebbe cuore di tacerglielo. Non ce la fece, perché poi si sarebbe sentito in colpa lui, per quel viso.
    “All'ospedale dove va a farsi visitare di solito. Il Guy's Hospital.” Gli spiegò ingoiando un groppo non indifferente che gli stava chiudendo la gola. Strinse con forza il suo braccio, mordendosi le labbra dall'interno, per non farsi sfuggire quelle parole intrappolate nella gabbia creata da lingua e denti. Lo affrontò nuovamente riaprendo gli occhi per guardare il suo viso, incontrandone i tratti segnatiti da troppe, troppe cose.
    “Ax... se solo...- me ne fossi accorto prima... forse... Bloccò la corsa dei propri pensieri, Victor, liberando le spalle dell'amico d'infanzia e venendo allo stesso modo rilasciato da lui. Non poteva mentirgli. Anche se se ne fosse accorto prima non sarebbe cambiato nulla, perché lui non era Violin. Questa volta, però se ne accorse. Come un fulmine a ciel sereno. Colse quella tristezza e quei sentimenti che non avrebbe potuto ricambiare. Così tremendamente palesi in quegli occhi lucidi dell'altro. Gli sembrò per un istante, una delle tante ragazze cui aveva detto di no e scosse la testa, appoggiandogli una mano sul capo. -Grazie” Un sussurro dedicato al silenzio che era sceso nel corridoio. C'erano tante -troppe- cose che non avrebbe potuto affrontare, in quel momento. E si stavano ammonticchiando l'una sopra l'altra, senza dargli possibilità di respiro. Non avrebbe potuto affrontare la perdita di Mark. Fisica o mentale che potesse essere. Non avrebbe potuto affrontare di perdere l'amicizia di Axel. Non in quel momento di panico. Non avrebbe potuto affrontare un'esibizione. La stessa per la quale si stava preparando da tanto tempo, nonostante reputasse lo spettacolo scolastico solo uno spreco di energie. Era una questione di priorità, si rese conto. Una di quelle cose l'aveva già procrastinata. A mente più lucida avrebbe chiesto al suo amico il perché di quegli occhi sull'orlo delle lacrime e gli avrebbe detto che sì, ora capiva come si sentiva lui ogni volta. Gli avrebbe ricordato che ne aveva già passate tante e che questa avrebbe potuto affrontarla reggendosi sulle sue gambe. Perché se era lui a farlo soffrire, non poteva stargli accanto. Del Talent Scout, poco gli importava. Sapeva che un paio di quegli avvoltoi gli avevano già messo gli occhi addosso da un pezzo. Aspettare un altro anno non gli avrebbe fatto né caldo né freddo. E lui avrebbe dovuto sopportare solo un altro anno di cene in famiglia davanti all'alta borghesia londinese. Un paio di sorrisi affabili e di circostanza non gli sarebbero costati nulla. L'importante era stare con Violin il giorno successivo. E quello dopo ancora. Ancora. Ancora. Era stato solo uno dei soliti attacchi e niente di più. Cercò di convincersi di questo, Victor, mentre il taxi che aveva chiamato correva verso la zona del Tower Bridge. Eppure sentiva più pressante quella morsa che gli chiudeva lo stomaco già da diversi giorni. Da quando Mark era tornato l'ultima volta da uno dei suoi controlli. Da quando il suo cuore aveva collassato l'ultima volta. Quegli attacchi che erano sempre più frequenti. Si ritrovò a pensare. con la testa schiacciata contro le ginocchia e le mani tra i capelli, resistendo alla voglia di cedere alla follia del momento ed urlare. Non poteva perderlo.

    La stanza era bianca. Asettica. I macchinari che monitoravano le condizioni di Mark emettevano suoni che, alle orecchie di Stradivari, sembravano sinistri gemiti sofferenti. Tutti uguali. Ripetitivi. Una nenia che non lasciava presagire nulla di buono. Se ne stava lì, sulla soglia della camera dell'ospedale ad ascoltare le parole di un medico che non sembrava nemmeno vedere. Accanto a lui c'era una ragazzetta minuta. A celarle la testa, il copricapo tipico delle suore. Annuiva di quando in quando alle parole del dottore, dedicando a Victor qualche sporadica occhiata, con i suoi occhi di cristallo nero. Pura ossidiana che sembrava cibarsi e risplendere delle luci fredde, al neon, del corridoio. Eppure parevano così vuoti.
    “Se le sue condizioni rimarranno stabili la notte, domani potremo dimetterlo. Ed a breve proseguiremo con l'operazione.” Aveva detto ad un tratto l'uomo magro come uno spillo. Addosso un camice bianco, lungo fino ai polpacci ed in mano la carella clinica del paziente. Di Violin. Fu quell'ultima parola a risvegliare il violinista dal suo stato di coma, mettendolo sull'attenti.
    “Operazione?” Gli fece eco con un'energia nuova nella voce. Una vitalità differente da quella mostrata poco prima. L'espressione sperduta che lasciava spazio ad uno sguardo speranzoso che si accentuò quando l'uomo andò a dedicargli dei cenni di assenso con il capo.
    “Scusi, ma lei non è il fratello?” Gli domandò fissandolo inquisitorio e tutto ciò che aveva imparato in quegli anni -quella maschera che aveva sempre usato in maniera ineccepibile- tornò a galla. Sfoggiò uno dei suoi sorrisi migliori. Il più educato. E si distaccò dalla porta, drizzandosi completamente. Con quello sguardo un po' sfrontato, un po' ingenuo in volto.
    “Si, ma sa com'è? Mark non vuole che ci preoccupiamo per lui, e quindi non ci racconta mai niente.” Spiegò sollevando le spalle stringendovisi dentro con il capo ed abbassando lo sguardo, come fosse stato colpevole per non essersi meglio informato prima. Le labbra fini leggermente sporgenti in fuori, come aveva visto fare a tante delle sue ex quando dovevano farsi perdonare qualcosa, in un broncio un po' accentuato ed un po' femminile, ma che in quel viso non stava poi così male. Ed il medico sembrò accettare quella versione dei fatti, visto che poi sospirò, riprendendo parola. In tutto quello, la suorina non aveva messo bocca, limitandosi ad osservare Victor con quegli occhi che prima sembravano vuoti, ora invece carichi di un curioso interesse verso di lui.
    “La lista d'attesa si è accorciata, e se tutto va bene, il prossimo cuore che arriva qui è per lui.” Gli comunicò, facendo perdere un battito, o forse di più, a quello di Stradivari. Sarebbe stato bene. Il medico si accomiatò dopo aver scambiato poche altre battute con la suora che lo congedò benedicendolo più e più volte. Benedicendo anche il Signore, più e più volte. E Stradivari avrebbe anche potuto trovarla irritante, se solo non fosse stato anche lui tutto intento a ringraziare, per una volta sinceramente, qualunque Dio conoscesse per avergli dato quella notizia, intanto.
     “Tu non sei un “fratello” di Mark.” Le parole della sorella lo lasciarono interdetto per qualche istante. Giusto il tempo di calare lo sguardo su di lei mandandola cortesemente a farsi una spaghettata di affari propri. Sorrise però beffardo, nel notare l'espressione attenta nel volto della suoretta. Un lupo travestito da agnello. Aggrottò le sopraccigli quando la sua vocina interiore gli sussurrò quelle parole, spostando lo sguardo verso l'interno della camera. Uno spiraglio di luce feriva l'oscurità della stanza come un coltello affilato.
    “Davanti all'occhio di Dio siamo tutti fratelli, sorella.” L'aveva rimessa al suo posto. O almeno di questo era convinto. Fu per questo che venne completamente spiazzato dalla reazione della ragazzetta, che scoppiò in una sonora risata, portandosi le mani davanti alle labbra per attutire il suono e non svegliare i pazienti già sopiti da un po'. Di nuovo quella vocetta si era fatta strada dentro di lui, dicendogli che sì, la prima impressione era stata quella giusta.
    “Avanti, so quali sono le inclinazioni sessuali di Mark.” Per un istante, a Victor sembrò quasi di venir preso in giro. Sensazione che si acuì maggiormente quando la ragazza si sporse all'interno della stanza per controllare di non essere sentita. Allo stesso modo si guardò attorno. Civetta. Oca. Bisbetica. Ecco cosa gli era sembrata, quella tipa. Ed era pure sicuro di non essersi sbagliato troppo. A differenza di quello che erano Lizzy o Kirya, lei fingeva in modo spudorato. Probabilmente nascondendosi dietro quegli abiti. Pettegola. Così come si era comportata prima con il dottore. Ora invece pretendeva di capire tutto di lui solo con uno sguardo.
    “Sono un suo compagno di scuola.” Chiuse lì in discorso, mettendo in chiaro di non accettare ribattute con un'occhiata altezzosa e distaccata. Il mento che venne sollevato in un gesto secco, quasi a chiederle di togliersi di torno.
    “Dai, su. Non fare l'antipatico. Sono contenta che si sia trovato il ragazzo.” Insistette invece. Lo stava mettendo alla prova, ed i suoi nervi, in quel momento, avevano tutto fuorché bisogno di essere messi alla prova. La squadrò da capo a piedi un paio di volte, prima di far schioccare la lingua sul palato.
    “Comodo nascondendosi dietro quegli abiti per farsi i fatti degli altri, vero?” Le domandò seccamente, con tutta l'arroganza di cui fu capace. E questa volta non si limitò a semplice mimica del corpo. No: lui entrò nella stanza, chiudendo la porta dietro di sé con due mandate di chiave. Trovava insopportabile chi voleva farsi i fatti suoi pur essendo un completo estraneo. Ma soprattutto odiava la chiesa. Era cresciuto in un ambiente protestante, certo. Ma non aveva accettato mai nessuno dei sacramenti che gli erano stati imposti, rifiutandosi di partecipare ancora alle processioni, una volta che ebbe raggiunto l'età in cui poteva scegliere cosa fare del proprio credo. Lui credeva in se stesso, e tanto gli bastava.
    “Non ti piace proprio dover portar rispetto agli altri.” La voce stanca di Violin si fece largo nel silenzio della stanza, cogliendolo piacevolmente di sorpresa e facendo emergere un sorriso dai meandri del suo animo turbato. Gli si avvicinò in silenzio, sollevando le spalle in un gesto distratto, accomodandosi sulla sedia accanto al lettino. Così piccolo rispetto a quello di casa di Mark. O a quello della sua stanza al dormitorio.
    “Porto rispetto solo a quelli che se lo meritano.” Borbottò posando le braccia incrociate sopra le coperte ed adagiandovi il capo sopra, chiuse gli occhi. Respirò profondamente quell'odore dolciastro che non sapeva però di risvegli al caffè e toast al cioccolato. Quell'odore così distante dalla sua quotidianità. Quell'odore che sapeva di disinfettanti usati un po' a casaccio e sparsi qui e là. Che non sapeva di loro e delle loro pelli. E lo sentì sorridere, come aveva imparato a farlo tante altre volte. Senza guardarlo. Senza poterlo vedere.
    “Sei sempre il solito ostinato.” Quel commento gli scivolò addosso con la dolcezza di una carezza posatagli sul capo. La stessa carezza che scese giù ad insinuarsi sul suo collo carezzandolo lentamente, dandogli i brividi con quella lentezza esasperata e quella delicatezza inaudita che gli sfiorava la rada peluria presente all'attaccatura del capo. Inarcò le spalle, Victor, coinvolto in quel gesto, andando incontro alla mano dell'altro. Non rispose però a quel commento, sospirando piano.
    “Sai, Mark. Venendo qui ho avuto modo di pensare... Axel mi si è quasi dichiarato, prima. Ed io mi sono bloccato prima di dirgli che se me lo avesse detto prima, ora staremmo assieme, con tutta probabilità. Gli avrei fatto ancora più male.- Avvertì la sua carezza sul collo diminuire d'intensità per un istante, per poi riprendere da dove si era quasi interrotta, prendendosi la libertà di lasciargli un piccolo pizzicotto su un angolino dove la pelle era più morbida. Una piccola punizione, ma non desistette dal continuare. -Sai che il mio primo amore fu proprio un bambino? Certo, non che parlare di primo amore a cinque anni sia corretto. Però ero rimasto tremendamente affascinato da lui. Era poco più grande di me, ed era il figlio del mio maestro di piano. Faceva correre le dita sui tasti come se non avessero consistenza. Sembrava quasi che quello strumento componesse da solo la propria melodia, come dotato di un carillon interno.- Interpose una breve pausa, riaprendo gli occhi e drizzandosi meglio sulla sedia per poterlo osservare comodamente, anziché cogliere solo il tubo della flebo. E si morse le labbra, fissando la linea ad apici regolari del suo elettrocardiogramma. -Con tutta probabilità sono sempre stato... omosessuale...” Aveva pronunciato con fatica quelle parole, senza in realtà guardarlo in faccia, sentendosi arrossire, invece, fino alle punte dei capelli. Era strano riuscire ad ammetterlo così apertamente, senza troppi intoppi. A lui doveva dirlo. Alla fine glielo doveva. C'erano tante cose che non gli aveva ancora confessato. Che l'amava anche lui, per esempio. Oppure che adorava come suonava. E che doveva insegnargli a suonare come lui, perché per quanto si impegnasse, non ci riusciva proprio.
    “E' cambiato qualcosa in te?” Gli domandò  con gli occhi chiusi e la mano che, per quel che poteva gli scivolava su e giù per la schiena in lente carezze, morbide e distratte. Per lui sicuramente non era cambiato nulla. Era suo e lo sarebbe stato per quel poco di tempo che gli era restato. Lo sentì dissentire, Mark, pur senza guardarlo.
    “Avrebbe dovuto cambiare qualcosa?” Gli chiese per tutta risposta, alzandosi ed aggirando il lettino, portandosi dal lato dove non si trovavano impedimenti quali flebo e macchinari vari. Non gli servì nemmeno parlare che già Violin si era spostato di poco, stando ben attento a non dare scossoni alla flebo e gli aveva lasciato abbastanza spazio da stendersi comodamente su di un fianco.
    “Tu eri quello convinto di essere etero.” Gli fece notare candidamente il musicista, arruffandogli i capelli e ricevendo uno sbuffo per risposta. Sapeva quanto quel gesto potesse infastidire l'altro. Ma aveva bisogno di toccarlo. Di sentirlo vicino. Di sentirlo suo. Reclamò un bacio, invece, e venne subito accontentato. Pace ristabilita a causa della sua malattia. Che ironia.
    “Sarebbe bello presentarti ai miei.” Esordì di nuovo Stradivari, dopo essersi steso comodo su un fianco, posato sull'altro per buona parte e con il capo accoccolato sulla sua spalla. Era comodo. Decisamente comodo. L'aveva pensato tutte le volte che si era attaccato a lui in quel modo dopo aver fatto l'amore. Messo così si godette a pieno l'espressione esterrefatta dell'altro, sorridendo trionfale tra sé e sé. Sublime.
    “E che gli diresti? 'Caro nonnino, cara nonnina... questo è Mark Violin. Che abbinamento del cavolo di nomi, tra l'altro, lo so... Ed è il mio ragazzo. Mark, questi sono mio nonno e mia non... na... pronti ad ucciderci entrambi a suon di padellate! Scappa!'” Gli aveva fatto il verso, l'uomo, lasciandogli la libertà di dar vita ad una risata divertita. Vivace e piena, tanto che si era contorto fino a posare il volto sulla sua spalle per soffocarla lì, così da non svegliare tutto il reparto. Solo quando si fu un po' ripreso, riuscì a tirarsi nuovamente su, posando le mani ai lati del volto di Violin, per poterlo guardare, prima di accasciarsi nuovamente su un lato, afferrandogli una mano e giocherellando con quella, distrattamente.
    "Dai, pensati la scena. Non sarebbe fantastico? Durante una cena di gala dai miei nonni, io che mi alzo in piedi per fare un annuncio. Guardo i vecchi e mio padre, alla mia destra prima. Tutta l'élite attorno a me, poi. Ed in fine tu, alla mia sinistra. Calice in mano ed i mio miglior sorriso. Quello che so rende tanto orgogliosi i miei. 'Signori miei.' Esordisco e già lascio un momento di pausa, facendogli pregustare una delle tante idee sul mio futuro come musicista. Le sento nell'aria. Le posso quasi vedere che prendono forma davanti ai miei occhi. Qualcuno ha già le mani che fremono, pronte a partire in quella gara di applausi che, è certo, seguirà dopo e che invece io so già, non ci sarà. 'Volevo annunciarvi che abbandono il Monteverdi e che ho deciso di trasferirmi in Italia.' Cala un momento di silenzio congelato perché i nonni non lo sanno, e mio padre nemmeno, ma tu si. Tu si perché ci andremo assieme. Ci verrai, vero? Oh, e poi la parte che preferisco. Tu ti alzi in piedi prendendomi per mano ed il mio sorriso si accentua. Si addolcisce come succede solo quando sono con te. 'Volevo inoltre annunciarvi che mi sono fidanzato.' Ed eccole. Le loro facce sconcertate strette in una morsa di gelo. Ed è una vittoria, la mia. Su di loro, su me stesso e quelli che erano i miei tabù. E brindo, perché non c'è altro da fare. Perché ho raggiunto quella libertà che non avevo mai sfiorato prima. Ci pensi? Non sarebbe fantastico?" Rimase per degli attimi ridicolmente lunghi in silenzio, Mark. Osservandolo ed andando a carezzargli il capo con il naso e con le labbra. Forse lo fece per nascondere quel sorriso malinconico, che poi sfociò in una risata che anche alle sue orecchie sembrò tutto fuorché sincera. E la sua mano strinse maggiormente quella del violinista. Avrebbe voluto dirgli di sì. Che sarebbe andato con lui in Italia. Che avrebbero vissuto assieme lì o in qualunque altro luogo avesse scelto. Avrebbe voluto, ma non lo fece.
    "Ma tu sei tutto matto. Ti diseredano." Lo avvertì, restando interdetto quando non avvertì alcuna ribattuta o reazione da parte di Victor, che si limitava a stare attaccato a lui. Un braccio attorno alla sua vita e l'altro che tratteneva la sua mano senza troppa forza. Abbassò lo sguardo sul suo volto trovandolo con gli occhi bassi e le ciglia lunghe a coprirglieli, allargate e folte come i rami di un albero d'autunno. Le iridi apparentemente dorate che componevano quelle foglie prossime alla caduta.
    "Lo so. E' quello che voglio." Sorrise contro la pelle del collo di Mark. Un sorriso nascosto, ma solo per lui. Un sorriso di quelli un po' timidi, un po' difficili da esternare, perché dicevano tante cose. Dicevano che non gliele importava davvero più nulla di appartenere a quella famiglia. Che quel desiderio cui aveva appena dato vita era ciò che davvero voleva. Che semplicemente gli interessava stare con lui.
    “Domani suoniamo qualcosa assieme?” Violin gliel'aveva proposto parlando con calma, passandogli il braccio destro sotto il capo e fungendogli così da cuscino. Lo strinse maggiormente a sé e cominciò a carezzargli, per quel che riusciva, la schiena, il fianco ed il capo. Aveva ascoltato quanto il medico aveva comunicato al violinista ed alla suora, e contava di star bene per il pomeriggio successivo. Doveva stare bene, avesse dovuto essere l'ultima cosa che avrebbe fatto in vita sua. Doveva essere con lui, l'indomani. Doveva dargli quella libertà che sembrava tanto anelare. Victor annuì contro la sua spalla senza aggiungere altro. Non aveva voglia di pensare al giorno seguente. Si stava godendo il calore del corpo dell'altro, in quel momento. E tanto gli bastava.

    “Il medico... ti ha detto... n-non devi fare... sforzi.- Tendersi contro quel corpo. Dentro a quel corpo. Era una vertigine nuova ogni volta.  Faceva male anche a lui la disperazione con cui si era reso conto di averlo fatto suo. Restò fermo immobile per qualche istante, senza badare a quelle perle bianche che gli sporcavano il torace, concentrandosi piuttosto su Victor, stravolto, sopra di lui. E pensare che di lì a poco avrebbero dovuto esibirsi. -Ti odio. Quando fai così... ti odio davvero. Ringrazio che al piano ci starai tu, dopo. Non riuscirei a sedermi su quel coso.” Brontolò Stradivari, allontanandosi da lui con una smorfia e stendendosi completamente sul suo torace, usandolo come materasso. E s'imbronciò quando lo sentì ridere di gusto, scompigliandogli i capelli con una mano, mentre l'altra si premurava di tenerlo legato a sé.
    “Togliendo il fatto che sono stato una settimana in astinenza, mi risulta che tu abbia fatto tutto da solo.- Gli rispose con tono saccente, chiudendo gli occhi ed inarcando, per quello che poté, la schiena. Diamine se era duro il pavimento. Si erano rinchiusi in una delle sale insonorizzate che utilizzavano per le prove e, causa un passo falso del violinista che aveva cercato di rubargli un bacio, si erano trovati a fare l'amore sul pavimento. Attenti a non urtare strumenti o oggetti dispersi per la stanzina. Questo perché, sì, effettivamente lui gli era letteralmente saltato addosso. Si sentiva in forma, nonostante tutto. Forse un pensiero positivo era riuscito ad insinuarsi soave nella sua testa, alla notizia di quel cuore che forse gli avrebbe permesso di vivere una vita normale. -Grazie per esserti sacrificato per la causa. E...” Si interruppe, Mark, scostandolo da sé con delicatezza e mettendosi a sedere, recuperando un pacchetto di fazzoletti dalla tasca della giacca della divisa, passandone un paio al compagno, silenzioso, mentre l'altro cercava una posizione un po' più comoda contro il pavimento, riprendendo ancora fiato. Avrebbe voluto concludere dicendogli per l'ennesima volta che l'amava. Ma non era il momento giusto. Aveva un piano. Un desiderio anche lui. E forse Victor l'avrebbe ucciso, per questo, ma aveva poca importanza: l'avrebbe fatto ad ogni costo.
    “Devo farmi una doccia. Sono stravolto.- Stradivari stava utilizzando una finestra chiusa come specchio per controllare fino a dove era riuscito a sporcarsi, pulendosi alla meglio con quella salviettina di carta che ben poco toglieva. Ci aveva messo un po' a calmarsi ed a recuperare un briciolo delle proprio forze, ed ancora in realtà si sentiva spossato e stanco. Aveva un'espressione davvero stravolta, inoltre. I capelli castani disordinati. Le labbra ancora rosse. Sottili come sempre, ma di un colorito che le faceva risaltare ulteriormente su quella pelle chiara. Le guance colorate da uno spruzzo porpora che rendeva ancor meglio l'effetto sconvolto della sua figura. Però il suo fisico era impeccabile come sempre. Magro ed un po' incavato. Con le scapole sporgenti e braccia e gambe lunghe ed armoniche. Non si era accorto, Mark, di avergli lasciato invece, tanti marchi rossi sul collo. Ce n'era uno proprio dietro l'orecchio. Invitante. Un po' buffo, forse, nel suo modo di spiccare tra la peluria chiara e le orecchie arrossate di Victor, che probabilmente stava facendo i conti di quelle che sembravano ghirlande su un campo di battaglia innevato. Lo guardò di traverso tramite il riflesso fornitogli dalla finestra, incrociando le braccia contro il torace. -Viò, se vuoi ti faccio anche un poster a figura intera, più tardi, con la mia foto. Ma al momento mi occorre che tu ti vesta e che ti impari quella parte.” L'aveva ripreso, tamburellando spazientito il piede a terra, volgendosi poi in sua direzione e raccogliendo la felpa dell'altro per infilarsela alla bel e meglio addosso, infilandosi poi i boxer, aderenti sì, ma abbastanza lunghi da sembrare degli shorts. Forse un po' troppo shorts. Mark lo squadrò dalla testa ai piedi, arcuando un sopracciglio.
    “Tu non esci di qui vestito così.” L'aveva minacciato quasi, incrociando le braccia sotto il torace ed assottigliando il taglio degli occhi, in una posa che si addiceva di più al ragazzo, piuttosto che a lui. Victor sollevò gli occhi al soffitto, passandogli accanto e dirigendosi verso la porta, carezzandogli piano i capelli con una mano, seppure sbuffando esasperato.
    “Non mi violentano per i corridoi. Vado alle docce della piscina. Hai presente che sono a meno di un minuto da qui?” Gli domandò retorico, sollevando un sopracciglio, in barba a tutto. Sapeva che l'altro era geloso. L'aveva scoperto da poco, effettivamente. L'aveva notato nelle occhiate che dedicava ad Axel, quando stavano assieme. E ne aveva avuto la certezza il giorno prima, quando gli aveva raccontato di quanto accaduto tra lui ed il suo migliore amico.
    “E io che avevo un regalo per te. Ma credo che te lo darò dopo il concerto.” Finse noncuranza, spostando lo sguardo altrove, tirandosi semplicemente su l'intimo con un gesto sciolto. Distratto quasi. Stradivari si fermò sulla soglia ad osservarlo con un'espressione perplessa disegnata in volto. Le sopracciglia abbassate, in attesa.
    “Va bene.” Se aveva sperato che gli avrebbe dato la soddisfazione di chiedergli subito cosa fosse, Violin si sbagliava di grosso. Era un tipo curioso di natura, Victor, ma non in maniera eccessiva. Inoltre, gli aveva dato una scadenza. Avrebbe atteso sino a quel momento ed in caso se ne fosse scordato, o avesse omesso volontariamente di consegnargli quella fantomatica “sorpresa”, l'avrebbe sollecitato rompendogli sapientemente le scatole.
    “Non sei curioso? Nemmeno un po'?” Gli occhi dell'uomo si posarono indagatori sulla schiena del violinista, registrando quel blando alzarsi delle spalle dell'altro in un gesto noncurante. E sospirò. Victor Stradivari, per lui, sarebbe rimasto un mistero sotto tanti punti di vista. Però quella felpa non gli rendeva decisamente giustizia. Storse le labbra nel fare quella considerazione, spostando l'attenzione sulla tastiera che si trovava dall'altra parte della stanzina.
    “No. Non particolarmente.” Dovette considerarsi fortunato se a quel gesto con le spalle, gli aveva rivolto anche ben tre parole, nonostante avesse palesemente la luna storta. Il suo ragazzo stava facendo progressi.
    “Così mi offendi.” Ironizzò, drizzandosi in piedi forse troppo rapidamente e barcollando appena. No. Non era stata la velocità dei propri gesti. Il suo cuore accelerò improvvisamente i propri battiti e per un istante tutto divenne troppo chiaro, sfocato, davanti a lui. La testa cominciò a pulsargli pesantemente, come se d'improvviso l'ossigeno presente nell'aria non fosse sufficiente per lui. Si posò con un gesto distratto, che voleva far passare per naturale, ad una parete.
    “Vado a farmi la doccia. Tu intanto p... riposati.” Stradivari dovette accorgersene, perché cambiò d'improvviso il proprio ordine. Volse appena il capo in sua direzione per controllare che non crollasse a terra, pronto in realtà a soccorrerlo. I muscoli delle gambe già tesi pronti a fare un passo, in avanti o all'indietro, se fosse stato necessario. Ma il sorriso dell'altro sembrò tranquillizzarlo, tanto che finalmente si decise ad uscire, lasciandosi la porta aperta dietro le spalle. Probabilmente un'accortezza per controllare che l'altro non stramazzasse.

    Il dietro le quinte non era mai stato così silenziosamente rumoroso.
Stradivari sedeva comodamente sulle ginocchia di Violin più per vezzo che per necessità di stare seduto. Lo sguardo concentrato ed altezzoso puntato verso il palco da dove provenivano le voci di Kirya e Lizzy che cantavano. Vedeva il pubblico. Lo sentiva rapito. Estasiato. Come se la tensione e l'eccitazione fossero palpabili nell'aria. Una sensazione quasi tattile. Una sensazione che inebriava tutti e cinque  i sensi. Non avevano anticipato niente a nessuno, di quella che sarebbe stata la loro performance a quello spettacolo. Anche la loro partecipazione era stata incerta fino all'ultimo. Ed invece adesso stavano deliziando la platea con un brano tratto dal “Messiah” di “Händel”. Non aveva mai sentito quella sorta di bambola orientale cantare brani che non concernessero il genere Pop o Rock, ma doveva ammettere che non si smentiva, con quella voce che prendeva delle sfumature decise quando richiesto. Bisognava ammettere però, che la moretta la superava senza difficoltà, seppure con la sua straordinaria capacità di non surclassarla. Di non coprirla o metterla in secondo piano. Con la sua voce alta e morbida che non strideva mai, eppure faceva venire la pelle d'oca. Sorrise quando, come per errore, una chitarra elettrica penetrò tra le loro voci, lasciando esterrefatto il pubblico, e facendo nascere un sorriso spontaneo sulle sue labbra, quando Axel fece la sua comparsa sulla scena, entrando dall'altra parte del palco. I capelli tornati neri, sempre un po' troppo lunghi e con qualche riflesso di un blu elettrico che alla luce dei riflettori brillava vivace. Un paio di jeans strappati facevano la loro figura sul suo fisico magrissimo. Ed una camicia decisamente troppo grande per lui, gli lasciava scoperta solo una parte del petto, mostrando un tatuaggio di quelli da bambini che non si capiva cosa fosse su una scapola. Gli scappò un sorriso divertito, mentre si ritrovava a pensare che il suo amico si stesse comportando esattamente come sempre. Ne fu sollevato. La musica cambiò presto. Entrò la batteria ed assieme ad essa il basso. E partì.
“Smell like teen spirit”.
    Perché loro profumavano ancora di un'ingenuità ormai disillusa. Di conoscenze che ancora si sperava fossero ignote. E di errori. Di diversità. Di quei pericoli che tanti corrono nella vita. In cui troppi incombono. Ed avrebbe voluto unirsi a loro. Gridare a squarciagola quel ritornello. Per una volta senza limiti. Senza freni.

    “A cosa pensi?” Gli domandò Violin dedicando uno sguardo noncurante ai loro compagni di scuola, guardandoli senza insistenza. Semplicemente perché erano nella sua linea d'aria. Eppure non si dimostrò arrogante. Tutt'altro. Sembrava piuttosto stanco e che quell'espressione derivasse da quello. Tanto che quando sorrise loro, d'istinto ricambiarono.
    “Al fatto che il tuo nome ti sta bene.” Ammise con tutta calma Victor, carezzandogli senza malizia un braccio. Solo per coccolarlo. Solo perché gli andava. Perché gli piaceva sentire a sua pelle a contatto con la propria. Avevano optato per tenere entrambi solamente la divisa scolastica estiva e le braccia erano rimaste scoperte per via delle maniche corte della camicia.
    “Mi sta bene?” Domandò senza riuscire a trattenere un'espressione interrogativa. Sbatte un paio di volte le palpebre, schiaffeggiando la pelle sotto gli occhi con quelle ciglia chiare e lunghe che si ritrovava. Annuì un paio di volte Stradivari, ciondolando il capo al ritmo del ritornello della canzone e battendo il piede destro a terra, coinvolto.
    “Sì. L'origine è Latina, credo. Significa 'caro a Marte'. E Marte, o Ares, era il Dio della guerra. E' come quando chiami una bambina... che ne so... Ilaria? Significa 'felice, ilare, gioiosa'. Se così non fosse, dovrebbe cambiare nome, no?- Cercò di stare dietro al suo ragionamento, Mark, dedicandogli una risata soffusa, perché era strano quando il suo ragazzo se ne usciva con discorsi simili. Gli conferivano un'ingenuità delicata che non dimostrava con nessuno. Sarebbe stato uno dei ricordi più belli che aveva di lui, di sicuro. Era bella quell'aria assorta e volubile che assumevano i suoi tratti. Pronti ad indurirsi di nuovo, in realtà, per lasciar spazio alla sua alterigia. Annuì un paio di volte, per comunicargli che stava dietro al suo discorso, invitandolo così anche a continuare. -Ti sta bene, insomma. Sembri un Dio, quando suoni il Piano, o qualunque altro strumento. Quando cammini per i corridoi oppure ti alleni. Sei l'essenza della forza, nonostante tutto. Ne sei l'emblema ed è tua. Sei forte come un guerriero di altri tempi e bello uguale, con quel tuo orgoglio affatto prepotente e quella tua fierezza che spesso cela una dolcezza inimmaginabile... non so se mi capisci.” Aveva farfugliato quelle ultime parole preso da una strana timidezza, Victor. Si era scoperto troppo, raccontandogli quanto pensava di lui e si sentiva nudo davanti al suo sguardo chiaro, simile al ghiaccio sul punto di liquefarsi. Era sul punto di ribattere, Violin, ma uno scroscio di applausi annunciò il loro turno. Solo in quel momento si resero conto degli sguardi sconcertati di quelli che stavano con loro da quella parte del palco. Soprattutto quando le braccia di Mark si strinsero più forte attorno la sua vita. Si volse in parte a sorridere al compagno, Stradivari, per poi guardare i loro colleghi che li stavano fissando, se possibile, ancora più allibiti. Sorrise anche a loro. Un sorriso vero. Sincero per una volta. Il sorriso di chi in quel momento sta bene con se stesso e con il mondo. Violin gli si avvicinò all'orecchio, intanto, soffiandovi un bacio ed ignorando, per contro, quegli spettatori un po' troppo invadenti.
    “The Show Must Go On.” Glielo sussurrò, costringendolo ad alzarsi dalle sue gambe. Si congratularono con il quintetto che abbandonava la scena, salutando con un abbraccio le due ragazze che si erano esibite, scambiandosi occhiate complici. Di chi già sapeva. Di chi approvava e viveva. Calcarono la scena con decisa eleganza. Forti. Fiduciosi. Era un brano originale. Una reinterpretazione di quanto loro stessi avevano composto in quell'ultimo periodo. L'avevano riadattato assieme quella mattina stessa e l'avevano provato si e no un paio di volte, ma sembrava uscire da solo dai loro strumenti. L'uno con il violino, l'altro con la viola. Un botta e risposta che nasceva spontaneo, come se tramite quegli archi stessero comunicando direttamente le loro anime. I loro sogni vennero liberati nell'aria tramite quelle note che si susseguivano -prede e cacciatori- e poi danzavano -dame e cavalieri. C'era un modo che prendeva vita nelle loro mani, come se loro fossero gli Dei che lo stavano generando in quel momento. La forza del caos, che veniva interrotta dalla morbida carezza della luce e che alla fine si riempiva di suoni e di colori nuovi. Ordinati e ben delineati. E c'erano ricordi, in quella melodia. Un incontro fatto di sguardi penetranti ed astiosi. D'insofferenza reciproca e di occhiate lanciate di nascosto. Di risate fatte tra amici e di gelosie che avvolgevano il cuore come serpenti, iniettando il loro aspro veleno. Parlava di brividi, quella sinfonia. Quelli sollevati per lo scampato pericolo e quelli arrabbiati. Quelli provocati dallo schioccare di un bacio e quelli per la paura di perdere qualcuno di caro. C'erano nove mesi della loro vita, lì dentro. E li stavano offrendo al pubblico con il cuore aperto. Una nota grave concluse il pezzo. Una nota che sembrò incombere nella sala come una minaccia. Un presagio di disfatta, perché anche gli Dei muoiono. Mark si avvicinò lentamente a Victor, passandogli un braccio attorno al collo in un gesto che in un primo momento non sembrò pesare, al violinista, lasciandolo interdetto solamente quando lo baciò innanzi all'intero pubblico. Aveva sancito la fine, con quel sapore un po' dolce ed un po' ferroso che gli aveva lasciato sulle labbra. Si inchinarono davanti alla platea, e nel silenzio lasciato dallo sconcerto nel pubblico, un tonfo ed un'altra nota grave si tesero nell'aria, suonando come una campana a lutto.




Ecco a voi un regalo di pasqua :)
Manca l'Epilogo e credo che lo pubblicherò domenica prossima :)
Vi auguro una buona pasqua, ragazze. 
Un grazie a chi ha seguito questa storia. Nel prossimo capitolo ringrazierò come si deve =)



Qui (Un piano rovinato dalla morte) c'è una piccola Shot realizzata da Red Leaves per questa storia. E' ambientata prima degli avvenimenti di questo capitolo. Vi prego di leggerla, perché è davvero piacevolissima :)

Un abbraccio.
   
 
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