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Autore: thefung    26/04/2011    13 recensioni
Isabella Swan è una ragazza di diciassette anni a cui viene diagnosticata la leucemia. Non reagisce male alla notizia, infatti è convinta che la sua vita non abbia senso, che questa malattia sia una 'manna dal cielo', mandata per alleviare tutte le sue sofferenze terrene. All'ospedale di Phoenix incontra un ragazzo dalla bellezza sconvolgente, Edward Cullen, suo coetaneo che, nonostante le carattersitiche fisiche, rimane sempre coi piedi per terra. E' qui per assistere una sua parente in malattia e, giusto per scacciare la noia, decide di scambiare due parole con Bella. Quest'ultima, piuttosto che raccontare al ragazzo il vero motivo per cui si trova lì, inventa una scusa, nascondedogli la sua malattia.
Da quelle che sembrano poche ed insignificanti parole, nasce un'amicizia che ben presto diventa un'attrazione travolgente. Purtroppo però il loro sogno sembrerebbe irrealizzabile, perché c'è ancora qualcosa che Edward non sa e che minaccia di distruggere tutto.
Tratto dal capitolo 11: "Lo sai che dalla calligrafia di una persona si può capire come essa sia?", mormorò Edward fissando il mio foglio scarabocchiato. Mi accigliai. "Mi stai dicendo che faccio schifo?". Sorrise. "No, affatto. Sto dicendo che tu sei diversa, sei speciale."
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
Capitoli:
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Your Guardian Angel

*° Capitolo Tredici: Ditale °*


POV BELLA

 
 
Calma.
Erano tre ore come minimo che mi imponevo di imprimere per bene nella testa quella parola, ma sembrava non esserci verso di non rischiare l’infarto ad ogni secondo trascorso a causa del battito cardiaco troppo veloce.
Eppure era strano. Mi ero addirittura chiusa dentro alla doccia, giunta all’esasperazione, convinta che almeno quel metodo sarebbe stato benefico.
E invece no.
Certo, la sensazione dell’acqua calda sul corpo era splendida, come al solito, così come lo era osservare le nuvole di vapore che appannavano i vetri del box doccia. E invece, erano stati proprio questi ultimi a causarmi dei problemi.
Mi ero incantata a fissare le goccioline che vi scorrevano sopra, piccole e veloci, come se compissero un percorso tutto loro, una strada tortuosa che le avrebbe portate alla loro meta. E senza neanche rendermene conto, il mio dito indice aveva preso a tracciarne il contorno, a disegnare stelline e puntini sul vetro che, col passare dei secondi, erano diventati cuoricini, nomi.
Un Edward  Bella, in particolare, troneggiava al centro di una delle quattro pareti trasparenti, incorniciato dalle goccioline e dalle altre testimonianze delle mie enormi doti artistiche.
Chiusi gli occhi, piegando il capo all’indietro di modo che poggiasse contro le mattonelle fredde.
Calma, Bella, mi imposi un’ultima volta, prima di chiudere il rubinetto e uscire, completamente gocciolante, dalla doccia.
Non potevo neanche dare la colpa a qualcuno per quella situazione, avevo fatto tutto con le mie stesse mani, guidata dallo stupido cervello che mi ritrovavo. Anzi, più che dal cervello, quel pomeriggio, all’ospedale con Edward, mi ero fatta guidare dalle sensazioni che i suoi occhi verdi mi donavano, dalla sua vicinanza, dall’istinto.
Stavo per elencare anche un’altra fonte, ma scossi con fervore la testa, impedendomi anche solo di pensarci.
No, quel mio invito non poteva essere venuto direttamente dal cuore.
Mi asciugai e vestii in fretta e furia, tentando di tenere a bada i pensieri molesti e compromettenti.
Una volta terminato il tutto, dopo aver impiegato molto più tempo del necessario a causa della mia epica goffaggine, raccolsi i capelli bagnati in quella che voleva essere una coda ma che uscì una crocchia deforme e decisamente precaria.
La situazione stava peggiorando, ancora.
Dal giorno precedente, infatti, erano stati numerosi i capelli che avevo trovato sparsi sul cuscino la mattina, appena sveglia, oppure in vari angoli della casa mentre spolveravo durante il pomeriggio.
Avrei voluto fare qualcosa per bloccare quella caduta improvvisa, ma non potevo far altro che limitarmi a guardarli lì, per terra, deboli e fragili. Mi vedevo riflessa in loro quasi come se si trattasse di uno specchio. Anche io, infatti, mi sentivo sul punto di cedere, di abbandonare tutte le forze e lasciarmi cadere al suolo.
No, non era decisamente il momento migliore per pensare a cose del genere, soprattutto perché l’ansia dell’imminente arrivo di Edward bastava e avanzava già da sola.
Stavo per attaccare il phon alla presa della mia camera quando un trillo familiare giunse alle mie orecchie, chiaro e forte.
Dlin dlon.
Oh, cavolo.
Quasi feci cadere per terra l’elettrodomestico che tenevo tra le mani, per quanto forte era stata la sorpresa.
Corsi giù per le scale aggrappandomi al corrimano per evitare di ruzzolare e inciampare in uno dei gradini. Nella mia testa, in quel momento, non risuonava più la parola ‘calma’, bensì un’interminabile serie di imprecazioni.
Panico, panico, panico, panico.
Arrivata davanti alla soglia di casa, mi fermai un secondo, il tempo necessario per fare un rapido sospiro, sistemarmi una ciocca di capelli dietro l’orecchio e impormi ancora una volta di non pensare.
Già, perché se l’avessi fatto, mi sarei ricordata dello stato in cui mi trovavo – felpa trasandata, pantaloni della tuta consunti e, giusto per completare il quadro, capelli fradici – e avrei finto un malore pur di non andare ad aprire alla porta.
Girai la chiave nella toppa con decisione e fermezza, nonostante i continui brividi che correvano sulla pelle.
Non appena aprii la porta, la prima cosa che vidi fu Peter Pan.
No, non Edward da me soprannominato ‘Peter’; fu proprio lui, il ragazzo dell’Isola Che Non C’è, il bambino che non sarebbe mai diventato grande.
Be’, in realtà non me l’ero ritrovato proprio davanti in carne ed ossa – non ero certo la vera Wendy, io – ma la sua fedele riproduzione era stata abbastanza sorprendente da lasciarmi a bocca aperta.
“Hai portato il DVD di Peter Pan?”, sillabai infatti, continuando a fissare quella locandina dallo sfondo blu che quando ero piccola avevo ammirato con tanto di bava alla bocca, nella speranza che alla fine Renée cedesse e lo acquistasse.
“Pensavo che avresti gradito ”
Fu solo quando udii la sua voce serena che i miei occhi si spostarono dall’originario oggetto della loro attenzione, percorrendo con ansia e felicità i tratti del suo corpo, sino a giungere al volto.
“Ciao”, lo salutai deglutendo e abbozzando un sorriso a cui lui rispose prontamente, leggermente divertito. Mi squadrò velocemente dalla testa ai piedi, quel ghigno accennato sempre sulle sue labbra. “Sono in anticipo?”
Avvampai, certa di aver appena fatto una figura delle mie, giusto per non smentirmi mai.
“Solo un pochino …”, balbettai indietreggiando di qualche passo per farlo entrare.
“Però puoi benissimo sederti qui”, ripresi parlando a raffica e indicando il divano del salotto con la mano. “Io ci metto un attimo”.
Mi sorrise smagliante, nel tentativo di rassicurarmi. “Fai con calma”.
Chiusi gli occhi nel sentire quella dannatissima parola.
Sentivo che alla fine di quel giorno avrei preso il mio dizionario e l’avrei accuratamente cancellata.
Corsi sulle scale più veloce che potevo, maledicendo mia madre, Charlie e Phil per essere usciti.
Più mia madre che Phil e Charlie, se devo essere sincera. I due uomini si erano limitati semplicemente a farsi trascinare da Renée, con due espressioni da pesce lesso. Probabilmente ancora non avevano capito a cosa era dovuta l’improvvisa fuga da casa.
Renée, non appena aveva saputo dell’invito, aveva fatto i salti di gioia, aveva iniziato a straparlare e non c’era più stato verso di metterla a tacere.
Ed ora che lei non c’era – aveva ritenuto che la presenza in casa dei genitori fosse assolutamente da immaturi – toccava a me pensare alla casa e, in particolar modo, ai capelli.
Grugnii davanti allo specchio, osservando come i capelli bagnati ricadessero flosci sulle mie spalle.
Li asciugai il più velocemente possibile, approfittando di quei minuti per mettere a posto qualche cianfrusaglia sparsa in giro per la mia stanza e cambiarmi.
Dopo dieci minuti di corse, fui pronta. O meglio, presentabile.
Scesi le scale due gradini alla volta, sperando di non aver fatto aspettare troppo Edward.
“Eccomi, scusami se ti ho fatto asp …”, le parole mi morirono in gola quando vidi che il divano era vuoto, se non per il DVD appoggiato su un cuscino.
Deglutendo, mi appoggiai al calorifero – l’oggetto più vicino in grado di sostenermi. No, non poteva essersene andato.
“In questa foto sei davvero carina … anche se ti preferisco con tutti i denti”
Una voce divertita e serafica giunse dalle mie spalle, facendomi sussultare.
Mi voltai verso di lui con l’indice accusatore alzato, pronta a fargli una scenata su quanto mi avesse fatto spaventare, ma quando me lo ritrovai davanti, un sorriso meraviglioso mentre osservava la fotografia di quando ero bambina, non riuscii a far altro che starmene in silenzio, con la bocca già spalancata.
Quando se ne accorse, mi guardò perplesso per un attimo, prima di mettersi a ridere. “Qualcosa non va?”
Sbattei le palpebre e scossi freneticamente la testa, come per scusarmi.
Dio, che figura.
Mi avvicinai a lui a passo di carica – rossa in volto, ovviamente – e gli tolsi prontamente la cornice d’argento dalle mani approfittando di un suo attacco di risa.
Quando vidi la foto, per poco non mi venne la tentazione di prendere a testate la parete. Proprio quella doveva andare a prendere?!
Quella fotografia, infatti, era stata scattata quando avevo circa sette anni e mi erano appena caduti entrambi gli incisivi. Il mega sorrisone sdentato che avevo fatto, di conseguenza, era decisamente macabro.
Feci una smorfia, rimproverandomi di non aver tolto tutte le fotografie compromettenti e di non averle messe lontano da occhi indiscreti – ovvero quelli di Edward.
“Tua madre?”, proruppe improvvisamente.
“E’ uscita con mio padre e Phil, il suo nuovo marito.”
“Ah. I tuoi hanno divorziato?”, chiese con un sussurro.
“Sì, quando ero appena nata, ma hanno dei rapporti abbastanza buoni”
Sorrise. “E’ una fortuna, solitamente due genitori separati non vanno molto d’accordo.”
“Lo so”, abbassai lo sguardo sui miei piedi, cercando di ignorare il fatto che lui si stesse preoccupando per me, anche solo un pochino.
Mentre tornavo a guardarlo, i miei occhi caddero sull’orologio a parete. Erano le 19.20.
“Hai fame?”
“Se anche mentissi, il mio stomaco mi tradirebbe entro poco, ne sono sicuro”, ridacchiò grattandosi la nuca.
Risi anch’io, lieta che la conversazione si fosse alleggerita.
Lo guidai in cucina, ricordando il giorno in cui era venuto a casa mia per scrivere gli inviti di Carmen ed Eleazar.  
Non era passato molto tempo, mi accorsi con stupore.
Ci sedemmo, come l’altra volta, uno accanto all’altra, discutendo su cosa mangiare.
Lui insisteva perché fossi io a decidere; io, al contrario, continuavo ad affermare che l’ospite era lui e che quindi era suo il compito di scegliere.
“E va bene!”, mi arresi dopo dieci minuti, sfinita dal dibattito.
Edward schioccò la lingua, soddisfatto di aver vinto. Assottigliai lo sguardo. “Te la farò pagare, lo sai, vero?”
“E come, avvelenando il cibo che tu sceglierai?”
Ma bravo, sottolineava ancora una volta il trionfo!
“No, semplicemente dandoti in pasto al coccodrillo che mi fa da cane da guardia”, risposi con nonchalance, alzandomi in piedi ed andando ad aprire uno sportello della cucina per prendervi la confezione di lasagne.
“Alt, alt, alt.”, lo sentii pronunciare con tono estremamente solenne alle mie spalle.
Si era alzato in piedi anche lui.
“Qui abbiamo una crisi di identità”, continuò, sempre più vicino.
“Sì?”, pigolai fingendomi disinteressata.
“Già”, ormai sentivo il suo fiato sul collo.
Deglutii.
“Sbaglio o era Capitan Uncino quello che doveva essere destinato al coccodrillo?”, sussurrò alitando sulla mia nuca.
Chiusi gli occhi, richiamando a me tutta la sanità mentale che un tempo possedevo. M’imposi, inoltre, di non girarmi, per non rischiare di fare qualcosa di cui poi mi sarei pentita, preda dell’effetto che la sua vicinanza scatenava.
“Io dico che il coccodrillo sarebbe felice di mangiare anche Peter Pan”, proseguii a denti stretti, continuando a dargli le spalle.
“Ma il coccodrillo è amico di Peter Pan”.
Ridacchiai leggermente, alzandomi sulle punte per prendere una teglia da un ripiano più alto. “Lo è di più di Wendy”
“Stai sottovalutando il coccodrillo, lui è intelligente, capirebbe subito che Wendy è posseduta dal demonio”
Stavolta girarsi fu impossibile.
“Wendy?”, domandai scettica, ignorando il fatto che mi stesse letteralmente spingendo contro il piano cottura. “Posseduta dal demonio, Wendy?”
Alzò gli occhi al cielo, rendendosi conto dell’impossibilità della cosa.
“Tutto può succedere, ok?!”, esclamò esasperato, senza riuscire a trattenere una risata.
Mi unii a lui, cercando però di allontanarmi il più possibile.
E dire che mi sarebbe piaciuto stare là a stretto contatto con Edward.
“Allora”, riprese affiancandomi un’altra volta, “cosa stai cucinando di buono?”
“Lasagne. È uno dei piatti che preferisco e, senza l’intervento di mia madre, esce davvero molto bene.”, affermai orgogliosa mentre imburravo la teglia.
“Dovrei far sapere alla povera Renée che ne parli male alle sue spalle”
“Non sto parlando male di lei!”, ribattei guardandolo male. “E poi lei lo sa benissimo che non è una cuoca nata!”
Le sopracciglia di Edward si aggrottarono mentre con un dito mi aiutava a stendere il pezzettino di burro sulla superficie nera. “E allora perché continua a farlo?”
Bella domanda.
Prima di rispondere, attesi un secondo, riflettendo su cosa dire.
“Diciamo che sono io che … la sprono. Mia madre non ha mai voluto smettere di cucinare, nonostante i risultati fossero pessimi. Comprava ricettari su ricettari, seguiva programmi televisivi culinari … insomma, si dava un gran bel da fare.”
I miei occhi si sollevarono dalla teglia soltanto un attimo, quando le nostre mani, nello spalmare il burro, si incrociarono.
“E io non le ho mai detto di smettere, nonostante non gradissi mangiare roba bruciata”, sorrisi al ricordo di tutte quelle notti in cui andavo a letto a stomaco vuoto perché non avevo avuto il coraggio di dire a mia madre che avevo buttato le sue pietanze e che, quindi, ero rimasta senza cena. “Al contrario, la spingo molto a provarci perché vederla sempre all’opera e speranzosa che finalmente riesca ad imparare mi fa stare bene. E vorrei essere forte quanto lei per affrontare ogni difficoltà”
Dopo un minuto di silenzio, Edward prese parola. “Anche a me capita, ma non con mia madre, con mia sorella, Alice. L’hai vista, no? È sempre un uragano, sempre in movimento, sempre felice, entusiasta … a volte, quando io sono giù di morale, vorrei tanto avere un interruttore per spegnerla, poiché vedere tutta la sua allegria, in quei momenti, mi fa davvero saltare i nervi”, rise, ma non sembrava molto divertito.
“Immagino che però anche lei abbia i suoi momenti no
“Sì, certo, ma non molto spesso. Non quanto me, almeno.”
“Preferiresti una sorella sempre triste e di malumore?”, domandai, già sicura della risposta che avrei ricevuto.
“No … è solo che mi dà fastidio che sia sempre lei a dovermi consolare. È un pensiero egoista, lo so, ma mi piacerebbe tanto che a volte i ruoli si invertissero e che fossi io quello forte, quello incapace di piegarsi alla sofferenza”
“Ehi,”, dissi, abbandonando il mio lavoro e prendendogli una mano. Nessuna scossa elettrica, ma la sensazione fu comunque bellissima.
“Piangere non è certo una debolezza. Piangiamo tutti, chi più e chi meno, ma è una cosa normale. Non c’è da vergognarsene. E poi …”, un sorriso comparve sulle mie labbra, “ricordati che sei Peter Pan. I bambini piangono taaanto spesso …”
Scoppiai a ridere per la mia stessa battuta e lui, dopo aver scosso la testa fingendosi indignato, si diresse velocemente al lavello e fece scorrere l’acqua per qualche secondo, il tempo necessario perché mi rendessi conto di cosa stavo andando in contro.
Improvvisamente fui investita una miriade di spruzzi congelati e chiusi gli occhi, non sapendo se ridere o arrabbiarmi. Appena li riaprii, giunsi ad una conclusione.
“Sai, ripensandoci, avevi ragione. Wendy è davvero posseduta dal demonio…”
 
 
* * * * * *
 
 
- Io lo so che cosa sei!
- Sono il massimo che sia mai esistito!
- Sei una tragedia!
- Io? Una tragedia?!
- Ti stava lasciando, Peter Pan. La tua Wendy … ti stava lasciando.
“In questa parte odio seriamente Capitan Uncino. Ma si può essere così crudeli?! Cioè, lui sa che questo è il suo punto debole e lo colpisce proprio lì!”, il bisbiglio concitato di Edward mi fece ritornare alla realtà con un sussulto, talmente ero concentrata sul film.
Eravamo stati in silenzio tutto il tempo sino ad a quel momento, se non fosse stato per il rumore delle posate.
Eh, sì, alla fine avevamo deciso di mangiare le lasagne in salotto, seduti sul divano. Anzi, più che sul divano, appoggiati al divano.
“Per poter stare più comodi”, aveva detto lui, sfuggendo al mio sguardo, quando gli avevo chiesto come mai preferiva sedersi sul pavimento.
Effettivamente, però, non è stato scomodo, affatto. Non avevamo nemmeno preso i piatti, convenendo che mangiare direttamente dalla teglia non sarebbe stato poi questa gran tragedia.
Se fosse stata una giornata qualunque e se io fossi stata in me, gliel’avrei impedito, avrei preso i piatti e senza tante storie l’avrei costretto a mangiare da lì.
Ma quello non era un giorno come tanti.
Mi avvicinai di più a Edward, sollevando leggermente la testa per poter raggiungere l’altezza del suo orecchio. “Be’, non si può certo dire che siano grandi amici …”
Gli angoli della sua bocca si sollevarono leggermente, lasciando intravedere la dentatura perfetta. “Che poi, quando Uncino gli dice che è ‘incompleto’ è davvero il massimo. Voglio dire, ma guardati! Sei senza una mano! Più incompleto di così!”
Dopo aver ridacchiato per un poco, ritornammo a prestare attenzione al film.
O meglio, lui tornò a prestare attenzione al film.
Io, ormai, seduta così vicino a Edward, con la testa appoggiata sulla sua spalla, non ce la facevo; l’unica cosa su cui ero concentrata era il suo respiro lento e regolare.
Fino a qualche mese prima non avrei mai pensato che sarei finita a guardare ‘Peter Pan’ con un ragazzo come lui. Da quando l’avevo conosciuto, erano cambiate davvero tante cose in positivo, sebbene ci fossero ancora tanti, tanti problemi.
Sollevai di qualche centimetro la testa per osservare il profilo del suo volto.
Ammirai la fronte alta coperta dai ciuffi ramati illuminati dalla luce fioca del televisore, il naso dritto, la mascella squadrata, le labbra piene …
“Sai”, proruppe nuovamente, la voce roca mentre appoggiava il bicchiere di coca sul pavimento.
Mi affrettai a guardare il televisore. Eravamo arrivati al punto in cui Peter era stato buttato per terra da Capitan Uncino e tutti i bambini erano stati radunati attorno all’albero maestro.
Una delle scene più belle ed intense.
“Pensavo che nonostante io preferisca il libro al film, c’è una parte di quest’ultimo che mi piace molto”, mentre parlava il suo respiro raggiunse la pelle scoperta del mio collo, causandomi brividi.
“Mmm?”, pigolai distogliendo velocemente lo sguardo dai suoi occhi, troppo profondi.
“Sì. Si tratta della scena del bacio … è un momento magico, quello. Certo, tutta la storia è magica, ma quello è il momento che preferisco. È come se sia Peter che tutti gli altri accettassero per un attimo quel piccolo aspetto dell’essere adulti: l’amore. Quando si è bambini, infatti, l’amore è presente, certo, ma è fraterno, non così puro e sincero come quello delle persone più mature. E io … rispecchio questo Peter Pan, quello che vuole fare l’esperienza dell’amore, nonostante l’età. Io vorrei …”
Il mio respiro era veloce, forse più di quanto lo fosse il battito del cuore. Aspettavo con ansia incredibile che finisse la frase, eppure non riuscivo a voltarmi verso di lui, i miei occhi guardavano soltanto la televisione, senza vederla per davvero. C’era solo una sequenza di immagini che conoscevo a memoria.
Wendy che riusciva a liberarsi dalla stretta di uno degli uomini di Uncino; Wendy che veniva buttata accanto a Peter; Uncino che consentiva a Wendy di dare a Peter il suo addio; Wendy che donava a Peter un …
“… Un ditale”
Mi voltai immediatamente, colta alla sprovvista ancora una volta.
Ed i suoi occhi erano lì, grandi, accesi, illuminati da una luce propria, incredibilmente vicini a me.
“Desidererei tanto un ditale”, ripeté, scandendo bene parola per parola e avvicinandosi ancora, lentamente.
Non potevo credere che stesse succedendo.
Non potevo neanche illudermi che fosse vero.
Dov’era andata a finire la conclusione drammatica della mia vita? Il mio destino perennemente infelice e privo di amore e comprensione, se non quella dei miei genitori?
Chiusi gli occhi, aspettando con ansia e felicità l’inevitabile. Non riuscivo nemmeno a spiegarmi quelle sensazioni, così contrastanti tra loro da scombussolarmi totalmente.
E mi sorpresi incredibilmente quando riuscii a dar loro un nome – farfalle nello stomaco – un’emozione di cui avevo sentito parlare tanto nei romanzi d’amore che avevo letto.
Possibile che stesse capitando a me …?
Non appena avvertii la consistenza morbida e calda delle sue labbra sulle mie, seppi darmi la risposta.
Rimasi ferma, immobile a subire quel contatto meraviglioso e bollente, lasciando che fosse lui a guidarmi in quel vortice di sensazioni incredibili.
Le muoveva piano, dolcemente, senza forzarmi.
Era stupendo.
Si staccò dopo un tempo che mi sembrò troppo poco e interminabile contemporaneamente.
Avvampai più di quanto avessi mai fatto, consapevole che quel piccolo gesto avrebbe determinato tanti cambiamenti.
Osservai Edward sorridere, imbarazzato e sereno allo stesso tempo.
“I-io …”, sussurrò, sul punto di dire qualcosa, ma lo misi a tacere buttandogli le braccia al collo.
Avrei desiderato farlo tante volte e la mia felicità fu incalcolabile quando finalmente sentii il suo profumo ancora più da vicino, in un modo ancora più intenso, e quando sentii le sue braccia avvolgermi e scaldarmi.
Sapevo bene che probabilmente non aveva mai avuto una reazione del genere da una ragazza subito dopo il loro primo bacio, ma non m’importava.
Dovevo abbracciarlo, dovevo tenerlo stretto a me, dovevo ringraziarlo di tutto ciò che aveva fatto, della speranza e della fiducia che mi stava donando, nonostante lui sapesse bene che gli nascondevo qualcosa.
Nonostante la televisione ad alto volume, percepii chiaramente il rumore delle chiavi nella serratura, ma non reagii, come se si trattasse di un mondo a parte.
Solo quando mia madre parlò, capii di non essere in una situazione molto … semplice.
“Ragazzi, siete a casa?”


Credetemi se vi dico che mi vergogno a postare dopo tutto questo tempo.
Credetemi se vi dico che mi dispiace davvero da morire.
Credetemi se vi dico che c'è mancato poco perché decidessi di cancellare tutte le mie storie.
Credetemi se vi dico SCUSATE!!!!!!!
So che siete tutte quante arrabbiatissime con me - e fate bene - ma vi prego di perdonarmi.
Quando si comincia una storia bisogna prendersi le proprie responsabilità e quindi postare regolarmente, ma tutto parte dal piacere che si trae scrivendo, sfogandosi con le parole e immaginando le vite di personaggi immaginari.
Io avevo bisogno di ritrovare questo piacere, questa sensazione di gioia e di completezza che trovo soltanto quando mi metto al pc a scrivere. Fino a poco tempo fa, infatti, aggiornare era diventato un obbligo, un dovere, quasi alla pari dei compiti scolastici.
Mi sono resa conto di star vivendo il mondo delle fanfiction troppo male e questo è uno dei motivi che mi ha spinto a prendermi una pausa.
Quello principale, invece, è che ho avuto un periodo un tantino pazzo. Nel senso che mi sono innamorata e, si sa, il periodo dell'innamoramento è uno dei più belli e felici. Peccato che dopo questo arrivi il momento di fare i conti con le dichiarazioni, con le scoperte e con l'indifferenza. Sono stata benissimo e malissimo ed è stato difficile gestire la cosa. Per fortuna ora ho trovato un po' di equilibrio. Per questo ringrazio da morire la mia GingerS, la mia The Red One e la mia Freddy Barnes. (Un ringraziamento va anche a
Niji_Shoku no Yume poichè senza di lei la mia sorellona non sarebbe così felice e, di conseguenza, anch'io! Grazie, Cla ;))
So anche che avrei potuto mettere un avviso, ma ero sempre lì, sul punto di dire "oggi mi tolgo da EFP" oppure "oggi mi metto a scrivere e aggiorno".
Vi chiedo, di conseguenza, ancora una volta scusa da morire.
Adesso, invece, passiamo al capitolo.
Come vi avevo detto nello scorso, questo capitolo era già stato scritto - un motivo in più per cui avrei dovuto aggiornare prima. Peccato che questo abbia complicato le cose. Il capitolo che avevo scritto non mi piaceva più, l'ho modificato tantissime volte sino a lasciarlo stare per un po' e rimettermi completamente a riscriverlo in queste vacanze.
Finalmente il momento tanto atteso è arrivato, anche se senza rivelazioni da parte di Bella.
Mi auguro con tutto il cuore che vi sia piaciuto e che mi perdoniate!
Se voleste anche recensire, poi ... sapete che a me fa sempre MOLTO PIù CHE PIACERE!
Un bacio enorme a tutte! Anzi, che dico, UN DITALE a tutte!
Elena

P.S. Alle scorse recensioni risponderò con calma. Perdonatemi anche per questo, ma,  come ripeto, la situazione non è semplice!

P.P.S. Per chiunque si chiedesse a quale scena corrispondessero le battute di Peter Pan che ho scritto, potete dare un'occhiata qui (sono le prime che sentite^^)

P.P.P.S. Ero talmente presa dalla felicità di aggiornare di nuovo che mi sono dimenticata di farvi gli auguri di Pasqua in ritardo! xD Perdono anche per questo!!! XD
   
 
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