Il
paese dove non si può morire
C’era una volta un piccolo paesino,
immerso tra montagne e colline, dove la morte non sopraggiungeva tra gli
abitanti. La sua leggenda si era narrata negli anni, da padre in figlio, nei
paesini a valle. Ogni bambino, una volta ascoltata la storia, rimaneva
totalmente affascinato ed entusiasta nel sentire di questo luogo che ai loro
occhi appariva come il luogo più bello del mondo.
Se nessuno moriva, non c’era mai
dolore, mai separazione.
Nella mente dei bambini c’erano le immagini
delle loro madri che piangevano per i mariti che partivano per la guerra, le
mamme si disperavano perché temevano la loro morte.
La morte era una cosa brutta, un evento che
provocava solo dolore.
Ed era un evento che toccava a tutti, era
stato loro insegnato.
L’uomo, prima o poi, moriva.
Cosa c’era di bello in questo? Quale
piacere o gioia poteva provocare la morte? Nulla di buono restava dopo il suo
passaggio.
Perciò l’immagine di quel paese
diveniva quasi come un mito nella mente dei fanciulli: un paese dove la Morte
è costretta ad inginocchiarsi, a depositare la sua falce e a cambiare
direzione.
I padri raccontavano di come ci avessero
provato in moltissimi a raggiungere questo paese, ma di come nessuno ci fosse
riuscito o comunque nessuno era mai tornato indietro per raccontarlo. Questo
per la difficile e impervia posizione del villaggio, che si diceva fosse
situato sulla cima di un’altissima montagna. Per arrivare a questo monte
la strada era lunga e difficoltosa a causa delle catene di monti e delle
colline che rendevano la vetta una meta quasi irraggiungibile.
In molti si perdevano nei boschi, altri
cadevano giù dalle montagne, altri se pur arrivano al monte non
riuscivano a scalarlo in quanto la montagna, salendo sempre più su, si
copriva di neve ed era difficile, se non impossibile, resistere al freddo e al
gelo, senza cibo né acqua.
Era anche quindi per queste questioni
logistiche la storia del paese senza morte divenne leggenda e mito.
Un luogo così non poteva trovarsi in
un posto accessibile, era troppo bello perché fosse alla portata di
tutti.
Tutti i bambini sognavano di poterci andare,
un giorno. Volevano tutti mettersi in cammino per cercare la città
eterna.
Soltanto con il passare degli anni, capivano
che la città fosse solo una leggenda e rinunciavano al loro sogno.
Tutti i bambini avevano abbandonato il loro
desiderio, tranne uno.
Henry, uno di quei tanti bimbi che
ascoltavano increduli le storie del paese eterno, non credeva che quella storia
fosse solo frutto della fantasia.
Non credeva fosse un luogo immaginario che
veniva raccontato ai bambini soltanto perché non si perdesse il ricordo
di una bella fiaba.
Aveva da poco compiuto diciotto anni quando
aveva deciso di intraprendere il cammino per trovare il paese.
Gli anziani del suo villaggio gli avevano
detto di tutto per farlo desistere dal quel progetto che loro consideravano
folle. Non si sapeva una direzione precisa né vi erano indicazioni e poi
ormai, nessuno più credeva in quella storia.
Un paese senza morte poteva realmente esistere?
Sarebbe stato semplicemente troppo bello e
gli uomini forse non erano neanche degni di un tale dono.
Ma Henry era convinto che esistesse, ci
credeva fermamente. Perciò, ignorando i consigli degli anziani, una
mattina partì verso il paese.
Uscendo dal suo villaggio prese una via che
si addentrava in un bosco che si estendeva per molte miglia. Respirando e dando
un’ultima occhiata dietro di lui, dietro ciò che lasciava,
partì.
Il viaggio fu lungo e faticoso, pieno di
insidie e di pericoli. Il bosco si era rivelato più lungo e molto
più difficile da attraversare e si era rilevato pieno di ostacoli.
Si era dovuto difendere notte e giorno da
animali e da problemi come il reperimento di cibo e acqua.
Riuscendo ad uscire dal bosco era poi
arrivato alla catena montuosa in cui prevedeva ci fosse, alla fine, la montagna
della città eterna.
Passò quasi due mesi su quelle
montagne, incontrando persone di altri villaggi che sempre gli consigliavano di
lasciar perdere il suo folle progetto. Non c’era niente su quella
montagna.
Ma Henry non voleva ascoltare nessuno. Con
determinazione prendeva il suo zaino e si lasciava puntualmente indietro ogni
cosa che passava.
Era una mattina soleggiata quando finalmente
arrivò ai pendii del monte. Cominciò a ridere forte quando se ne
accorse perché si sentiva vicino al suo obiettivo.
Il pensiero che su quella cima non ci fosse
nulla neanche lo sfiorava, lì c’era ciò che cercava, lo sentiva.
Iniziò la scalata della montagna,
armato di speranza e coraggio. Salendo sempre più iniziava a fare sempre
più freddo finché non salì così in alto che
arrivò alla neve. Si coprì con gli abiti che aveva portato dalla
sua casa e continuò. Diventava ogni metro più difficile, il
freddo e la fame lo consumavano.
Le provviste che aveva si erano esaurite
velocemente e si cibava soltanto di qualche raro animale che riusciva a
catturare. Un giorno volava in pochi metri e all’alba dell’ottavo
giorno di scalata pensò, per la prima volta, che non ce l’avrebbe
fatta.
Si era seduto per riposare e quel dubbio lo
colpì violentemente. Non credeva sarebbe stato così difficile ed
estenuante. Gli doleva tutto il corpo e ogni muscolo bruciava e congelava allo
stesso tempo. Sarebbe stato più facile rimanere lì seduto e non
faticare più.
Forse era tempo di arrendersi.
Poi ripensò alla leggenda tante volte
narrata da suo padre e da suo nonno e la fiammella della speranza si riaccese
piano in lui, combattendo il gelo della montagna.
Si rialzò e, stremato, continuò
a salire.
Quando era ormai calata la notte si accorse
che ce l’aveva fatta. La salita era finita, era arrivato alla cima della
montagna.
Si rallegrò ma la stanchezza lo
sopraffece e si addormentò tenendosi ben stretto alla terra.
Il mattino dopo lo riscosse il canto di un
uccellino.
Esterrefatto per quel suono, si riscosse
velocemente da terra.
Era da quando aveva iniziato la scalata che
non sentiva gli uccelli cantare. Aprendo gli occhi e alzandosi la meraviglia lo
colse impreparato.
Sotto di lui c’era la neve e anche
all’inizio della cima c’era solo bianco, per cui prevedeva che
anche la cima fosse immersa nella neve.
Invece davanti a lui si estendeva una pianura
verdeggiante, piena di alberi e cespugli fioriti. Nei rami gli uccelli
cantavano e nei cespugli si intravedevano conigli che saltellavano.
Stupefatto avanzò di qualche passo
verso quella sorprendente primavera. Era come se si entrasse dentro una bolla,
la neve e il gelo restavano fuori.
Camminò nel boschetto soleggiato,
spogliandosi degli abiti pesanti che aveva indossato per il freddo. C’era
una temperatura ottimale, come in una perfetta primavera.
Non passeggiò a lungo, infatti
incontrò dopo pochi metri un vecchio che stava seduto su una seggiola di
legno ai piedi di un grande nocciolo.
La sedia a dondolo lo dondolava su e
giù e la testa era piegata per sotto, non la alzò al passaggio di
Henry e così lui non poté neanche vederlo in faccia.
«Signore? Scusi il disturbo, dovrei
farle una domanda…» tentò Henry
provando ad avvicinarlo. Il vecchio non rispose ed Henry decise di proseguire
la sua camminata.
Dopo poco arrivò alla porta di una
città, c’era infatti un grande portone di legno circondato da
lunghe mura di pietra che proteggevano ciò che c’era al di
là della porta. Henry poggiò una mano sopra il portone che
cigolando cedette al suo tocco aprendosi leggermente.
Il ragazzo, armandosi di coraggio, spinse
più forte in modo da poter entrare dentro.
Ad accoglierlo furono i rumori tipici di un
paese normale, la gente si svegliava e il lavoro iniziava. Gli uomini e le
donne passavano di casa in casa e i bambini giocavano al centro della piazza,
correndo e ridendo.
Henry si chiese se fosse nel posto giusto,
finché un uomo non si accorse della sua presenza e gli corse incontro
con un sorriso che gli attraversava mezzo volto.
«Uno straniero! Amici, un forestiero
è giunto fin da noi!» gridò l’uomo abbracciando Henry
che stupito ricambiò. Tutti, al sentire quella notizia, lasciarono
ciò che stavano facendo per andare da Henry che, imbarazzato, ascoltava
i benvenuti allegri di tutti.
«Qual è il tuo nome?»
chiese poi un uomo alto, con i baffi, facendosi spazio nella folla formatasi e
avvicinandosi a Henry.
«Henry, signore.» rispose lui,
immaginando che quell’uomo fosse una specie di sindaco del villaggio
visto che tutti si erano zittiti alla sua domanda.
«Oh Henry. A nome di tutti, ti do il
mio più caloroso benvenuto nel paese dove non si muore mai. Io sono il
sindaco Wallace.» disse l’uomo stringendo la mano ad Henry che
ancora non credeva di essere riuscito nell’impresa che tutti ritenevano
pazza ed impossibile.
«Ci sono davvero arrivato? Sono mesi
che cerco questo paese. I miei avi mi hanno parlato sempre, da piccolo, della
leggenda di questo posto. Io volevo assolutamente trovarvi.»
«Sì, tentano in molti. Ma
solitamente quasi mai nessuno ci riesce, è per questo che siamo
così felici di vederti.» spiegò Wallace.
Henry sorrise e poi fu portato dentro al
paese e presentato ad ogni abitante.
Il paese era effettivamente molto piccolo,
non comprendeva più di una quindicina di case che si avvolgevano a
cerchio, con la centro la piazza principale e alle spalle la chiesa.
La vita che iniziò da quel giorno per
Henry fu molto piacevole. Le prime sere ogni giorno celebravano banchetti per
lui che pian piano imparò a conoscere tutti gli abitanti. Il fabbro, il
fornaio, l’agricoltore, la sarta e tutti i bambini.
La persona che sempre ringraziò di
conoscere fu Isabel, la figlia di Wallace. Era considerata la ragazza
più bella del villaggio ed Henry concordava pienamente. Aveva dei lunghi
capelli biondi che incorniciavano un’ovale candido, decorato con due
splendidi occhi verdi come smeraldi splendenti.
Henry se ne era innamorato a prima vista,
affascinato anche dall’adorabile rossore che le aveva dipinto le guancie
la prima volta che si erano visti e lui si era complimentato per la sua
bellezza.
Restò nel paese per ben due anni.
Con il tempo si era integrato perfettamente
con la realtà del paese, scoprendo che Isabel ricambiava i suoi
sentimenti e lavorando come contadino nei campi.
Aveva inoltre notato come effettivamente la
morte non sopraggiungesse mai. In due anni non era mai morto nessuno e non
erano mai neanche cambiate le condizioni climatiche. Era primavera tutto
l’anno.
Il paese era congelato, lì il tempo
non trascorreva mai.
Gli abitanti erano felici e trascorrevano le
giornate tra risate e scherzi.
Tutto questo aveva conquistato Henry che
ringraziava di aver trovato quel luogo celestiale che mai avrebbe lasciato.
Il solo pensiero di poter vivere per sempre
con Isabel lo riempiva di gioia e di felicità. Non avrebbe mai dovuto
piangere la sua morte, né lei la sua come aveva visto fare a sua madre
quando suo padre era morto in guerra, lontano da casa.
Un giorno chiese ad Isabel da quanto tempo
fossero in quella situazione e se avesse mai visto un posto al di là del
loro paese.
«Se pure l’ho visto, non riesco a
ricordamelo. Penso sia passato così tanto tempo che non ho più
ricordi del mondo fuori questo paese.»
«E non ti piacerebbe uscire? Vedere il
mondo fuori?» le chiese Henry.
Lei si voltò spaventata ed incredula: «Ma
non dire cose così folli! Se uscissi morirei.» e troncò
lì la discussione.
Da lì Henry cominciò ad
accorgersi di quanto quella felicità ingannasse.
Era vero, non c’erano mai funerali ma
non c’erano mai neanche battesimi.
I bambini con cui aveva giocato due anni prima
erano esattamente gli stessi di due anni dopo, le azioni quotidiane si
ripetevano giorno dopo giorno senza mai un cambiamento.
Nessuno usciva né mai entrava da quel
portone di legno che aveva varcato due anni addietro. Il desiderio di uscire e
di vedere di nuovo il boschetto al di là del paese si faceva ogni giorno
più forte. Il ricordo del vecchietto aumentava ancora di più
questo desiderio finché, un giorno, decise di uscire. Aprì piano
la porta e lo scenario che trovò fu quello di due anni prima, uscì
e passeggiò fino al nocciolo dove ritrovò il vecchietto nella
stessa posizione di quella volta.
Come se non fosse passato il tempo. Era realmente passato?
«Ora capisci l’importanza della
morte, figliolo?»
Henry si voltò spaventato verso il
vecchio che aveva parlato. Lui alzò la testa grigia e lo inchiodò
con i suoi penetranti occhi azzurri.
«La morte?»
«In questo paese non si può
morire. Questo perché il tempo non passa mai, non c’è
lentezza peggiore dell’eternità.»
«Tutto si ripete uguale.»
constatò Henry, trovandosi pienamente d’accordo con il vecchietto.
«Qui c’è tutto. Un ottimo
clima, ottime persone e ogni cosa per stare bene. Non manca niente per essere
felici.» continuò Henry, ripensando alla gioia di quei due anni.
«Tranne la vita.»
Henry lo guardò sorpreso.
Vita?
Lui stava vivendo…
o no?
Quella poteva essere definita vita?
«L’uomo cerca sempre la vita
nella negazione della morte. Se muori non c’è vita, quindi un
paese in cui non si muore è il sogno di uomo. Ma in realtà
è solo la condanna della vita.»
«Ma sono tutti felici lì. Non
c’è mai tristezza.»
«Non c’è niente, Henry. Non si ricordano neanche
cosa sia la felicità o il dolore. Vanno avanti ma in realtà sono
fermi, statici, sono già morti, seppur non fisicamente, e non lo
capiscono neanche.»
«Io credevo che sarebbe stato un mondo
migliore, senza morte e senza dolore.»
«La vita e la morte non possono essere
divise, Henry. Necessitiamo del male per apprezzare il bene, noi siamo umani.»
Henry si voltò verso il suo paese
eterno. Due anni non erano passati, alla fine.
«Me ne andrò. E
convincerò Isabel a venire con me.»
Il vecchio non rispose, riabbassando la
testa, facendogli capire che non avrebbe detto altro.
Henry corse via, rientrando nel paese e
andando da Isabel che lo guardò preoccupata vedendolo così
agitato.
«Henry, stai bene?»
«Andiamo via Isabel.» le disse
lui offrendole la mano. Lei lo guardò preoccupata.
«Via da dove?»
«Da qui. Da questo paese, Isabel. Vuoi
continuare ad esistere così? Ogni giorno si ripete uguale
all’altro, non c’è mai nulla di nuovo, nulla che ci possa
rendere felice.»
«Ma io sono felice. Sono insieme a te e
qui niente può farci del male.»
«Isabel ma non vuoi avere un figlio?
Non ne avremo mai stando qui, non cresce niente in questo paese. Non è
un paese senza morte ma senza vita.»
Isabel iniziò a piangere, scossa da
quelle parole che gridavano una verità che tutti tentavano di ignorare,
chiusi nella loro bolla di paura.
«Ma se andiamo via, un giorno
morirò. Tu morirai.»
«Non devi avere timore della morte, Isabel.
Lei è una parte di cui necessitiamo per vivere.» le rispose
avvicinandosi e baciandola.
Lei lo strinse forte mentre gli diceva che
sì, voleva andarsene con lui.
Il giorno seguente comunicarono a tutti la
loro notizia che fu accolta con stupore e incredulità, chi mai poteva
volere la morte?
«Venite con me tutti. Qui non
c’è più niente per voi.»
Tutti scossero la testa con orrore a quella
proposta mentre il sindaco era fuori di sé dalla rabbia. Soltanto alla
fine di una lunga litigata Isabel riuscì a convincerlo.
«Non passate dalla strada da cui sei
venuto, c’è ne è un’altra più agevole e sicura
dietro il villaggio.» disse Wallace tra le lacrime.
Lacrime.
Isabel non ricordava neanche quando era stata
l’ultima volta che avevo visto suo padre piangere o arrabbiarsi.
Salutarono tutti e poi arrivarono preso
nell’altra parte della cima, pronti a scendere. Sotto si vedeva la neve.
Isabel la guardava scioccata, lei forse non ne aveva mai vista.
«E ora andiamo allora?» chiese
timorosa.
Lui le strinse forte la mano. «Sì,
non avere paura. Andiamo a vivere.»
Fine.
Allora, questo è un racconto a cui io
tengo moltissimo, lo amo. Mi è carissimo per ogni sua frase, per ogni
sua virgola.
Spero che vi piaccia, spero di suscitare
almeno un po’ delle emozioni che ho provato io scrivendolo e non lo dico
per dire che è bellissimo xD ma perché mi
è caro in maniera particolare.
L’ho inserito nella categoria “Avventura”
anche se non sono molto sicura o.ò ma le altre
opzioni non mi convincevano.
Un bacio, commentate u.u
Marty De
Nobili