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Autore: Shizue Asahi    28/04/2011    1 recensioni
Gli angoli della bocca le si inarcarono verso l’alto, in un sorriso, come a volersi scusare con lo specchio, in una muta indifferenza.[...]
Noah osservò sospettoso il contenuto del suo piatto, imitato dai figli, prima di pronunciare la preghiera di ringraziamento:
-Signore ti ringrazio per questo cibo, ma fa che non mi uccida!-

Dovrebbe essere anche pubblicato sul giornalino della scuola, ma sinceramente rileggendolo ho i miei dubbi, voi che ne dite? Sì, vi sto gentilmente invitando a recensire!
Genere: Commedia, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Sono un peso per me stessa, sono un vuoto a perdere…”

Noemi.

 

 

Marie J. Pinckelton

 

Con stizza aprì il mobiletto del bagno. Osservò con poca attenzione le boccette che vi erano stipate e alla fine ne afferrò una. La soppesò per qualche secondo e poi la scosse. Sbuffò, lasciandola di colpo, constatando che era vuota.

Il contenitore di plastica si esibì in una serie di giravolte prima di atterrare nel cestino dei rifiuti.

Richiuse l’armadietto con un po’ troppa forza e il legno di cui era fatto scricchiolò.

Strinse le mani sul lavandino e, tendendo le braccia, vi abbandonò il peso del suo corpo.

Guardò la sua immagine riflettersi nello specchio.  I capelli castani le coprivano il viso; ricci e ispidi si contorcevano in curve innaturali, le sfioravano il volto, lasciando intravedere le labbra sottili, secche e pallide, gli zigomi alti, gli occhi marroni, spenti, vuoti, contornati da lunghe ciglia nere e occhiaie rosse e gonfie.

Gli angoli della bocca le si inarcarono verso l’alto, in un sorriso, come a volersi scusare con lo specchio, in una muta indifferenza.

 

La cucina era colorata da un’allegra luce giallognola. I raggi solari filtravano attraverso le tendine ricamate dell’unica finestra e si andavano a posarsi sul tavolo rettangolare situato al centro della stanza.

I piatti bianchi, tondi e lucidi erano disposti con minuziosa precisione nello scolapiatti, così come i bicchieri e le tazze utilizzate quella mattina per la colazione.

Il frigorifero bianco e bombato era ricoperto da foto, appunti, promemoria, disegni, abbozzi raffiguranti una casa, una famiglia, un’automobile.

Il timer del forno scoccò producendo un trillo alto e penetrante.

Una donna si presentò sulla soglia della porta della cucina. Alzò il mento e le labbra le si allargarono in un sorriso smagliante.

Dilatò le narici e tirò un profondo respiro e i suoi recettori olfattivi guizzarono, eccitati dal delizioso profumo proveniente dal forno.

La donna entrò nella stanza e la gonna gonfia e larga, incredibilmente simile alla cappella di un fungo, ondeggiò.

Si infilò due grossi guanti da cucina a fiorellini blu e aprì il forno. Ne tirò fuori un grosso, grasso e tondo tacchino. Si passò la lingua sulle labbra tinte del rosso del rossetto, mentre la pelle dorata e croccante del pennuto si tendeva e gonfiava a causa del cambiamento di temperatura.

Lo osservò compiaciuta, inebriandosi del piacevole profumo.

Spense il forno e rimise dentro la teglia, lasciandone socchiuso lo sportello.

Fece una giravolta su se stessa e la gonna verde pisello si sollevò e ondeggiò. Aprì un cassetto e ne estrasse un lungo coltellaccio dalla lama seghettata. Da un altro cassetto prese un tagliere, poi allungò una mano dalle unghie smaltate e squadrate e afferrò, dal cesto della verdura, un pomodoro rosso e dall’aria succosa, incredibilmente lucido. Sogghignò, pensando a come esso assomigliasse in maniera straordinaria alla testa di suo marito.

Affondò la lama del coltello nel pomodoro, sorridendo amorevolmente quando il succo rosso bagnò la superficie lignea del tagliere. Con minuzia sistemò i pezzi di pomodoro in un’insalatiera gialla.

I capelli castani e ricci erano stretti in un alto chignon e alcune ciocche le carezzavano gli alti zigomi.

Ripose il coltellaccio nel lavello e iniziò ad apparecchiare. Quando la tavola fu pronta uscì dalla cucina, rassettò il soggiorno, sprimacciò i cuscini del divano e passò nuovamente a cera sul parquet.

Quando il campanello di casa suonò era intenta a spolverare la libreria dello studiolo del marito. Rimase sollevata sulle punte dei piedi, il piumino stretto in una mano e lo sguardo trasognato dipinto sul viso.

Si riscosse solo quando il campanello suonò una seconda volta. Lasciò cadere il piumino che atterrò sul pavimento con un leggero tonfo.

Per qualche secondo si lasciò prendere la panico, rotto il suo placido silenzio e la sua apparente calma. Poi, d’un tratto, si ricompose: si sistemò con le mani i capelli, ravvivando le ciocche lasciate libere dalla crocchia.

Frettolosamente uscì dallo studio e a larghe falcate si diresse verso la porta d’ingresso, percorrendo il largo corridoio che divideva in due la casa.

Quando fu davanti alla porta, si diede un’ultima occhiata nello specchio dell’ingresso e socchiuse le labbra, notando che un leggero rossore le imporporava le guance.

Per la terza volta il campanello dovette suonare prima che la donna si decidesse a poggiare la mano sul pomello della porta e a farlo ruotare, aprendola.

Sulla soglia di casa le si presentarono il marito, un uomo alto e allampanato, dalle braccia e dalle gambe stranamente lunghe e ossute, simili alle zampe di un ragno, e dal ventre gonfio, che ricordava vagamente le fattezze del tacchino che si stava raffreddando all’interno del forno. La donna si sforzò di sorridere al marito, spostando subito l’attenzione sui loro figli. Con sua somma disapprovazione la donna vide gli angoli della bocca dei bambini sporchi di una sostanza che identificò come cioccolato, la stessa delle macchie che davano bella mostra di sé sulle magliette che i due bambini indossavano, e che lei, la sera prima, si era premurata di lavare e riporre, piegate e stirate, all’interno dei loro armadi. Le sue sopracciglia si contrassero in un cipiglio severo e seccato, ma il sorriso, come di consuetudine, non le abbandonò il viso, anche se, per qualche secondo rassomigliò più a una smorfia che a un vero e proprio sorriso.

Si trattenne dal fulminare il marito con lo sguardo, conscia dell’inutilità di quel gesto, e si limitò a farsi da parte per permettere loro di entrare in casa.

Fulminei, i bambini percorsero il corridoio che divideva in due la casa, spintonandosi, e salirono a due e due i gradini delle scale che portavano al piano di sopra.

Lei, invece, richiuse la porta e rimase ferma, osservando il marito che si liberava dal cappotto.

L’uomo si voltò verso la moglie e questa, come ogni giorno, gli si avvicinò e, con alcuni movimenti esperti, gli sfilò la cravatta. In segno di ringraziamento, lui le baciò la fronte, felice di non essere stato strozzato neanche quel giorno.

-Vai a lavarti le mani e fallo fare anche ai bambini, caro.- disse con voce squillante e inverosimilmente allegra – La cena è quasi pronta.- terminò, provocando un singulto all’uomo.

-Ma Marie J. Cara, casa ne diresti di andare a cena fuori?- propose, nel tentativo di scamparsela.

-Domani, Noah caro, domani.- rispose la donna con un mezzo sorriso, entrando in cucina e chiudendo lì, inesorabilmente, il discorso.

 

La famiglia si era riunita in cucina. Noah era seduto a capotavola e i due figli sedevano alla su destra. Tutti e tre osservavano vagamente preoccupati Marie J. Trafficare vicino ai fornelli.

Noah si passò un fazzoletto sulla fronte e, andando a smuovere la fitta e folta chioma di finti capelli che, come un grosso scoiattolo stecchito, gli stava immobile sulla testa, mise in mostra il cranio calvo e lucido, simile al pomodoro che quel pomeriggio sua moglie aveva affettato.

Quando Marie J. Sia avvicinò loro con in una mano la teglia contenente il tacchino e nell’altra un coltellaccio, si ritrassero istintivamente.

Con delicatezza sventrò il pennuto, disossandolo e ne mise un pezzo nel piatto di ciascuno; poi, alla fine, si sedette con loro.

Noah osservò sospettoso il contenuto del suo piatto, imitato dai figli, prima di pronunciare la preghiera di ringraziamento:

-Signore ti ringrazio per questo cibo, ma fa che non mi uccida!-

 

Quando anche l’ultimo piatto fu lavato, asciugato e riposto nella credenza e la cucina tornò linda e pulita, Marie J. Si sfilò i guanti di plastica e uscì dalla cucina.; mosse qualche passo nel corridoio ed entrò in soggiorno.

Noah era comodamente stravaccato sul divano, la bocca semi aperta lasciava intravedere la dentatura equina e un rivolo di barba gli percorreva il mento appuntito, mentre il parrucchino o, come amava chiamarlo la moglie, “lo scoiattolo” era scivolato per terra, lasciando scoperto il cranio calvo.

Una venuzza prese a pulsare sulla tempia di Marie J. A quella vista: i cuscini che quel pomeriggio aveva sprimacciato con tanta attenzione erano stati appiattiti sotto la testa del marito e la bava di questo li stava inumidendo, lasciandoci larghe chiazze.

Contrasse i pugni e si conficcò le unghie curate nei palmi delle mani.

I capelli le coprivano quasi la totalità del volto, essendosi liberati dalla morsa dello chignon, gli occhi erano gonfi e cerchiati di rosso, mentre i residui del trucco erano rimasti intrappolati tra le pieghe delle occhiaie.

Le labbra, ormai non più colorate dal rosso del rossetto, pallide, sottili e secche si incurvarono verso l’alto come d’abitudine e lei rimase ancora qualche secondo a osservare il marito. Poi, con un movimento di stizza, gli diede le spalle e uscì dal soggiorno. A due gradini alla volta salì le scale, diritta verso il mobiletto del bagno.

 

 

[1431]

 

Ebbene, questa cosa è un compito di italiano, per il quale ho avuto il primo nove della mia vita *-*

Dovrebbe essere anche pubblicato sul giornalino della scuola, ma sinceramente rileggendolo ho i miei dubbi, voi che ne dite? Sì, vi sto gentilmente invitando a recensire!

   
 
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