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Autore: hotaru    29/04/2011    2 recensioni
- E com'è questa storia? -.
Forse era vero che solo Luna ne conservava memoria, dato che controllava il passato, perché sia Artemis che Diana si voltarono verso di lei.
La gatta nera si leccò lentamente una zampa, per poi passarsela sul muso ed esordire:
- Conosci Plutone, bambina? -.
Prima classificata al contest "La Tempesta" di Vienne e al contest "Un Segreto in Soffitta" di DarkRose86 e iaia86@
Genere: Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Artemis, Chibiusa, Luna, Makoto/Morea
Note: AU | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessuna serie
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3- La materia di cui son fatti i sogni La materia di cui son fatti i sogni


Un giro di chiave 3


La mattina dopo Chibiusa era già pronta a tornare in soffitta con la maestra Makoto, quando nell'entrare all'asilo si accorse che c'era qualcosa di strano. Qualcosa di molto strano, perché si rese conto di non conoscere nessuno dei bambini presenti. E dov'erano finite le maestre Makoto e Minako?
Inoltre il posto stesso era diverso, con dei disegni che non aveva mai visto e un bel pianoforte verticale nel grande salone di ritrovo. Una maestra sconosciuta lo stava suonando, e tutti i bambini cantavano una filastrocca mai sentita.
Tuttavia, come aveva detto sua madre, Chibiusa aveva ereditato il coraggio del padre, e tutto ciò non fece che incuriosirla moltissimo: ma cos'era successo?
- Ciao! Tu devi essere nuova! - una voce improvvisa la riscosse dai suoi pensieri, e si accorse di avere accanto a sé una bambina bionda che le sorrideva allegramente.
- Beh... sì – in effetti, se quel posto non fosse inequivocabilmente stato il suo asilo, si sarebbe sentita una perfetta estranea.
- Ti troverai bene, qui. Sono tutti simpatici – le disse l'altra bambina, guardandola coi suoi grandi e sinceri occhi azzurri – E le maestre sono molto buone, sanno anche suonare il pianoforte! -.
- Sì, ho visto – rispose Chibiusa, osservando poi un paio di bambine che saltavano la corda – Bello, quel gioco -.
- Già – fece la bambina accanto a lei – Peccato che io sia una frana totale: inciampo sempre nella corda e finisco per terra... è già tanto che riesca a farne uno, di salto -.
Chibiusa rise piano, perché la sua nuova amica gliel'aveva confidato allegramente, come se non le importasse poi molto.
- A me riesce abbastanza, invece. Però arrivo al massimo a venti salti -.
- Venti? - esclamò l'altra, guardandola con ammirazione – Ma sei bravissima! -.
- Ma no... è che mi alleno tanto – rispose Chibiusa con modestia.
- Io non ci riuscirei nemmeno se mi allenassi tutto il giorno – ammise la bambina bionda, senza ombra di invidia.
All'improvviso gli occhi azzurri le si illuminarono, come se le fosse venuta in mente una cosa, ed esclamò:
- A proposito, io mi chiamo Usagi, e tu? -.
- Anch'io mi chiam... - fece per dire Chibiusa, per poi bloccarsi e sgranare gli occhi nel vedere ora sul serio quella bambina così allegra e simpatica. Nel capire perché quei codini e quel sorriso le fossero così familiari.
- Io... - mamma? - ... devo andare in bagno -.


La porta della scala che portava al piano di sopra non era chiusa a chiave, forse perché a quei bambini bastava il divieto di salire, e nessuno osava disobbedire. Fu grazie a questo che Chibiusa riuscì ad aprirla piano piano e ad infilarsi su per le scale senza che nessuno se ne accorgesse.
Ormai conosceva fin troppo bene la strada che portava alla soffitta, anche se stavolta rischiò di inciampare negli ultimi gradini tanto li salì in fretta.
- Tu... tu... sei stato tu? - gridò all'indirizzo del gatto nero quando si trovò davanti all'orologio, implacabile nell'oscillare del suo pendolo.
La sagoma felina non rispose, e anche se la chiave sporgeva dal quadrante, all'interno della teca, Chibiusa non osò più toccarla. Aveva l'impressione che fosse stata proprio lei a provocare tutti quei guai; che guai effettivi non erano, però... era tutto così strano. Chibiusa le ore non sapeva ancora leggerle, e il calendario con i suoi mesi e i suoi giorni non le era sempre molto chiaro. Non sapeva ancora nemmeno contare, in fondo... ma anche se la suddivisione del tempo era una cosa che a cinque anni poteva essere ancora sconosciuta, lei si era ben resa conto che qualcosa non andava.
Perché non era molto normale incontrare all'asilo la propria madre bambina, quando la versione adulta l'aveva accompagnata lì giusto mezz'ora prima.
- Sei stato tu? - ripeté.
La soffitta rimase sospesa nel silenzio per un istante, eccezion fatta per il dosato oscillare del pendolo, mentre la luce grigia di quel mattino nuvoloso entrava polverosa dalle finestrelle.
Il gatto ammiccò.
Chibiusa, incredula, si chiese se l'avesse visto davvero chiudere gli occhi e poi riaprirli, anche se ora il felino era di nuovo immobile. Si avvicinò piano, e si accorse che le lancette dell'orologio si erano finalmente spostate, entrambe puntate su un tre scritto in numeri romani. Ma Chibiusa, che non sapeva leggere le ore e non conosceva i numeri romani, vide soltanto le lancette che si spostavano. E il gatto che, dalla mezzaluna sopra il quadrante, muoveva un passo in avanti e saltava giù.
Chibiusa aprì la bocca, ma non ne uscì alcun suono.

- Salve – la salutò educatamente il gatto nero, mentre le lancette avanzavano lentamente verso il numero sei, a segnare la mezza, facendo scorrere lo sfondo e apparire nella mezzaluna il micino grigio che Chibiusa aveva visto all'inizio.
Quando anche lui saltò fuori dal quadrante, come un qualsiasi felino che entra da una finestra, Chibiusa lanciò finalmente un grido di sorpresa.
- Ciao – fece il micino, come se fosse stata una vecchia amica.
- C-ciao – rispose incerta Chibiusa, osservando quel gatto che prima era di legno e ora le stava parlando.
Il gatto nero si voltò verso l'orologio, come se stesse aspettando qualcos'altro; in effetti Chibiusa non aveva mai girato la chiave nell'altro senso, per cui si chiese se...
Le lancette raggiunsero il numero nove e lo sfondo scorse ancora, facendo apparire una sfera dorata che poteva essere il sole, e assieme ad essa un gatto bianco con lo stesso, identico simbolo a mezzaluna sulla fronte.
Chibiusa attese, e non fu delusa: anche lui sbatté un paio di volte le palpebre, che stavolta nascondevano due grandi occhi azzurri, si stiracchiò e saltò giù dall'orologio.
Ora si ritrovava con tre gatti di diverso colore balzati fuori da un orologio a pendolo che non segnava nemmeno l'ora. A chiunque sarebbe potuta sembrare una situazione bizzarra, ma Chibiusa sentiva il cuore batterle nel petto come non mai: era una magia? Una magia... avvenuta proprio davanti a lei?
- Sei stata molto gentile a risvegliarci – le rivolse la parola il micino grigio, con una vocina acuta e tintinnante – Io sono Diana -.
- Oh... sei una gattina? - le chiese Chibiusa, piacevolmente sorpresa. L'altra annuì, e lei ricordò le buone maniere. Fece un piccolo inchino, presentandosi: - Io mi chiamo Chibiusa -.
- Luna – disse il gatto nero, che si rivelò una gatta, chinando il capo.
- Artemis, piacere – fece il gatto bianco.
La gatta nera- Luna- la guardò intensamente, poi le disse:
- Devi essere rimasta molto sorpresa da quanto è successo. Scommetto che non ti aspettavi niente del genere, quando hai girato la chiave -.
- No – ammise Chibiusa, che tuttavia non aveva ancora ben compreso le dinamiche di quanto era successo – No -.
Diana dovette accorgersene, perché avanzò di un passo verso di lei e le spiegò:
- Quando hai girato la chiave la prima volta e hai aperto i miei occhi, si è attivato il mio potere – sorrise, e Chibiusa rimase incantata dal sorriso di un gatto – Io controllo il presente -.
- Quindi è per questo! - esclamò la bambina – È per questo che succedevano sempre le stesse cose! -.
Diana annuì, e intervenne Luna:
- Quando invece hai fatto apparire me, il passato ha preso il posto del presente – la guardò dolcemente – Quella bambina pasticciona era tua madre, vero? -.
Chibiusa assentì col capo, rivolgendosi poi ad Artemis:
- Vuoi dire che tu... controlli il futuro? - mormorò, incredula.
- Sissignora – rispose lui, dandosi un certo contegno – Gli eventi non ancora accaduti, il tempo che deve ancora venire -.
- Non darti troppe arie, Artemis – lo riprese Luna – Sei semplicemente un terzo dell'orologio, proprio come noi -.
Il gatto bianco abbassò le orecchie e fece vibrare i baffi, leggermente risentito.
- Umpf -.
- Non dargli retta, fa sempre così – disse la gatta nera a Chibiusa – Probabilmente è un po' deluso perché non hai fatto venire fuori lui, nel quadrante -.
- Oh... mi dispiace! - quei tre gatti le stavano simpatici, non voleva che uno di loro si arrabbiasse con lei subito dopo averla conosciuta – Io non lo sapevo -.
- Tranquilla, gli passerà – fece Luna alzando le piccole spalle pelose.
Rincuorata da quelle parole, Chibiusa si sedette sul pavimento polveroso della soffitta, incredibilmente contenta di trovarsi lì a parlare con tre gatti.
- Ma voi... siete gatti veri? Siete magici? - domandò entusiasta, mentre Diana le si avvicinava per farsi accarezzare il soffice pelo color grigio chiaro.
Le rivolsero tutti e tre un enigmatico sguardo felino, poi Luna disse, quasi cantilenando:
- Noi siamo della materia di cui son fatti i sogni... -.
- ... e la nostra piccola vita è circondata da un sonno (¹) – continuò Artemis.
- O da una preghiera, ad esser precisi – completò Diana, che le era salita in grembo – Che ci risveglia quando è necessario -.
Sogni? Una preghiera? - domandò Chibiusa, che di quella spiegazione sibillina non aveva capito niente.
- Fattelo raccontare da lei – fece Artemis, accennando a Luna – Io non me lo ricordo molto bene -.
- Tu non ti ricordi mai niente – ribatté la gatta nera.
- Beh, io controllo il futuro. Come si possono avere ricordi di qualcosa che non è ancora successo? - accennò poi alla micina grigia – E Diana vive in un eterno presente, quindi ci sei solo tu a rammentare quella storia -.
- Quale storia? -.
- La triste storia di un amore infelice – rispose Diana con un certo pathos.
- Davvero? - a Chibiusa non piacevano molto quel tipo di racconti, ma sua madre era una patita del genere, e a cinque anni la bambina conosceva alla perfezione storie come "Romeo e Giulietta" o "Ero e Leandro". Magari gliene avrebbero raccontata una che sua madre non conosceva ancora, perciò sarebbe riuscita a sorprenderla una volta tornata a casa – E com'è questa storia? -.
Forse era vero che solo Luna ne conservava memoria, dato che controllava il passato, perché sia Artemis che Diana si voltarono verso di lei.
La gatta nera si leccò lentamente una zampa, per poi passarsela sul muso ed esordire:
- Conosci Plutone, bambina? -.






(¹) Frase tratta da "La Tempesta" di William Shakespeare, nella traduzione di Agostino Lombardo
   
 
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