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Autore: crazyfred    01/05/2011    14 recensioni
Il destino può cambiare in un momento. Due anime scontrarsi e fondersi in un solo istante, senza preavviso, legate per non staccarsi mai. Non era lei quella che immaginava e quello non era il luogo che aveva in mente. Ma lui la guarderà negli occhi ... e saprà di non essere solo.
Genere: Drammatico, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: Cross-over, Lime | Avvertimenti: nessuno
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When you crash in the clouds - capitolo 9




















Capitolo 9

She will be loved










soundtrack

Era stata la notte più brutta della mia vita. Non ero riuscito a chiudere occhio e non facevo altro che correre con la mente a lei. Non aveva voluto saperne di restare con noi; diceva che non aveva intenzione di fare l’infermierina appresso ad Aidan completamente fatto di alcool ed erba. Ma sapevo benissimo che era solo una scusa per defilarsi senza grandi cerimonie, per andarsene senza dover affrontare l’argomento “nuovo incontro”.
Trascinai Aidan su per il suo letto mentre balbettava qualcosa di incomprensibile a proposito di Woodstock e Jimi Hendrix. Dovevo segnare nella nostra bacheca il monito  MAI IMBUCARSI AD UNA FESTA DI FIGLI DEI FIORI. Mi adoperai per assicurargli un riposo sicuro, applicando che ogni giovane marmotta impara al corso di primo soccorso e, prese coperta e sigarette, mi diressi verso il tetto. Faceva freddo, tremendamente freddo ma la coperta riusciva a riscaldarmi a sufficienza. Al resto, provvedevano le sigarette.
È bella New York di notte. Apparentemente ferma e silente dai suoi tetti, nonostante il traffico non si fermi mai. È bella e magica. Lontani, i grattacieli di Manhattan si stagliano forti ed orgogliosi dritti verso il cielo, a testimoniare la nostra vanagloriosa potenza sulla Terra e sugli uomini. Ma sopra di noi rimane sempre il giudizio delle stelle. Le nuvole piene di smog e le luci della città impediscono di vederne una gran quantità, ed il traffico aereo toglie poesia anche quando la trapunta blu è perfettamente visibile.
Ma, con mia somma gioia, la luna quella sera aveva vinto la coperta di nuvole e continuava a vegliare ancora su di noi, come una madre accanto alla culla. Era bello e confortante pensare che dovunque si fosse in quell’istante, in una metropoli grande come questa, alzando il naso al cielo, chiunque avrebbe potuto vedere quello spettacolo. Una grande torta tutta farcita di panna, lì solo per noi, grande e bianca. Mi era sempre piaciuto immaginarla così da bambino, e non avevo mai smesso di fantasticare su quel magico satellite.
Michael l’adorava; collezionava storie e racconti su di lei e m’aveva trasmesso la passione per quell’astro affascinante e misterioso.
Mi piaceva pensare, anche se razionalmente era una cosa improbabile, che anche lei stesse godendo della stessa visuale.
Ma lei forse non avrebbe mai alzato lo sguardo verso quella pallida regina della notte, nella strana rivalità che il destino si era divertito a creare. Come in un mito senza tempo, il fato aveva tolto gli occhi alla luna e li aveva donati a lei, perché fossero osservati dagli uomini più da vicino. Ma la luna, dea vanitosa, si è vendicata privandola delle lacrime, esattamente come fa con l’acqua di mare attraverso le maree.
Indomabile ed indomata, nonostante la sua bellezza e la sua vivacità provenissero da una luce potente, eppure riflessa.
Era tornata alla luce, nei pochi giorni che avevamo trascorso insieme, ed aveva riscoperto il piacere di un’esistenza sana, fuori da quella prigione malata, da cui non aveva, a suo dire, via d’uscita. Da sola, invece, non riusciva a brillare e se n’era tornata nelle tenebre.
Più stavo lì a fissare la luna, dimenticandomi del tempo che scorreva e del freddo che mi avvolgeva, più mi convincevo che era il suo elemento naturale, la sua essenza.
I poeti vivono di notte, ma anche le persone di malaffare: non volevo annoverarci tra questi, né per meriti, né per colpe.
D’altronde anche gli amanti preferiscono la notte; era per questo che la luna sorgeva ogni sera: per nascondere al giorno i segreti del proprio cuore.
Ed i miei segreti sai nasconderli, Luna? I miei dubbi, i miei perché?
Nonostante fossero trascorse solo poche ore, volevo rivederla; questo era poco, ma sicuro. Come, dovevo ancora capirlo. Perché, restava un’incognita.
Quando l’avevo incontrata per la prima volta, disinvolta ed sfacciata sul bancone di quella bicocca, mi ero chiesto de per caso quella forza, quel fuoco che avevo sentito divampare in me fosse per caso quel che si dice COLPO DI FULMINE. Razionalmente mi risposi di no, che era solo voglia di fare l’eroe a spingermi verso di lei, la volontà di aiutarla, come non aveva fatto con mio fratello esattamente un anno prima, la voglia di dimostrarsi ancora importanti per qualcuno.
Eppure mi era sempre più evidente che il raziocinio aveva poco a che fare con la mia vita, negli ultimi tempi. Era diventata, infatti, un susseguirsi di passi avventati, gesti che mi avrebbero potenzialmente in un mare di guai.
Forse le mie giustificazioni logiche erano state valide quella primissima sera, quando dovetti combattere con gli ormoni a palla, ma ora le sentivo sgretolarsi come un castello di sabbia su una spiaggia ventosa d’inverno.
Non ero più certo che il mio cuore fosse ancora indipendente; era pesante e affaticato, come un operario che fa un doppio lavoro, come se battesse per due. E c’erano pochi dubbi sul fatto che l’altra persona fosse proprio lei.
Ero pateticamente avvezzo a riservarle il primo pensiero e l’ultimo, nell’arco della giornata, entrando in paranoia quando i minuti passavano e lei non era con me. Aidan me l’aveva fatto notare in più di un occasione, e l’avevo apostrofato come un visionario e mandato a fanculo tutte le volte. “Sarà” mi diceva “ma tu con quella ti bruci, fidati”.
Certo Aidan aveva ragione, fin troppa ragione, a dire che ero un tipo dall’innamoramento facile; mi conosceva troppo bene. Ma sentivo io per primo che stavolta era diverso … ok, probabilmente è una di quelle frasi che si dice di solito in questi casi, e riconosco di averla detta un milione di volte … ma stavolta era davvero diverso. Sentivo che la posta in gioco era troppo alta per potermi tirare indietro, pronto a mettere in discussione persino me stesso per raggiungere l’obiettivo. Ma non si trattava più solo di tirare via una povera ragazza da un brutto giro. Per quanto avessi combattuto contro me stesso convincermi per il contrario, dovevo cominciare ad ammetterlo: provavo qualcosa per Allison.
Intorpidito dal sonno che iniziava a fare capolino ed intirizzito dal freddo, decisi di levare le tende e tornarmene al caldo delle mie lenzuola. Starsene lì a fare i poeti maledetti, mentre lontano si intravedono le prime luci dell’alba, rischiando di ammalarsi per bene solo per riempirsi la mente di puttanate, a due passi da un cielo minaccioso di neve e freddo artico, non aveva molto senso. Meglio starsene al caldo e sognare che la vita fosse semplice e perfetta.
Prima di scendere le scale, lanciai un ultimo sguardo alla quella grande palla bianca che mi aveva fatto compagnia lungo tutta quella notte. E pensai ancora a lei.
“Buonanotte … Allison” sussurrai, e chiusi la porta del terrazzo alle mie spalle.


Ripercorrere le strade buie e vuote che portavano al Don Hill mi provocava di nuovo quella sensazione di nausea e malessere generale che avevo provato ad appartarmi con lei nel privé del locale. Avevo paura di ritrovare quell’atmosfera squallida della prima volta, la stessa spiacevole percezione del sentirsi fuori luogo ed inopportuno. Soprattutto, non ero sicuro che i miei nervi avrebbero mantenuto il contegno necessario davanti all’immagine della mia Allison che si comportava come aveva fatto con me, come era in fondo giusto che facesse, dato il suo lavoro.
L’eco della musica e dei bassi arrivava fin sulla strada e, ad accogliermi, trovai Dean, lo scimmione occhialuto che per poco non aveva reso neutri me ed Aidan durante la nostra prima visita.
Ora invece, era da solo che entravo nel covo di vipere. Non avevo dovuto accampare grandi scuse sulla mia serata alla mia babysitter Aidan, troppo impegnato a far andare in porto uno dei suoi rarissimi appuntamenti con effettive chance per il dopo serata.
Erano tre giorni che non vedevo, né sentivo Allison, ed era perfettamente logico visti i ritmi che le venivano imposti lavorando in quel postaccio. E forse anzi, quasi certamente, andare a trovarla proprio in quel posto dove l’avevo conosciuta nel dare il peggio di sé, nel buttare via anzi tutta se stessa nel peggiore dei modi, era stato l’ennesimo errore madornale della mia vita, un’ulteriore zappa tirata sopra i miei piedi, l’estrema dimostrazione della mia profonda coglionaggine; ma dovevo rivederla, continuando a sperare, almeno per lei, che era possibile non arrendersi a quella sorte.
“Chi cerchi ragazzo?” mi domandò Dean quando, una volta entrato nel club, inizia a guardarmi attorno per cercarla. Purtroppo, come nel peggiore dei miei incubi, il ricordo che avevo conservato di quel luogo era fedele a ciò che era in realtà. Le emanazioni di fumo, alcool e sudore uccidevano le mie ghiandole nasali quasi fossero scarti tossici d’industria e le luci soffuse, unite ai lampi che di tanto in tanto mi colpivano con le luci psichedeliche, avevano il potere di neutralizzarmi la vista.
La musica infine, era riuscita ad inibire il resto dei miei sensi, se questo scopo non era già stato raggiunto da luci ed odori.
“Mallory” balbettai, temendo di metterla nei guai. Cercai non usare il suo nome, per l’assurda convinzione che entrambi avevamo, di dover distinguere tra vita privata e lavoro.
“Mallory?!” domandò lui perplesso “non c’è nessuna Mallory qui”
Non è possibile, pensai, shockato. Se n’era andata? Non poteva farlo, lei stessa me l’aveva rivelato.
Possibile che mi avesse mentito riguardo al suo ritorno al lavoro, che fosse solo una scusa campata in aria solo per scaricarmi?
Effettivamente come ragionamento filava piuttosto bene … avrà avuto paura di scottarsi, ed io come uno stupito ho lasciato che mi fregasse. Me l’ero meritato in fondo, perché ne sapeva una più del diavolo e me l’aveva fatta sotto il naso non appena avevo abbassato la guardia.
“Ragazzo?! Ragazzo!!” mi richiamò all’ordine quel bestione “se sei venuto qui per farmi perdere la pazienza, dimmelo subito perché non ho tempo da perdere appresso a te … così ti sbatto subito fuori dai coglioni!!!”
“Aspetti … mi … mi lasci spiegare … io … io …”
Bella figura del pollo che stavo facendo, incapace com’ero di spiegare la situazione a quell’energumeno. Ma del resto, come farlo senza compromettere Allison e proteggerla da ulteriori catastrofi?
“Dean!” una voce alle mie spalle, proveniente dalle scale che portavano al privé, fece scattare il gorilla sull’attenti “lascialo stare … lui è qui per me. Non è vero Tyler?!”
Mi voltai non appena sentii il mio nome. Era quasi ovvio che a parlare fosse stata lei, ma nella confusione del locale, tra musica e versi poco umani che venivano emessi ad ogni angolo, era difficile distinguere una voce da un’altra. Non mi curai del buttafuori, e poco importava che fosse ormai ancora dietro di me o si fosse dileguato. Il mio sguardo si concentro su quel viso che per tre giorni mi ero esercitato a ricordare, e non c’era verso di posare gli occhi altrove, nonostante fosse tutto piuttosto visibile.
Nel suo habitat sembra sempre piuttosto disinvolta e chiaramente disinibita, probabilmente anche grazie a qualche bicchierino di troppo mandato giù per distendere i nervi. Forse era per quello stesso motivo che, nonostante gli alti, ma soprattutto i bassi, della nostra controversa amicizia, lei sembrava dare per scontata la mia presenza lì e si comportava come niente fosse.
Mi prese per mano e mi accompagno fino al bancone, costringendomi a prendere almeno un birra, ovviamente per lei. Mi accesi una sigaretta, che sapevo già avremmo finito col condividere. Non so se era così con tutti i clienti, ma per me era il nostro gioco, anche fuori da lì.
Evidentemente attenta a mantenere una certa facciata, Allison si stava impegnando con tutte le sue forze ad incollarsi a me, sedendosi sul bancone a gambe decisamente divaricate o provocandomi con ogni arte degna della migliore geisha di Tokyo. Per quanto fossi concentrato a cercare il suo sguardo, un muto consenso per una conversazione, non potei fare a meno di notare il suo corpo, come non lo vedevo effettivamente da un po’ e che tuttavia avrei difficilmente dimenticato. La gonnina scozzese aveva fatto posto ad un gonnellino nero con grembiulino, perizoma rosso da perderci il sonno e reggiseno a triangolo nero. Era provocante, come la ricordavo, sexy da far paura ma, forse perché avevo imparato a conoscerla per come era veramente, aveva perso quella volgarità tipica di una persona che svolge quel tipo di lavoro. Non indossava né calze a rete, né zeppe da battona, ma dei semplici tacchi a spillo che la rendevano la regina del locale, nonostante probabilmente fosse di ritorno da una delle sue “performance” private. Il volto era truccato in maniera composta ma elegante, come se volesse distinguersi da quella massa di prostitute che era lì con lei. “Io non sono come voi” sembrava urlare “io me ne andrò da qui”. Era come se tutta la normalità e la purezza che era riuscita a riacquistare nei giorni precedenti, non sia stata in grado di metterla da parte. E questo non faceva che riempirmi di gioia.
Anch’io del resto, avevo maturato un profondo rispetto per la Allison della libreria, quella della pizza dietro l’angolo e del cornetto alla nutella, che non riuscivo a guardare il suo corpo e a provarne piacere o desiderio alcuno, bensì ribrezzo per quella condizione di serva che era ancora costretta a subire, nonostante desse perennemente l’impressione di essere libera e serena in quei pochi panni.
Così mi rifugiavo nei suoi occhi che, scontrandosi con i miei, mi donavano ancora il riflesso di quell’anima che avevamo ripulito insieme.
“Cos’è?” le chiesi in un sprizzo di audacia “non ti fai trovare? Ho chiesto di Mallory e …”
“… e Mallory stasera non c’è. Piacere di conoscerti” tese la sua mano in segno di saluto “io sono Bridget, e sarò la tua cameriera personale della serata”. “Piacere di conoscerti Bridget!” ricambiai il saluto divertito.
Nonostante provasse in continuazione a farmi bere quella brodaglia che spacciavano per birra, l’esperienza dell’ultima volta mi era bastata al punto che anche se fossimo stati in pieno deserto, avrei preferito mille volte morire di sete. Così continuai ad aspirare dalla mia bionda, facendole fare un tiro di tanto in tanto.
Venne a sedersi su me, alla stessa conturbante maniera della primissima volta, e si avvicino al mio orecchio “C’è il capo in giro … devo ballare per forza. Scusami”.
Si stava scusando per il suo comportamento, perché doveva provocarmi e fare la sensuale, altrimenti l’avrebbero anche potuta picchiare. Allora stetti al suo gioco, sussurrandole di rimando: “Fai quello che devi …”
“Ogni tuo desiderio è un ordine” strillò quasi, probabilmente per farsi sentire da qualcuno che la stava osservando. Salì sul bancone del bar ed iniziò a sculettare e a ballare su uno dei pali. Mi dava tremendamente fastidio vederla umiliarsi a quel modo, avendola conosciuta davvero, avendo scoperto il vero tesoro di una ragazza come lei. Non un premio da comprare per una notte, non un oggetto da sfruttare a pagamento; ma una bellissima ragazza da conquistare con dignità e correttezza, nella sua dolcezza, nella sua simpatia e per la sua incredibile voglia di vivere. Mi guardai intorno, per distogliere lo sguardo da quella visuale poco gradevole, per quanto interessante potesse essere agli occhi di chiunque; cercai quel porco, per poter vedere che faccia potesse avere un criminale del genere: eppure, al di là dei due/tre buttafuori che si guardavano intorno circospetti, non c’era nessuno che potesse sembrare un criminale. C’erano solo uomini ubriachi ed infoiati, malati al punto da andare anche con delle ragazzine.
La rabbia mi saliva dentro sempre di più, al punto che forse, pensai, era meglio per tutti se me ne fossi andato. Meglio per me, che calmandomi avrei evitato guai con la sicurezza; e meglio per Allison, che avrebbe fatto il suo, seppur sporco, lavoro, senza la vergogna di farsi vedere dalla mia ombra che la sorvegliava.
“Non ho i soldi per andare di sopra, mi dispiace …” le urlai, mentre ondeggiava al ritmo di musica. Era una canzone bellissima, adatta per una romantica serata d’amore, e rovinata dall’atmosfera di quel luogo.
“Fa niente …” mi rispose “… sarà per la prossima volta. Lo sai che mi piace chiacchierare con te …” “Lo so” risposi, sottovoce, più a me stesso che a lei.
Se solo avessi conosciuto un modo per farla rimanere al sicuro, se solo avessi davvero potuto proteggerla, l’avrei portata via con me all’istante. Ma in quella prigione c’ero entrato anch’io ormai.
Al cambio di canzone la vidi rivolgere lo sguardo verso una delle bariste che, probabilmente istruita dal capo, le stava indicando con un cenno del capo, un angolo buio del locale. Era difficile distinguere chi fosse seduto a quel tavolo, ma oltre la cortina di fumo e i vapori dell’alcool, riuscivo ad intravedere una sagoma piuttosto consistente, ed immaginai che fosse un omaccione di quelli grossi, e magari con le tasche gonfie di soldi. Magari un californiano, uno con orologi e collane d’oro massiccio che coprono ogni centimetro di pelle.
Bridget, come si era fatta chiamare quella sera, scese dal bancone e, preso lo champagne e due flute, si preparò ad andare proprio verso di lui.
“È ora che vada” mi disse “se riesco a portarlo di sopra, per stasera ho finito”. C’era quasi un tono speranzoso nella sua voce, come se la ricompensa potesse valere un tale sacrificio. Probabilmente era uno di quelli da servizio completo, il che mi fece ulteriormente rabbrividire.
“Ma come fai?” le chiesi, cingendole i fianchi nudi con un abbraccio. Sperai che per un attimo si soffermasse a guardare attentamente i miei occhi, e vi scorgesse tutto lo sdegno e la disperazione che provavo a vederla in quello stato.
“Ha sessant’anni … farò in fretta …”. Cercò di sorridermi, dandomi quella misera giustificazione, ma era palese l’imbarazzo che sempre aveva a parlare con me di certe cose. Sapeva che non mi scandalizzavo, né che l’avrei mai offesa davvero, ma probabilmente dopo che si era aperta davvero con me, si sentiva legittimamente a disagio a mostrarsi in quelle vesti. Mi diede un veloce bacio sulla guancia e si diresse verso il nuovo cliente.
Laddove le sue labbra si erano delicatamente impresse sulla la mia pelle e laddove le mie dita avevano sfiorato la sua, era ancora il fuoco. Sapevo cosa significava; dovevo fare qualcosa.
Mi cercai un posto vicino a quello dove Allison stava intrattenendo il suo ospite, lavorandolo ai fianchi per ottenere il suo scopo. Pensai che quel tavolino alla loro destra, non molto distante e a riparo da occhi minacciosi ed indiscreti, fosse perfetto per me. Nessuno mi avrebbe visto, lei non mi avrebbe visto, ed io avrei continuato a vegliare su di lei. Se fossi stato beccato in fondo, mi avrebbero dato del voyeur ma, in quel marasma di pervertiti, uno in più non faceva scandalo. Accesi l’ennesima cicca e stessi lì a guardare.
Ero un masochista, pazzo e masochista come quel leone di cui Allison mi aveva letto e di cui avevo avuto la nausea. Forse ero davvero malato e ossessionato da lei, ma non potevo sopportare che mani sudice violassero quel corpo senza colpa.
La vidi muoversi su di lui come aveva fatto con me, provocandolo, e paradossalmente sembrava farlo con trasporto. Era brava nel suo lavoro, era evidente. Lui infatti gradiva in maniera più che evidente e le sue mani scorrevano sulla sua pelle cercavano di sciogliere i lacci del reggiseno anche se le mani di lei correvano immediatamente ad impedirglielo.
Sentivo dentro di me nascere una forza violenta e nera, pronta ad esplodere da un momento all’altro e a riversarsi impetuosa su chiunque mi si fosse parato davanti.
Controllavo quelle dita grasse e rugose e, nonostante non riuscissi a vederlo, potevo figurarmi con grande facilità l’eccitazione sul viso di quel porco; avrei voluto cavargli gli occhi e tagliargli quelle dita una ad una, lentamente, provocandogli lo stesso dolore che stavo provando io ad assistere a quello spettacolo indecente.
Poi fu un lampo: mi avventai su quell’ammasso di lardo, scaraventando su una poltroncina lì di fianco la povera Allison, non curandomi di dosare la mia forza e la mia rabbia. Non so come vi arrivai, né come mi districai dagli uomini della sicurezza che subito mi si erano parati addosso: l’ultimo mio ricordo infatti, erano le mani di quell’uomo che scostavano il filo del perizoma di Allison e accarezzavano la parte più intima di lei.
Mi impegnai con tutto me stesso a tirare pugni su quella merda ambulante e, con la mia giaccia tra le mani, tentai anche di strozzarlo. Sentivo i gemiti del vecchio, che arrancava nella ricerca vana di aria e aiuto. Mi accorsi che mi avevano preso solo quando non sentii più la terra sotto i piedi, e la temperatura glaciale dell’esterno mi fece capire che mi avevano portato fuori.
Dopo fu solo buio e sangue e dolore.
Tra pugni e calci, e il sangue che grondava dalla mia fronte per la testata che avevo preso e il calcio che mi aveva fatto finire a terra, riuscii a scorgere la sagoma di Allison, alta ed esile sulle decolleté nere lucide e dal tacco vertiginoso. Stringeva contro si sé la mia giacca, troppo grande per lei, ma che a malapena scendeva a coprirle i fianchi. Se ne stava lì a guardare, inerme, la bestia morire al mattatoio, tranciata e finita. La sentii implorare di smetterla almeno un paio di volte, ma le sue grida arrivavano impotenti alle orecchie dei miei aggressori. La mannaia continuava a sferrare i suoi fendenti fatti di percosse e il fuoco delle lesioni misto alla polvere dell’asfalto non si estingueva dalle ferite.
Il forte odore del sangue, ferroso e salato, mi era entrato sin dentro il cervello e mi faceva venir voglia di vomitare anche l’anima. Probabilmente qualche calcio era arrivato anche a lesionarmi lo stomaco, e non mi sarei stupito se avessi iniziato a sputare sangue dalla bocca. Sentivo la ruggine in gola, pronta ad essere espulsa. O forse, e questa era la mia grande speranza, il sangue dal naso era sceso fino in bocca oppure avevo il labbro spaccato. Ora che ce l’avevo fatta non potevo morire, anche se sentivo già il volo degli avvoltoi avvicinarsi.
Ma dovevo resistere. Allison aveva già visto di me la più brutta delle immagini, non volevo assistere ad uno spettacolo anche peggiore.
Quando sembravo più morto che vivo, incapace di reagire, la morsa della violenza di allentò. Percepii Allison che parlottava con loro, con aria supplichevole. Aprendo leggermene le palpebre vidi i due scimmioni allontanarsi ed Allison avvicinandosi, chinandosi amorevole su di me.
Peggio di una bambola rotta cercai di tirarmi su, ma mi sentivo peggio di un vaso di cristallo fatto in mille pezzi. Non avevo idea di come fosse ridotta la mia faccia, ma in fondo ero ancora lucido e non conciato poi così male, al di là di qualche doloretto, normale, per la caduta e le botte.
Ero un pappamolle, non c’è che dire; due pugni, e già vedevo S.Pietro sventolarmi davanti le chiavi del Paradiso.
Allison mi posò la giacca sulle spalle e con dei fazzolettini di carta mi tamponava il sangue sulla fronte e sul naso. Le rimisi il giaccone addosso, scherzoso: “Tieni … serve più a te che a me …”
“Ridi pure Tyler?” mi riprese, severamente. “Lo so, scusa … è meglio se mi sto zitto!”
“Vattene” rispose, fredda “per stasera hai già fatto troppi casini”
“Sì, hai ragione” confermai, in colpa “ma credimi non c’ho visto più!”
Allison mi guardava, silenziosa, ed il suo sguardo non riusciva a tradire alcuna emozione. Non era in pensiero per me, non era arrabbiata: niente.
“Non rientrare in quel locale, Allison … vieni via da lì!”
“Ancora Tyler” gridò, esasperata “ma non hai ancora capito? Io non posso …”
“Io posso aiutarti, se solo mi lasciassi …” “tu Tyler? Davvero puoi aiutarmi?” chiese, in tono palese di sfida e sdegno; ora era davvero arrabbiata. “E come? Mettendoti a fare a cazzotti con ogni cliente che mi tocca? È il mio lavoro, dovresti saperlo!”
Già, lo sapevo; ma non potevo tollerarlo. Perché l’avevo vista vivere di giorno, e avevo sperimentato che poteva essere una ragazza come tutte le altre. E poi c’era quell’altra cosetta, ancora più complicata, che mi impediva di sopportare la sua presenza in quel luogo. Se ne stava rientrando nel locale, e sapevo che se l’avessi lasciata andare, non l’avrei più vista. Non aveva l’aria di una che aveva apprezzato il mio gesto, né di chi mi avrebbe perdonato.
“Ti prego Allie … vieni via con me!” “Tu mi preghi?” invei, tornando sui suoi passi “pensa tu a pregare piuttosto, Tyler!” Non capivo dove volesse arrivare. “Vai via e prega che nessuno massacri di botte anche me nelle prossime ore, prega che io possa conservare ancora questo posto o il tetto che ho sopra la testa …”
Fu lì che mi ricordai della cena in pizzeria, di quando mi aveva raccontato la storia della sua collega. Capii il perché della sua rabbia e avrei voluto sotterrarmi per la vergogna di aver compiuto quella stronzata. Non volevo farla cadere nella merda più di quanto già non fosse, ed invece era proprio quello che avevo fatto.
Attrezzate un plotone ed eseguite la condanna di morte. Mi sacrificherò io al posto suo.
“Allison …” la chiamai, mentre di nuovo mi voltava le spalle per andarsene, lasciando per terra il giaccone “Allison!”. Racimolando le poche forze che mi erano rimaste, la ricorsi. Era l’unica cosa che ero in grado di fare da quando l’avevo conosciuta. Eppure ogni volta sembrava funzionare; ergo, non l’avrei lasciato intentato questa volta.
La costrinsi a voltarsi e, prendendole il volto tra le mani, stampai un bacio irruente sulle sue labbra. Era il nostro primo bacio, ma non si avvicinava neanche lontanamente a quello che avevo in mente per noi. Io avevo la faccia sporca e devastata, lei tra le lacrime si era ridotta in uno stato altrettanto pietoso. All’inizio, forse avendola spiazzata, sembrò rimanere passiva alle mie labbra sulle sue o, sperai, ricambiò perché in fondo era quello che volevamo entrambi. Tuttavia, al mio ancor minimo tentativo di approfondire, quando sembrava avermi dato la sua approvazione a farlo, mi strattonò da lei, mordendomi anche leggermente le labbra, come punizione.
I suoi occhi erano pieni di furore e quel morso sul labbro inferiore sembrava davvero essere una bazzecola in confronto a ciò che avrebbe potuto farmi. Offesa e presa in giro anche da me: ecco cosa urlava, con tutto il suo corpo.
“Io … io” tentennavo, ma sentivo che dovevo parlare “mi sto innamorando di te Allison. Ti voglio per me … e non posso tollerare che ti lasci toccare da nessun altro”
Non seppi distinguere la sua reazione; ovviamente sembrava sorpresa, ma positivamente o negativamente non saprei dirlo. Furono le sue parole a ghiacciarmi, e a dirmi che non avrei avuto più di che sperare.
Ostinata e arresa a quella merda di esistenza che si trascinava dietro come una palla di piombo, mi urlò in faccia: “Io non sono di nessuno … nemmeno mi appartengo. E i problemi della gente come me non si risolvono solo con l’amore …”
Raccattai i miei quattro stracci e andai a leccarmi le ferite lontano, il più lontano possibile.

 












NOTE FINALI

Personalmente mi sento parecchio arrugginita dopo la scrittura di questo capitolo, quindi se troverete difficile la scorrevolezza lo capirò, perché nemmeno io sono soddisfatta.
Ci aspettano ora capitoli non facili, e questo è solo il primo. Ho avuto bisogno della pausa di due settimane per mettere in ordine le idee e perché ho avuto da fare.
D'ora in avanti non ci diamo più una data d'appuntamento, ma diciamo che in massimo una decina di giorni dovrei aggiornare.
Non voglio parlare del capitolo perché lascio a voi le conclusioni e se avete qualche domanda sapete dove trovarmi e quali strumenti avete a vostra disposizione.

à bientot

Federica
   
 
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