She will be loved
soundtrack
Era
stata la notte più brutta della mia vita. Non ero riuscito a chiudere occhio e
non facevo altro che correre con la mente a lei. Non aveva voluto saperne di
restare con noi; diceva che non aveva intenzione di fare l’infermierina
appresso ad Aidan completamente fatto di alcool ed erba. Ma sapevo benissimo
che era solo una scusa per defilarsi senza grandi cerimonie, per andarsene
senza dover affrontare l’argomento “nuovo incontro”.
Trascinai
Aidan su per il suo letto mentre balbettava qualcosa di incomprensibile a
proposito di Woodstock e Jimi Hendrix. Dovevo segnare nella nostra bacheca il
monito MAI IMBUCARSI AD UNA FESTA DI
FIGLI DEI FIORI. Mi adoperai per assicurargli un riposo sicuro, applicando che
ogni giovane marmotta impara al corso di primo soccorso e, prese coperta e
sigarette, mi diressi verso il tetto. Faceva freddo, tremendamente freddo ma la
coperta riusciva a riscaldarmi a sufficienza. Al resto, provvedevano le
sigarette.
È
bella New York di notte. Apparentemente ferma e silente dai suoi tetti,
nonostante il traffico non si fermi mai. È bella e magica. Lontani, i
grattacieli di Manhattan si stagliano forti ed orgogliosi dritti verso il
cielo, a testimoniare la nostra vanagloriosa potenza sulla Terra e sugli
uomini. Ma sopra di noi rimane sempre il giudizio delle stelle. Le nuvole piene
di smog e le luci della città impediscono di vederne una gran quantità, ed il
traffico aereo toglie poesia anche quando la trapunta blu è perfettamente
visibile.
Ma,
con mia somma gioia, la luna quella sera aveva vinto la coperta di nuvole e
continuava a vegliare ancora su di noi, come una madre accanto alla culla. Era
bello e confortante pensare che dovunque si fosse in quell’istante, in una
metropoli grande come questa, alzando il naso al cielo, chiunque avrebbe potuto
vedere quello spettacolo. Una grande torta tutta farcita di panna, lì solo per
noi, grande e bianca. Mi era sempre piaciuto immaginarla così da bambino, e non
avevo mai smesso di fantasticare su quel magico satellite.
Michael
l’adorava; collezionava storie e racconti su di lei e m’aveva trasmesso la
passione per quell’astro affascinante e misterioso.
Mi
piaceva pensare, anche se razionalmente era una cosa improbabile, che anche lei
stesse godendo della stessa visuale.
Ma
lei forse non avrebbe mai alzato lo sguardo verso quella pallida regina della
notte, nella strana rivalità che il destino si era divertito a creare. Come in
un mito senza tempo, il fato aveva tolto gli occhi alla luna e li aveva donati
a lei, perché fossero osservati dagli uomini più da vicino. Ma la luna, dea
vanitosa, si è vendicata privandola delle lacrime, esattamente come fa con
l’acqua di mare attraverso le maree.
Indomabile
ed indomata, nonostante la sua bellezza e la sua vivacità provenissero da una
luce potente, eppure riflessa.
Era
tornata alla luce, nei pochi giorni che avevamo trascorso insieme, ed aveva
riscoperto il piacere di un’esistenza sana, fuori da quella prigione malata, da
cui non aveva, a suo dire, via d’uscita. Da sola, invece, non riusciva a
brillare e se n’era tornata nelle tenebre.
Più
stavo lì a fissare la luna, dimenticandomi del tempo che scorreva e del freddo
che mi avvolgeva, più mi convincevo che era il suo elemento naturale, la sua
essenza.
I
poeti vivono di notte, ma anche le persone di malaffare: non volevo annoverarci
tra questi, né per meriti, né per colpe.
D’altronde
anche gli amanti preferiscono la notte; era per questo che la luna sorgeva ogni
sera: per nascondere al giorno i segreti del proprio cuore.
Ed
i miei segreti sai nasconderli, Luna? I miei dubbi, i miei perché?
Nonostante
fossero trascorse solo poche ore, volevo rivederla; questo era poco, ma sicuro.
Come, dovevo ancora capirlo. Perché, restava un’incognita.
Quando
l’avevo incontrata per la prima volta, disinvolta ed sfacciata sul bancone di
quella bicocca, mi ero chiesto de per caso quella forza, quel fuoco che avevo
sentito divampare in me fosse per caso quel che si dice COLPO DI FULMINE.
Razionalmente mi risposi di no, che era solo voglia di fare l’eroe a spingermi
verso di lei, la volontà di aiutarla, come non aveva fatto con mio fratello
esattamente un anno prima, la voglia di dimostrarsi ancora importanti per
qualcuno.
Eppure
mi era sempre più evidente che il raziocinio aveva poco a che fare con la mia
vita, negli ultimi tempi. Era diventata, infatti, un susseguirsi di passi
avventati, gesti che mi avrebbero potenzialmente in un mare di guai.
Forse
le mie giustificazioni logiche erano state valide quella primissima sera,
quando dovetti combattere con gli ormoni a palla, ma ora le sentivo sgretolarsi
come un castello di sabbia su una spiaggia ventosa d’inverno.
Non
ero più certo che il mio cuore fosse ancora indipendente; era pesante e
affaticato, come un operario che fa un doppio lavoro, come se battesse per due.
E c’erano pochi dubbi sul fatto che l’altra persona fosse proprio lei.
Ero
pateticamente avvezzo a riservarle il primo pensiero e l’ultimo, nell’arco
della giornata, entrando in paranoia quando i minuti passavano e lei non era
con me. Aidan me l’aveva fatto notare in più di un occasione, e l’avevo
apostrofato come un visionario e mandato a fanculo tutte le volte. “Sarà” mi
diceva “ma tu con quella ti bruci, fidati”.
Certo
Aidan aveva ragione, fin troppa ragione, a dire che ero un tipo
dall’innamoramento facile; mi conosceva troppo bene. Ma sentivo io per primo
che stavolta era diverso … ok, probabilmente è una di quelle frasi che si dice
di solito in questi casi, e riconosco di averla detta un milione di volte … ma
stavolta era davvero diverso. Sentivo che la posta in gioco era troppo alta per
potermi tirare indietro, pronto a mettere in discussione persino me stesso per
raggiungere l’obiettivo. Ma non si trattava più solo di tirare via una povera
ragazza da un brutto giro. Per quanto avessi combattuto contro me stesso
convincermi per il contrario, dovevo cominciare ad ammetterlo: provavo qualcosa
per Allison.
Intorpidito
dal sonno che iniziava a fare capolino ed intirizzito dal freddo, decisi di
levare le tende e tornarmene al caldo delle mie lenzuola. Starsene lì a fare i
poeti maledetti, mentre lontano si intravedono le prime luci dell’alba,
rischiando di ammalarsi per bene solo per riempirsi la mente di puttanate, a
due passi da un cielo minaccioso di neve e freddo artico, non aveva molto
senso. Meglio starsene al caldo e sognare che la vita fosse semplice e
perfetta.
Prima
di scendere le scale, lanciai un ultimo sguardo alla quella grande palla bianca
che mi aveva fatto compagnia lungo tutta quella notte. E pensai ancora a lei.
“Buonanotte
… Allison” sussurrai, e chiusi la porta del terrazzo alle mie spalle.
Ripercorrere
le strade buie e vuote che portavano al Don Hill mi provocava di nuovo quella
sensazione di nausea e malessere generale che avevo provato ad appartarmi con
lei nel privé del locale. Avevo paura di ritrovare quell’atmosfera squallida
della prima volta, la stessa spiacevole percezione del sentirsi fuori luogo ed
inopportuno. Soprattutto, non ero sicuro che i miei nervi avrebbero mantenuto
il contegno necessario davanti all’immagine della mia Allison che si comportava
come aveva fatto con me, come era in fondo giusto che facesse, dato il suo
lavoro.
L’eco
della musica e dei bassi arrivava fin sulla strada e, ad accogliermi, trovai
Dean, lo scimmione occhialuto che per poco non aveva reso neutri me ed Aidan
durante la nostra prima visita.
Ora
invece, era da solo che entravo nel covo di vipere. Non avevo dovuto accampare
grandi scuse sulla mia serata alla mia babysitter Aidan, troppo impegnato a far
andare in porto uno dei suoi rarissimi appuntamenti con effettive chance per il
dopo serata.
Erano
tre giorni che non vedevo, né sentivo Allison, ed era perfettamente logico
visti i ritmi che le venivano imposti lavorando in quel postaccio. E forse
anzi, quasi certamente, andare a trovarla proprio in quel posto dove l’avevo
conosciuta nel dare il peggio di sé, nel buttare via anzi tutta se stessa nel
peggiore dei modi, era stato l’ennesimo errore madornale della mia vita, un’ulteriore
zappa tirata sopra i miei piedi, l’estrema dimostrazione della mia profonda
coglionaggine; ma dovevo rivederla, continuando a sperare, almeno per lei, che
era possibile non arrendersi a quella sorte.
“Chi
cerchi ragazzo?” mi domandò Dean quando, una volta entrato nel club, inizia a
guardarmi attorno per cercarla. Purtroppo, come nel peggiore dei miei incubi,
il ricordo che avevo conservato di quel luogo era fedele a ciò che era in
realtà. Le emanazioni di fumo, alcool e sudore uccidevano le mie ghiandole
nasali quasi fossero scarti tossici d’industria e le luci soffuse, unite ai
lampi che di tanto in tanto mi colpivano con le luci psichedeliche, avevano il
potere di neutralizzarmi la vista.
La
musica infine, era riuscita ad inibire il resto dei miei sensi, se questo scopo
non era già stato raggiunto da luci ed odori.
“Mallory”
balbettai, temendo di metterla nei guai. Cercai non usare il suo nome, per
l’assurda convinzione che entrambi avevamo, di dover distinguere tra vita
privata e lavoro.
“Mallory?!”
domandò lui perplesso “non c’è nessuna Mallory qui”
Non
è possibile, pensai, shockato. Se n’era andata? Non poteva farlo, lei stessa me
l’aveva rivelato.
Possibile
che mi avesse mentito riguardo al suo ritorno al lavoro, che fosse solo una
scusa campata in aria solo per scaricarmi?
Effettivamente
come ragionamento filava piuttosto bene … avrà avuto paura di scottarsi, ed io
come uno stupito ho lasciato che mi fregasse. Me l’ero meritato in fondo,
perché ne sapeva una più del diavolo e me l’aveva fatta sotto il naso non
appena avevo abbassato la guardia.
“Ragazzo?!
Ragazzo!!” mi richiamò all’ordine quel bestione “se sei venuto qui per farmi
perdere la pazienza, dimmelo subito perché non ho tempo da perdere appresso a
te … così ti sbatto subito fuori dai coglioni!!!”
“Aspetti
… mi … mi lasci spiegare … io … io …”
Bella figura del pollo che stavo facendo, incapace com’ero di spiegare la
situazione a quell’energumeno. Ma del resto, come farlo senza compromettere
Allison e proteggerla da ulteriori catastrofi?
“Dean!”
una voce alle mie spalle, proveniente dalle scale che portavano al privé, fece
scattare il gorilla sull’attenti “lascialo stare … lui è qui per me. Non è vero
Tyler?!”
Mi
voltai non appena sentii il mio nome. Era quasi ovvio che a parlare fosse stata
lei, ma nella confusione del locale, tra musica e versi poco umani che venivano
emessi ad ogni angolo, era difficile distinguere una voce da un’altra. Non mi
curai del buttafuori, e poco importava che fosse ormai ancora dietro di me o si
fosse dileguato. Il mio sguardo si concentro su quel viso che per tre giorni mi
ero esercitato a ricordare, e non c’era verso di posare gli occhi altrove,
nonostante fosse tutto piuttosto visibile.
Nel
suo habitat sembra sempre piuttosto disinvolta e chiaramente disinibita,
probabilmente anche grazie a qualche bicchierino di troppo mandato giù per
distendere i nervi. Forse era per quello stesso motivo che, nonostante gli
alti, ma soprattutto i bassi, della nostra controversa amicizia, lei sembrava
dare per scontata la mia presenza lì e si comportava come niente fosse.
Mi
prese per mano e mi accompagno fino al bancone, costringendomi a prendere
almeno un birra, ovviamente per lei. Mi accesi una sigaretta, che sapevo già
avremmo finito col condividere. Non so se era così con tutti i clienti, ma per
me era il nostro gioco, anche fuori da lì.
Evidentemente
attenta a mantenere una certa facciata, Allison si stava impegnando con tutte
le sue forze ad incollarsi a me, sedendosi sul bancone a gambe decisamente
divaricate o provocandomi con ogni arte degna della migliore geisha di Tokyo.
Per quanto fossi concentrato a cercare il suo sguardo, un muto consenso per una
conversazione, non potei fare a meno di notare il suo corpo, come non lo vedevo
effettivamente da un po’ e che tuttavia avrei difficilmente dimenticato. La
gonnina scozzese aveva fatto posto ad un gonnellino nero con grembiulino,
perizoma rosso da perderci il sonno e reggiseno a triangolo nero. Era
provocante, come la ricordavo, sexy da far paura ma, forse perché avevo
imparato a conoscerla per come era veramente, aveva perso quella volgarità
tipica di una persona che svolge quel tipo di lavoro. Non indossava né calze a
rete, né zeppe da battona, ma dei semplici tacchi a spillo che la rendevano la
regina del locale, nonostante probabilmente fosse di ritorno da una delle sue
“performance” private. Il volto era truccato in maniera composta ma elegante,
come se volesse distinguersi da quella massa di prostitute che era lì con lei.
“Io non sono come voi” sembrava urlare “io me ne andrò da qui”. Era come se
tutta la normalità e la purezza che era riuscita a riacquistare nei giorni
precedenti, non sia stata in grado di metterla da parte. E questo non faceva
che riempirmi di gioia.
Anch’io
del resto, avevo maturato un profondo rispetto per la Allison della libreria,
quella della pizza dietro l’angolo e del cornetto alla nutella, che non
riuscivo a guardare il suo corpo e a provarne piacere o desiderio alcuno, bensì
ribrezzo per quella condizione di serva che era ancora costretta a subire,
nonostante desse perennemente l’impressione di essere libera e serena in quei
pochi panni.
Così
mi rifugiavo nei suoi occhi che, scontrandosi con i miei, mi donavano ancora il
riflesso di quell’anima che avevamo ripulito insieme.
“Cos’è?”
le chiesi in un sprizzo di audacia “non ti fai trovare? Ho chiesto di Mallory e
…”
“… e Mallory stasera non c’è. Piacere di conoscerti” tese la sua mano in segno
di saluto “io sono Bridget, e sarò la tua cameriera personale della serata”.
“Piacere di conoscerti Bridget!” ricambiai il saluto divertito.
Nonostante
provasse in continuazione a farmi bere quella brodaglia che spacciavano per
birra, l’esperienza dell’ultima volta mi era bastata al punto che anche se
fossimo stati in pieno deserto, avrei preferito mille volte morire di sete.
Così continuai ad aspirare dalla mia bionda, facendole fare un tiro di tanto in
tanto.
Venne
a sedersi su me, alla stessa conturbante maniera della primissima volta, e si
avvicino al mio orecchio “C’è il capo in giro … devo ballare per forza.
Scusami”.
Si
stava scusando per il suo comportamento, perché doveva provocarmi e fare la
sensuale, altrimenti l’avrebbero anche potuta picchiare. Allora stetti al suo
gioco, sussurrandole di rimando: “Fai quello che devi …”
“Ogni
tuo desiderio è un ordine” strillò quasi, probabilmente per farsi sentire da
qualcuno che la stava osservando. Salì sul bancone del bar ed iniziò a
sculettare e a ballare su uno dei pali. Mi dava tremendamente fastidio vederla
umiliarsi a quel modo, avendola conosciuta davvero, avendo scoperto il vero
tesoro di una ragazza come lei. Non un premio da comprare per una notte, non un
oggetto da sfruttare a pagamento; ma una bellissima ragazza da conquistare con
dignità e correttezza, nella sua dolcezza, nella sua simpatia e per la sua
incredibile voglia di vivere. Mi guardai intorno, per distogliere lo sguardo da
quella visuale poco gradevole, per quanto interessante potesse essere agli
occhi di chiunque; cercai quel porco, per poter vedere che faccia potesse avere
un criminale del genere: eppure, al di là dei due/tre buttafuori che si
guardavano intorno circospetti, non c’era nessuno che potesse sembrare un
criminale. C’erano solo uomini ubriachi ed infoiati, malati al punto da andare
anche con delle ragazzine.
La
rabbia mi saliva dentro sempre di più, al punto che forse, pensai, era meglio
per tutti se me ne fossi andato. Meglio per me, che calmandomi avrei evitato
guai con la sicurezza; e meglio per Allison, che avrebbe fatto il suo, seppur
sporco, lavoro, senza la vergogna di farsi vedere dalla mia ombra che la
sorvegliava.
“Non
ho i soldi per andare di sopra, mi dispiace …” le urlai, mentre ondeggiava al
ritmo di musica. Era una canzone bellissima, adatta per una romantica serata
d’amore, e rovinata dall’atmosfera di quel luogo.
“Fa
niente …” mi rispose “… sarà per la prossima volta. Lo sai che mi piace
chiacchierare con te …” “Lo so” risposi, sottovoce, più a me stesso che a lei.
Se
solo avessi conosciuto un modo per farla rimanere al sicuro, se solo avessi
davvero potuto proteggerla, l’avrei portata via con me all’istante. Ma in
quella prigione c’ero entrato anch’io ormai.
Al
cambio di canzone la vidi rivolgere lo sguardo verso una delle bariste che,
probabilmente istruita dal capo, le stava indicando con un cenno del capo, un
angolo buio del locale. Era difficile distinguere chi fosse seduto a quel
tavolo, ma oltre la cortina di fumo e i vapori dell’alcool, riuscivo ad
intravedere una sagoma piuttosto consistente, ed immaginai che fosse un
omaccione di quelli grossi, e magari con le tasche gonfie di soldi. Magari un
californiano, uno con orologi e collane d’oro massiccio che coprono ogni centimetro
di pelle.
Bridget,
come si era fatta chiamare quella sera, scese dal bancone e, preso lo champagne
e due flute, si preparò ad andare proprio verso di lui.
“È
ora che vada” mi disse “se riesco a portarlo di sopra, per stasera ho finito”.
C’era quasi un tono speranzoso nella sua voce, come se la ricompensa potesse
valere un tale sacrificio. Probabilmente era uno di quelli da servizio
completo, il che mi fece ulteriormente rabbrividire.
“Ma
come fai?” le chiesi, cingendole i fianchi nudi con un abbraccio. Sperai che
per un attimo si soffermasse a guardare attentamente i miei occhi, e vi
scorgesse tutto lo sdegno e la disperazione che provavo a vederla in quello
stato.
“Ha
sessant’anni … farò in fretta …”. Cercò di sorridermi, dandomi quella misera
giustificazione, ma era palese l’imbarazzo che sempre aveva a parlare con me di
certe cose. Sapeva che non mi scandalizzavo, né che l’avrei mai offesa davvero,
ma probabilmente dopo che si era aperta davvero con me, si sentiva
legittimamente a disagio a mostrarsi in quelle vesti. Mi diede un veloce bacio
sulla guancia e si diresse verso il nuovo cliente.
Laddove
le sue labbra si erano delicatamente impresse sulla la mia pelle e laddove le
mie dita avevano sfiorato la sua, era ancora il fuoco. Sapevo cosa significava;
dovevo fare qualcosa.
Mi
cercai un posto vicino a quello dove Allison stava intrattenendo il suo ospite, lavorandolo ai fianchi per
ottenere il suo scopo. Pensai che quel tavolino alla loro destra, non molto
distante e a riparo da occhi minacciosi ed indiscreti, fosse perfetto per me.
Nessuno mi avrebbe visto, lei non mi avrebbe visto, ed io avrei continuato a
vegliare su di lei. Se fossi stato beccato in fondo, mi avrebbero dato del
voyeur ma, in quel marasma di pervertiti, uno in più non faceva scandalo.
Accesi l’ennesima cicca e stessi lì a guardare.
Ero
un masochista, pazzo e masochista come quel leone
di cui Allison mi aveva letto e di cui avevo avuto la nausea. Forse ero davvero
malato e ossessionato da lei, ma non potevo sopportare che mani sudice
violassero quel corpo senza colpa.
La
vidi muoversi su di lui come aveva fatto con me, provocandolo, e
paradossalmente sembrava farlo con trasporto. Era brava nel suo lavoro, era
evidente. Lui infatti gradiva in maniera più che evidente e le sue mani scorrevano
sulla sua pelle cercavano di sciogliere i lacci del reggiseno anche se le mani
di lei correvano immediatamente ad impedirglielo.
Sentivo
dentro di me nascere una forza violenta e nera, pronta ad esplodere da un
momento all’altro e a riversarsi impetuosa su chiunque mi si fosse parato
davanti.
Controllavo
quelle dita grasse e rugose e, nonostante non riuscissi a vederlo, potevo
figurarmi con grande facilità l’eccitazione sul viso di quel porco; avrei
voluto cavargli gli occhi e tagliargli quelle dita una ad una, lentamente,
provocandogli lo stesso dolore che stavo provando io ad assistere a quello
spettacolo indecente.
Poi
fu un lampo: mi avventai su quell’ammasso di lardo, scaraventando su una
poltroncina lì di fianco la povera Allison, non curandomi di dosare la mia
forza e la mia rabbia. Non so come vi arrivai, né come mi districai dagli
uomini della sicurezza che subito mi si erano parati addosso: l’ultimo mio
ricordo infatti, erano le mani di quell’uomo che scostavano il filo del
perizoma di Allison e accarezzavano la parte più intima di lei.
Mi
impegnai con tutto me stesso a tirare pugni su quella merda ambulante e, con la
mia giaccia tra le mani, tentai anche di strozzarlo. Sentivo i gemiti del
vecchio, che arrancava nella ricerca vana di aria e aiuto. Mi accorsi che mi
avevano preso solo quando non sentii più la terra sotto i piedi, e la
temperatura glaciale dell’esterno mi fece capire che mi avevano portato fuori.
Dopo
fu solo buio e sangue e dolore.
Tra
pugni e calci, e il sangue che grondava dalla mia fronte per la testata che
avevo preso e il calcio che mi aveva fatto finire a terra, riuscii a scorgere
la sagoma di Allison, alta ed esile sulle decolleté nere lucide e dal tacco
vertiginoso. Stringeva contro si sé la mia giacca, troppo grande per lei, ma
che a malapena scendeva a coprirle i fianchi. Se ne stava lì a guardare,
inerme, la bestia morire al mattatoio, tranciata e finita. La sentii implorare
di smetterla almeno un paio di volte, ma le sue grida arrivavano impotenti alle
orecchie dei miei aggressori. La mannaia continuava a sferrare i suoi fendenti
fatti di percosse e il fuoco delle lesioni misto alla polvere dell’asfalto non
si estingueva dalle ferite.
Il
forte odore del sangue, ferroso e salato, mi era entrato sin dentro il cervello
e mi faceva venir voglia di vomitare anche l’anima. Probabilmente qualche
calcio era arrivato anche a lesionarmi lo stomaco, e non mi sarei stupito se
avessi iniziato a sputare sangue dalla bocca. Sentivo la ruggine in gola,
pronta ad essere espulsa. O forse, e questa era la mia grande speranza, il
sangue dal naso era sceso fino in bocca oppure avevo il labbro spaccato. Ora
che ce l’avevo fatta non potevo morire, anche se sentivo già il volo degli
avvoltoi avvicinarsi.
Ma
dovevo resistere. Allison aveva già visto di me la più brutta delle immagini,
non volevo assistere ad uno spettacolo anche peggiore.
Quando
sembravo più morto che vivo, incapace di reagire, la morsa della violenza di
allentò. Percepii Allison che parlottava con loro, con aria supplichevole.
Aprendo leggermene le palpebre vidi i due scimmioni allontanarsi ed Allison avvicinandosi,
chinandosi amorevole su di me.
Peggio
di una bambola rotta cercai di tirarmi su, ma mi sentivo peggio di un vaso di
cristallo fatto in mille pezzi. Non avevo idea di come fosse ridotta la mia
faccia, ma in fondo ero ancora lucido e non conciato poi così male, al di là di
qualche doloretto, normale, per la caduta e le botte.
Ero
un pappamolle, non c’è che dire; due pugni, e già vedevo S.Pietro sventolarmi
davanti le chiavi del Paradiso.
Allison
mi posò la giacca sulle spalle e con dei fazzolettini di carta mi tamponava il
sangue sulla fronte e sul naso. Le rimisi il giaccone addosso, scherzoso: “Tieni
… serve più a te che a me …”
“Ridi
pure Tyler?” mi riprese, severamente. “Lo so, scusa … è meglio se mi sto zitto!”
“Vattene”
rispose, fredda “per stasera hai già fatto troppi casini”
“Sì,
hai ragione” confermai, in colpa “ma credimi non c’ho visto più!”
Allison
mi guardava, silenziosa, ed il suo sguardo non riusciva a tradire alcuna
emozione. Non era in pensiero per me, non era arrabbiata: niente.
“Non
rientrare in quel locale, Allison … vieni via da lì!”
“Ancora
Tyler” gridò, esasperata “ma non hai ancora capito? Io non posso …”
“Io
posso aiutarti, se solo mi lasciassi …” “tu Tyler? Davvero puoi aiutarmi?”
chiese, in tono palese di sfida e sdegno; ora era davvero arrabbiata. “E come?
Mettendoti a fare a cazzotti con ogni cliente che mi tocca? È il mio lavoro,
dovresti saperlo!”
Già,
lo sapevo; ma non potevo tollerarlo. Perché l’avevo vista vivere di giorno, e avevo
sperimentato che poteva essere una ragazza come tutte le altre. E poi c’era
quell’altra cosetta, ancora più complicata, che mi impediva di sopportare la
sua presenza in quel luogo. Se ne stava rientrando nel locale, e sapevo che se
l’avessi lasciata andare, non l’avrei più vista. Non aveva l’aria di una che
aveva apprezzato il mio gesto, né di chi mi avrebbe perdonato.
“Ti
prego Allie … vieni via con me!” “Tu mi preghi?” invei, tornando sui suoi passi
“pensa tu a pregare piuttosto, Tyler!” Non capivo dove volesse arrivare. “Vai
via e prega che nessuno massacri di botte anche me nelle prossime ore, prega
che io possa conservare ancora questo posto o il tetto che ho sopra la testa …”
Fu
lì che mi ricordai della cena in pizzeria, di quando mi aveva raccontato la
storia della sua collega. Capii il perché della sua rabbia e avrei voluto
sotterrarmi per la vergogna di aver compiuto quella stronzata. Non volevo farla
cadere nella merda più di quanto già non fosse, ed invece era proprio quello
che avevo fatto.
Attrezzate
un plotone ed eseguite la condanna di morte. Mi sacrificherò io al posto suo.
“Allison
…” la chiamai, mentre di nuovo mi voltava le spalle per andarsene, lasciando
per terra il giaccone “Allison!”. Racimolando le poche forze che mi erano
rimaste, la ricorsi. Era l’unica cosa che ero in grado di fare da quando l’avevo
conosciuta. Eppure ogni volta sembrava funzionare; ergo, non l’avrei lasciato
intentato questa volta.
La
costrinsi a voltarsi e, prendendole il volto tra le mani, stampai un bacio irruente
sulle sue labbra. Era il nostro primo bacio, ma non si avvicinava neanche
lontanamente a quello che avevo in mente per noi. Io avevo la faccia sporca e
devastata, lei tra le lacrime si era ridotta in uno stato altrettanto pietoso. All’inizio,
forse avendola spiazzata, sembrò rimanere passiva alle mie labbra sulle sue o,
sperai, ricambiò perché in fondo era quello che volevamo entrambi. Tuttavia, al
mio ancor minimo tentativo di approfondire, quando sembrava avermi dato la sua
approvazione a farlo, mi strattonò da lei, mordendomi anche leggermente le
labbra, come punizione.
I
suoi occhi erano pieni di furore e quel morso sul labbro inferiore sembrava
davvero essere una bazzecola in confronto a ciò che avrebbe potuto farmi. Offesa
e presa in giro anche da me: ecco cosa urlava, con tutto il suo corpo.
“Io
… io” tentennavo, ma sentivo che dovevo parlare “mi sto innamorando di te
Allison. Ti voglio per me … e non posso tollerare che ti lasci toccare da
nessun altro”
Non
seppi distinguere la sua reazione; ovviamente sembrava sorpresa, ma
positivamente o negativamente non saprei dirlo. Furono le sue parole a
ghiacciarmi, e a dirmi che non avrei avuto più di che sperare.
Ostinata
e arresa a quella merda di esistenza che si trascinava dietro come una palla di
piombo, mi urlò in faccia: “Io non sono di nessuno … nemmeno mi appartengo. E i
problemi della gente come me non si risolvono solo con l’amore …”
Raccattai
i miei quattro stracci e andai a leccarmi le ferite lontano, il più lontano
possibile.
NOTE FINALI
Ci aspettano ora capitoli non facili, e questo è solo il primo. Ho avuto bisogno della pausa di due settimane per mettere in ordine le idee e perché ho avuto da fare.
D'ora in avanti non ci diamo più una data d'appuntamento, ma diciamo che in massimo una decina di giorni dovrei aggiornare.
Non voglio parlare del capitolo perché lascio a voi le conclusioni e se avete qualche domanda sapete dove trovarmi e quali strumenti avete a vostra disposizione.
à bientot
Federica