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Autore: Quintessence    02/05/2011    11 recensioni
Il Destino ci narrò storie di coraggio su Sailormoon, su quello che furono le Senshi, sulla venuta di Chaos. E ognuna di noi sapeva che l'umanità sarebbe vissuta. Che l'accecante potere del Ginzuishou avrebbe toccato tutti. Che Serenity avrebbe vinto anche l'ultima sfida, sconfitto anche la Catastrofe finale, creando la nuova e Luminosa Crystal Tokyo.
Il Destino aveva parlato. Noi avevamo creduto.
Oggi, però, il Destino è cambiato.
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Ami/Amy, Makoto/Morea, Minako/Marta, Rei/Rea, Usagi/Bunny
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Dopo la fine
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13 ~ Voluntas
La quinta e ultima prova è la prova di Usagi. Forse la più dura, o forse no. Sicuramente è la più importante. Chi sceglie di voler morire, e viene salvata per caso o per destino o per scelta di altri, deve dimostrare di voler vivere. E non solo per se stessa. Tutto sommato, tuttavia, Usagi è sempre stata la più altruista delle Senshi. Ma è ancora in grado di gridare il suo amore alla vita, e correre incontro alla salvezza del mondo non solo per sé e per Chibiusa, non solo per amore di madre, ma per amore di amica, di sorella, di moglie, e di donna?

 

 

La testa pesante, le gambe completamente atrofizzate da un freddo gelido che proveniva da ogni direzione. Gli occhi che bruciano e le palpebre incollate. Le braccia, dove sono? Usagi aprì gli occhi la prima volta, e la luce la colpì con schegge dolorosissime. Era in uno stato di semitorpore, come se avesse dormito per giorni e giorni. Le faceva molto freddo… Molto. Riprovò ad aprire gli occhi, ma non riuscì di nuovo. Le facevano male, un dolore atroce. Era sdraiata sulla schiena. Per la terza volta, spalancò le palpebre. Questa volta resistette al dolore, e non le chiuse. Sopra di lei c’era il cielo blu. Era tutto a posto, c’era il cielo. Provò a sorridere, le fece male la guancia. Poi, un altro freddo. Il freddo del panico.
« Dvmm » -Suoni sconnessi. Aveva anche la lingua gonfia, ma lentamente stava vincendo la stanchezza- « Dove sono…? » -Aveva paura. Paura dell’eco che non arrivò. Si poggiò su un gomito, la testa era sempre più pesante da reggere solo con il collo. Si aiutò con una mano. Lentamente si alzò, a fatica, mentre tentava di rendersi conto di dove fosse. Ed ecco, il freddo della consapevolezza.
« Aiuto! » -Gridò chiudendo gli occhi. Aveva paura.
« Non urlare, non ne hai bisogno » -Il caldo, adesso. Quello della luce di qualcosa… Di una creatura, di un angelo forse, che le aveva illuminato gli occhi. Finalmente riuscì ad aprirli del tutto, e a scacciare quel freddo che l’avvolgeva. Improvvisamente, ricordò una cosa importante. La più importante. La sua mano corse ad avvolgere la pancia. Ma qualcosa le diceva che era tutto a posto. Respirò lentamente. Andava meglio.
« Chi sei tu? » -Non più dove sono? E nemmeno perché sono qui?
« Sono il Silver Crystal. Sono la tua Nemesi. Il tuo contrario, te stessa. La tua forza, la tua debolezza. Sono il nero sul bianco, l’esponente per la tua base. Il seme della stella più potente. La tua. Sono nata Voluntas » -Aprì gli occhi, e Usagi li vide di un bianco quasi surreale. Argentato, quasi. Mostrava ostentatamente un colore chiarissimo, in netto contrasto con la pupilla nera ed espressiva. Aveva gli odango, come lei. Aveva un vestito lungo, e a balze; capelli bianco latteo, delicati e raffinati, con fili argentei in ognuna delle due cascate. Anche la divisa era bianca, anche se sulla parte anteriore la gonna scopriva una leggera porzione di colore. Di colori, in verità, due. Un azzurro tenue e uno più forte; aveva decolleté alate, e l’argento traboccava da ogni parte del suo corpo. Usagi la guardò con attenzione, come se non avesse mai visto altro nella sua vita; quella era lei, eppure non era lei. Era una parte di sé che non le apparteneva più, una guerriera sopita e mai risvegliata in quegli otto anni. Era il cristallo che aveva cercato di uccidere per suicidarsi, e le cicatrici che le solcavano il viso e le braccia lo denotavano con forza, anche se non sembrava soffrirne. Le ali, bianche come la fuku, e ornate d’argento come lo sguardo. Era una forma divina. Usagi non ci fece particolarmente caso, ma aveva un’aria familiare. Forse era perché era lei stessa… Forse perché era la sua anima.
« Sei la mia volontà? » -Chiese con una leggera incertezza nella voce.
« Sono la volontà » -Rispose lei con un tono duro- « Non sono tua. Sono quello che ti manca. Sono il passo avanti »
Usagi non capiva. Non perché fosse tarda, quello era sempre stato un classico della sua vita, ma non nelle situazioni importanti. In quelle, aveva sempre fatto attenzione e compreso ogni dettaglio. Ma in quel caso, non riusciva a collegare due cose.
« Che ci facciamo qui? Dobbiamo salvare il mondo! » -Voluntas ridacchiò, leggermente. A Usagi sembrò che si stesse rompendo un bicchiere di cristallo. Solo il suono che produceva le regalava brividi incontrastati. Voleva restare ad ascoltarla per sempre. Quando parlò, pendeva dalle sue labbra
« Naturalmente, ma occorre unirci ancora per poterlo fare. Occorre che stiamo insieme, o nessuna di noi vivrà. E per stare insieme, occorre che tu lo voglia » -Allora era molto facile, si disse Usagi. Lei voleva salvare il mondo, e voleva stare con il suo Silver Crystal ovviamente!- « E devi mostrare di volerlo, con una prova »
Usagi mosse un passo verso di lei, ma rischiò di perdere l’equilibrio. Lo ritirò subito, cercando di prendere del tempo. La prova poteva essere pericolosa per lei, ma soprattutto per Chibiusa. Aveva perso un figlio, non voleva perderne un altro.
« Sei la più potente o no? Usa il tuo potere. Uniscici » -Voluntas si abbassò su di lei, volando, e si fece ancora più caldo. Usagi arrossì leggermente.
« Qui la volontà è tutto. Come posso avere volontà di unirmi con chi mi ha quasi uccisa? » -Usagi si ritirò nel guscio di dolore. Era vero, doveva dimostrarle di avere ancora fede nel Crystal. Di essere ancora forte per lui, per loro. Per le sue amiche, che avevano sofferto le pene dell’inferno per anni. Doveva dimostrare di avere volontà di salvarle…?
« Ma io non sono più una Senshi. Non ho volontà da darti » -Quella era l’unica verità. L’aveva perduta tutta, tutta per Chibiusa.
« Vuoi salvare il mondo? » -Le domandò Voluntas.
« Sì, ma… »
« Allora devi voler vivere »
Usagi capì che sarebbe successo un millesimo di secondo prima. E cercò di schivare la sua Nemesi con un repentino movimento, ma fu inutile. Con uno slancio d’ali, Voluntas le fu addosso quasi dolcemente. L’abbracciò, trascinandola fuori dal suo appoggio. E poi la lasciò andare. E Usagi, Usagi cadde. Cadde con Chibiusa. Cadde come non era caduta da quella volta, dalla luna spenta. E da ancora più su. Cadde dal tetto del mondo, dall’altezza di un posto che arrivava alle nuvole. Che ci stava sopra, alle nuvole, dove il sole c’è sempre. Perse l’appoggio dei piedi, e cadde a schiena in giù, pensando ancora una volta subito a come Chibiusa sarebbe morta, con lei. Cadde chiedendo pietà almeno per sua figlia.
« Adesso, vola » -Le sussurrò il Crystal, seguendola nella sua spaventosa picchiata. Era la seconda volta che le era richiesto di volare. Ma la prima aveva il golden crystal. Era diverso. Adesso non aveva nessuna speranza. Stava cadendo di schiena, e completamente a peso morto, nemmeno era trasformata. Non ce l’avrebbe fatta. Cercò di voltarsi per vedere il terreno, volava già a una velocità doppia di quella iniziale. Non si vedeva, in ogni caso, il suolo; si vedevano le nubi, molto più in basso.
« Cosa? » -Gridò in direzione di Voluntas. Sbarrò gli occhi, mentre attutiva la caduta aprendo le braccia. Non sentiva niente. Andava veloce, e l’impatto con l’aria era come con un blocco di cemento. Si sentiva lacerare molto più di quanto non fosse successo l’ultima volta. Voleva solo rallentare. Solo rallentare, per favore. La pancia si sarebbe distrutta, Chibiusa sarebbe morta con lei, questa volta. Questa volta non ce l’avrebbe fatta.
« Devi volare… » -Sentì di nuovo la voce della nemesi, ma la contrastò con forza.
« Non so volare! » -Urlò con veemenza in direzione del vuoto. Non la vedeva, cosa stava facendo? Volava accanto a lei? Forse era pronta a prenderla al volo, magari la prova era solo quella; doveva resistere, e avere fiducia in lei. E lei l’avrebbe salvata. Qualcosa le diceva che non sarebbe stato così facile, comunque.
« Se non sai farlo, morirai come hai deciso » -Stava volando accanto a lei, sì. Usagi si rivoltò in aria e gettò le mani nella sua direzione, per ucciderla. Questa volta non aveva dubbi, l’avrebbe finita subito. Era veramente un’assassina, una proiezione malsana di sé e doveva essere eliminata. Ma Voluntas aveva le ali, e Usagi no. Tutto quello che ottenne fu di farla volare su, in alto, mentre si rivoltava in aria come un’ossessa.
« Io non voglio morire » -le gridò- « MI HAI SENTITA? C’è Chibiusa con me! Non voglio morire, ma devo adesso! »
Si slanciò verso l’alto con rabbia, nell’intento di raggiungerla con le mani, per prenderla e trascinarla con sé nella caduta. Ma non ottenne niente, se non di accelerare la rovinosa cascata verso il basso. Guardò ancora verso il basso e vide le nubi. Erano più vicine, questa volta. Vicinissime, e si avvicinavano a lei a velocità assurda. Le vide inondarle gli occhi; poi nebbia. L’umidità le penetrò nelle ossa istantaneamente, mentre si dimenava con gli occhi chiusi per la rabbia e il dolore dell’acqua a piccolissime gocce che formano le nubi, che a quella rapidità l’avevano quasi accecata.
« Non devi » -Le sussurrò Voluntas. Adesso non la vedeva più, di nuovo- « Qui la volontà è tutto. Hai voluto morire, e adesso vuoi vivere. Non puoi giocare con la vita. Adesso, devi scegliere. Non solo per te, Usagi. Per il mondo. La tua scelta sarà per sempre »
Il vento cominciò le sue raffiche allora. Era arrivata abbastanza in basso per cominciare a sentirlo. Usagi non vedeva la sua Nemesi, ma la sentiva accanto a sé perché era calda. Era nella nebbia più completa. Si strofinò gli occhi per riaprirli. Le bruciavano come fuoco. Sprazzi d’argento le lasciavano intuire dove fosse Voluntas, caldi soffi glielo facevano sentire. Chiuse gli occhi nel vento delle nuvole.
« Io voglio vivere » -Disse con calma pacata e determinata.
« Non basta dirlo » -Rispose Voluntas con lo stesso tono.
« Và al Diavolo! » -Le urlò Usagi, allora, cercando di nuovo di scaraventarsi contro di lei per quanto possibile- « Và al Diavolo! Perché dovrei morire? Per te, Crystal? Io non morirò! » -Stava urlando più forte, mentre l’angelo le sorrideva volando leggermente più in basso di lei e guardandola cadere.
« Sì, così mi piace di più » -Annuì.
« Non ho intenzione di essere egoista e lasciar morire chi amo, e chi non amo, e chi potrei amare. Se credi di potermi fermare, ti sbagli » -Ma lei era il silver Crystal. Non doveva stare dalla sua parte? Se non c’era nemmeno lei, schierata al suo fianco, le cose si facevano davvero particolarmente complicate. Ma non poteva arrendersi. Per Chibiusa. Per Mamoru. Per le amiche deluse. Per il suo mondo. E per il mondo degli altri. Le era bastato commetterlo una volta, quell’errore, per capire. Strinse i pugni con decisione, aprì le braccia, cominciò a batterle nella grottesca imitazione di un uccello.
« Funziona? » -Chiese Voluntas con divertita ironia. Ma Usagi non sorrise, non l’ascoltò. Adesso, vedeva il suolo. E anche se non l’aveva mai visto così lontano, mai l’era sembrato così vicino. Non c’era tempo- « Non hai tempo. Devi scegliere, ora »
« Io ho scelto! » -Urlò continuando a sbattere le braccia con veemenza. Ma i muscoli cominciavano a farle male. Smise, per un minuto, per riposare il dolore che le si diramava per le spalle fino al collo, e alla schiena, fino alla fine della spina dorsale.
« È evidente che il tuo corpo non basta »
E Usagi capì. Che tutto non era un sogno, una sfida o un dolore. Che tutto intorno c’era un mondo, una vita, una volontà che non avrebbe mai potuto competerle. Che non avrebbe mai saputo volare, solo lei, solo Usagi. O forse, tutto era dentro di lei e il suolo era più lontano di quanto credesse e c’era tempo, questa volta. Tempo per tirarla fuori.
Come non aveva fatto quando Mamoru le aveva detto che l’amava. Come non aveva fatto quando le aveva detto che soffriva per il figlio che aveva perduto. Come non aveva fatto quando credeva di aver perso Chibiusa. Come non aveva fatto quando era rimasta sola. Come non aveva fatto in otto anni di lunghe e faticose prove per rimanere incinta e perdere tutto il resto.
Non era il corpo, Voluntas aveva ragione. Non era la voce, non era il gridare, lo sbattere le braccia; non era la pancia. Non era quello. Il Destino le chiedeva qualcosa di molto più grande.
Non si preoccupò del terreno che si avvicinava, né tantomeno del fischio del vento. Si girò di nuovo, faccia verso il basso, braccia aperte. Non voleva vivere per salvare gli altri. Non voleva vivere per paura di perderli. Non voleva vivere per paura. Non voleva vivere per timore del suolo o della morte. Voleva vivere perché aveva paura della vita, e voleva vincerla. Adesso. Per gli altri, certo. Per Mamoru, e per Chibiusa. E per Makoto, per Rei, per Ami e per Minako… Ma soprattutto per se stessa. Avrebbe difeso il mondo perché non voleva che altri morissero senza volerlo, come stava toccando a lei. Ma soprattutto, perché voleva vivere. E non aveva nessuna intenzione di morire.
« Io-so-volare » -Disse a se stessa a denti stretti- « So-farlo » -ripeté- « Devo-farlo » -ancora- « Voglio-farlo! »
Le scapole le si spaccarono con uno schianto secco. Usagi urlò come non aveva mai fatto nella sua vita, e il dolore non l’aveva mai fatta sentire così… Viva.
Sentì la spina dorsale scoppiare, osso dopo osso, dolore dopo dolore. Cominciò ad avere paura sul serio quando smise di riuscire a muovere qualsiasi cosa che non fosse la testa. Non riusciva a muovere le braccia, né le gambe, né il bacino, a causa della rottura completa della sua schiena. Probabilmente si era completamente aperta. Era paralizzata, il viso rivolto verso il terreno sempre più vicino. Cominciava a distinguere, oltre a chiazze colorate, qualche particolare. Quelli più grandi, lontanissimi. Palazzi e alberi e le strade, che sembravano ricamare con grazia tutto il suolo. I campi di grano… Guardandolo dalla giusta prospettiva, il mondo era bellissimo. Usagi lo amò in quel momento, lontano. Distante molti chilometri, distante tutta una vita. E lei, come una stupida, aveva chiuso gli occhi per non vederlo, per vedere solo Chibiusa. Makoto le aveva salvato la vita, e le aveva permesso di vedere. Di vedere il mondo. Di vedere ancora una volta il sole. Ancora la pioggia, e ancora le nuvole. Di giocare ancora a cercare la forma di un animale fra le stelle. Di baciare di nuovo Mamoru. La vita non era poi così male sulle sue labbra. Forse avrebbe dovuto baciarlo un’ultima volta, prima di andare via. Forse avrebbe dovuto dirgli più forte che l’amava, e non solo perché le aveva dato una figlia. Lui aveva sofferto molto più di lei, per la perdita di quel figlio. Il fatto che lo mostrasse in maniera diversa, non significava che Usagi dovesse prendersi tutte le attenzioni e- Beh, se fosse riuscita a non morire quel giorno, gli avrebbe chiesto scusa, e si sarebbe fatta perdonare. Ci sarebbe voluto del tempo? Non importava. Era pronta ad aspettare per riprendersi le sue migliori amiche. Una dopo l’altra.
Due lacrime le scivolarono giù dagli occhi. Non aveva più la spina dorsale, come sarebbe riuscita a fare qualsiasi cosa senza nemmeno potersi muovere? Ma volere è potere, qui. Cercò di muovere le dita, ma quelle non dettero segno di aver capito. Ci provò ancora, ma non si mossero. Provò a scalciare, a muovere le gambe. Nulla da fare. Allora chiuse gli occhi. E strinse i pugni, preparandosi allo schianto. Tutte e dieci le dita si piegarono in uno spasmo improvviso e inaspettato. Aveva chiuso le dita su qualcosa di viscido e marrone, e morbido. Riaprì gli occhi e l’osservò meglio. Era una piuma. Era di sfumature caramello, completamente inzuppata di sangue e molto corta; ma che stava succedendo alla sua schiena?
Gridò inarcandola, accecata improvvisamente da una scossa di sofferenza bruciante che partì dal suo collo fino ad arrivare al fondo della schiena. Era la sua colonna vertebrale. La sentiva con una lucidità da panico. Stava cercando di dividersi in due. Rabbrividì, inghiottendo la poca saliva che aveva nella bocca secca. Non sapeva più dov’era, il dolore l’accecava completamente. Vedeva cerchi colorati dietro gli occhi chiusi, le girava la testa. No! Aprì gli occhi, fu un attimo. Doveva. Assolutamente. Riuscire. A.
Adesso le piume quasi la circondavano, era una nuvola di piume che cadevano accanto a lei. Erano più lente, e piano piano le superava tutte; man mano che cadeva, da marroni diventavano bianche, in contrasto con il rosso del suo sangue. Sentì di nuovo la spina dorsale, l’inarcò di nuovo all’indietro con un gemito soffocato. Capì che si era sbagliata, poco prima. Le sue ossa non stavano cercando di dividersi in due, erano già aperte. Stavano cercando di richiudersi. A quanto pareva, senza successo. Il suolo era più particolareggiato, adesso. Adesso non c’è tempo.
Prese il coraggio a quattro mani, aveva poco tempo. Troppo poco. Si guardò intorno, doveva sbrigarsi, doveva trovare qualcosa che l’aiutasse, qualsiasi cosa e-
Si strappò il maglione di dosso, gliene rimase un pezzo in mano con il freddo che le uccideva le braccia nella velocità. Per fortuna aveva almeno una maglia a maniche corte e non era rimasta in biancheria. L’ironia della cosa la fece quasi sorridere.
Doveva farlo. Doveva muoversi, o avrebbe gettato le speranze.
Rei, non ho pianto con te. Non ti ho mai tolto la lametta di mano. Non ti ho mai detto di non farlo. Rei, non ti ho mai detto che non avevi colpa. Non sono mai venuta al tempio, non ho pregato per te. Non ho cercato di dirti che ti voglio bene, e nemmeno che mi dispiace. Non ti ho mai abbracciata, da allora. È la verità. Ma se vorrai, ti abbraccerò adesso. Se vorrai, disinfetterò le tue ferite. Se vorrai, bacerò le tue cicatrici e le ascolterò, ascolterò la loro storia. Se vorrai, Rei, ti abbraccerò adesso.
Si rivoltò rannicchiandosi, per vedere il cielo e non il suolo.
Makoto, non ho pianto con te. Non ho parlato con te quando avevi bisogno di una voce, e non del silenzio degli oggetti. Non ti ho detto mai grazie, per quello che hai fatto quel mercoledì di maggio. Non ti ho mai aiutata, su quella sedia. Non ho mai corso per te. È la verità. Ma se vorrai, lo farò adesso. Se vorrai, parlerò con te, e ti racconterò la storia della vita mia. Ti dirò grazie, e ti voglio bene, e tutte le parole che non ti ho detto. Se vorrai, Makoto, sarò le tue gambe. Ti porterò in spalla finché non sarò esausta. Rotoleremo sull’erba fin quando non l’avremo nei capelli, nelle scarpe, nel naso, nella bocca.
Con la schiena rivolta verso il basso, tirò un sospiro di sollievo.
Minako, non ho pianto con te. Non ho distrutto il tuo riflesso, non ho rotto tutti i tuoi specchi gridandoti che sono inutili nella vita. Non ti ho detto mai che sei la migliore amica che si possa desiderare. E anche la più bella. Non ti ho mai offerto un gelato che ti avevo promesso, e non siamo mai state sulla collinetta che (quella sera mi hai detto) fiorisce più colorata di qualsiasi altra. È la verità. Ma se vorrai, ci andremo adesso. Anche se non ci sono i fiori in questo periodo dell’anno. Pagherò per te il gelato, se vorrai. Per te distruggerò tutti gli specchi, e ti dirò che sei la più bella del mondo, e l’unico posto dove ti specchierai saranno i miei occhi, per sempre.
L’aria le solleticava la schiena con grande sollievo della sua spina dorsale.
Ami, non ho pianto con te. Non ho scritto un diario per te, e non ho fatto foto che ti ricordassero chi eri. Non ho passeggiato con te raccontandoti quello che è successo, non ti ho regalato ricordi abbastanza forti da imprimersi con il fuoco nella tua testa. È la verità. Ma se vorrai, te li darò adesso. Ti racconterò la stessa storia cento volte, con cento parole diverse, e ti insegnerò a contare di nuovo. Conterò con te, Ami. Se vorrai, parleremo fino alle sei del mattino di quello che è successo in questi otto anni. Sarà talmente bello, che sarà impossibile dimenticarlo.
Il respiro si stava facendo più regolare. Adesso, doveva usare il maglione.
Mamoru, non ho pianto con te. E ancora più terribile, non ho riso con te. Sono otto anni che non piango e non rido con te. Sono otto anni che ti porto via l’estate, che come una foglia aspetto che arrivi il vento. Sono otto anni che non ti bacio davvero, perché in ogni abbraccio fra noi c’è sempre stata Chibiusa. Mamoru, ti ho amato male, ti ho amato come la proiezione di una figlia futura. Mi hai dato tutto quello che avevi, mi hai regalato tutto il tuo amore, e io volevo restituirti solo un addio. È la verità. Ma se vorrai, se mi amerai ancora, se ci ameremo ancora, prometto di amarti nel modo giusto. Se vorrai, ti bacerò davvero. Se vorrai, faremo l’amore fino a mattina. Se vorrai, parleremo del bambino morto in quel momento, e l’immagineremo, e disegneremo anche il suo profilo. Ti sarebbe assomigliato, io sono sicura. Se vorrai da oggi onorerò la promessa che tu hai sempre onorato, e io ho dimenticato. Ce la farò per te. Ce la farò per tutte voi. Non sarete più soli. Vi sarò accanto. Per sempre.
Passò il maglione dietro la schiena. Sopra la spalla destra, e sotto l’ascella sinistra, in una inquietante imitazione di una fascia da vincitrice di concorsi di bellezza. Annodò.
Si morse il labbro per il dolore, mugolando mentre l’aria l’aiutava a non sentirlo. Sanguinò ancora, e ancora. Non si arrese. Strinse più forte il nodo. Più forte che poteva, ancora e ancora. Quasi al soffocamento.
Ansimava. Ma adesso, era pronta. Le piume erano tutte sopra di lei, oramai tutte candide; e non ce n’erano più intorno a lei. Sentiva la schiena, era quasi fatta. Si era quasi chiusa. Camminò sull’aria, si capovolse. Ecco il terreno, sicuramente mancavano pochi minuti. O pochi secondi, non importava. Il maglione si sciolse da solo, appena lei smise di trattenere il nodo, e volò sopra di lei. Allargò le braccia, mentre la schiena finiva di chiudersi. Pronti.
Per voi, ragazze. Per te, Mamochan.
Ecco. Una casa, un tetto. Un contadino. Ha in mano un fiore. Che fiore è? Una margherita, la vedeva nettamente, e… Troppo vicino!
Fai presto, Usagi! Ma dov’è finita Voluntas?
Nel momento in cui sbatté le ali con tutta la forza che le era rimasta in corpo, la vide. Il sole faceva brillare ogni goccia d’argento che aveva addosso.
Sorrideva.
Sorrise anche lei.
Il dolore era svanito.

   
 
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