Correvo.
Correvo a perdifiato verso quella strada che mi avrebbe portato
chissà dove.
Correvo, senza trovare la via d’uscita di quel labirinto che
mi aveva imprigionato da ormai troppo tempo dentro quel mondo fatto da
rumori e fantasia.
Ma dove mi avrebbe portato tutto ciò?
In fondo cosa cercavo realmente?
Io volevo solamente ritornare a essere quella di un tempo.
Volevo tornare a giocare con il mio fratellino, volevo tornare a
ricevere i rimproveri di mia madre e invece nulla di tutto
ciò mi veniva restituito.
Solo il buio attorno a me, accompagnato a volte da qualche singhiozzo
smorzato, poi di nuovo tutto da capo.
Le voci alternate al silenzio troppo pesante, poi i rumori, le risate e
quel maledetto suono metallico che costantemente rimbombava
all’interno del mio cervello, che credevo mi avrebbe portato
alla pazzia.
Il sistematico gocciolare di qualcosa che mi portava
all’esasperazione prima, e un minuto dopo mi dava di nuovo il
ritmo regolare da seguire per permettere al respiro di uscire
regolarmente.
Adesso era vicino, lo sentivo.
Sentivo il momento in cui quel vortice di follia sarebbe venuto a
prendermi e, come sempre, più puntuale di un orologio la
voce cominciò a parlarmi.
Cominciò a ridere sguaiatamente, a deridermi per la mia
debolezza.
Gridava.
Continuava a gridare.
Cosa
cerchi?
Chiedeva
imperterrito.
Queste le sue parole da quando questo strano universo mi aveva
inglobato in se.
<< Non lo so… >>
Rispondevo
impaurita.
Io non volevo vivere tutto questo.
Cosa
vuoi?
Urlava
infuriato, mentre la sua voce si espandeva ovunque attorno a me.
Sembrava arrivasse da qualsiasi parte e da nessun posto in particolare.
Come se girasse intorno a me con il solo scopo di tormentarmi.
<<
Non lo so! >>
Dicevo
sempre più disperata.
Stanca di continuare questo stupido e irritante gioco.
Sembrava tanto un film dell’orrore, di quelli che con gli
amici guardavo il venerdì sera.
Invece no!
Tutto sembrava così reale, così vero ed io non
sapevo minimamente come uscirne.
Come puoi non saperlo?
Diceva
adesso pronto a farmi uscire fuori di testa.
Tu
sei qui, dentro il mio mondo, dentro ciò che è
mio.
Come puoi non sapere per quale motivo sei qui?
Che
il suo scopo fosse farmi impazzire?
Forse.
O forse ero già pazza e queste erano le conseguenze del mio
non essere più in me.
Cercavo di scappare, di fuggire… ma non riuscivo a trovare
una scappatoia che mi tirasse fuori da quest’assurdo universo.
Volevo che la voce scomparisse, che mi lasciasse in pace e invece
tornava a perseguitarmi, come se si divertisse a farmi del male.
<<
Lasciami in pace >>
Sussurravo
ormai sull’orlo dell’esasperazione.
Vedevo sfocato intorno a me.
Mille voci e falsi sorrisi si ostinavano a bombardare la mia mente,
come dei folletti dispettosi che si divertivano alle mie spalle. Ma lui
non era un folletto e tutto questo sembrava tutto tranne che un bel
gioco.
Sei
triste?
Sei disperata?
Diceva
adesso ghignando perfidamente.
<<
Chi sei? >>
Gridai
con le lacrime agli occhi.
<<
Perché mi fai questo? Perché? >>
Volevo
andarmene da li.
Volevo trovare quella maledetta via d’uscita che mi avrebbe
portato di nuovo alla realtà.
Non potevo continuare così per sempre.
Fare
cosa?
Io non sto facendo assolutamente nulla, tutto quello che vedi
è frutto della tua mente, sei tu a volerlo.
Diceva
sadicamente con quel sorriso stampato sul volto.
<<
No! >>
Urlai
a pieni polmoni.
Io non volevo tutto questo.
La mia mente non poteva creare tutto questo.
“Chi sei tu che ti beffi di me in maniera così
meschina e subdola”.
Pensavo ormai arrabbiata dalla sceneggiatura di quella farsa.
<<
Non sono io a volere tutto questo, io voglio solo andarmene.
Voglio tornare da mia madre, voglio rivedere mio fratello.
Ti prego lasciami andare >>.
Io
non sto facendo assolutamente nulla per trattenerti qui.
Sei tu a non avere la forza di andartene.
Piccola e ingenua ragazzina quale sei aspetti ancora che qualche buon
samaritano t’indichi la giusta strada per tornare a casa.
Sei sola adesso.
Sola con te stessa e con me.
Rispose
abbandonando il tono di scherno.
Adesso le sue parole suonavano tremendamente serie.
Tremendamente giuste, e assolutamente pesanti.
Avevo paura! E se non fossi riuscita a uscire mai più da
questo incubo?
Se questo inferno di oscurità mi tenesse per sempre
prigioniera insieme a questa pazza voce?
Spinta dal terrore di rimanere imprigionata dentro questo terrificante
gioco ricominciai la mia corsa.
Continuai impegnandomi più che potevo per trovare qualcosa o
qualcuno che mi dicesse: “Vieni è questo il posto
giusto per uscire da questo limbo”, mentre la voce mi seguiva.
Diceva che non ce l’avrei mai fatta, che nulla mi avrebbe
potuto salvare.
Allora gli assordanti rumori che ipnotizzavano il mio inconscio
cominciarono a farsi sentire più a fondo.
Di nuovo il ticchettio di un orologio, il gocciolare di qualcosa e quel
frastuono metallico di chissà quale macchinario che
continuava all’infinito a rimbombare freneticamente.
Dei singhiozzi tristi, disperati che laceravano la mia anima.
Chi soffriva così? Perché?
-Bambina
mia, non te ne andare.
Non mi lasciare-.
Ripeteva
incessantemente una voce che potevo riconoscere come quella di mia
madre.
<<
Mamma…mamma! >>
Chiamavo
senza fermarmi.
Perché non mi sentiva?
Perché non m’indicava la strada per raggiungerla?
Non
ti sentirà mai.
<<
Zitto! Stai zitto! >>
Ero
furiosa.
Io sarei riuscita a uscire da quell’incubo.
Lo stavo promettendo a me stessa in quel momento, a me stessa e a mia
madre anche se non avrebbe potuto sentirmi.
Sarei riuscita a raggiungerla, anche se questa fosse stata
l’ultima azione della mia vita.
Imposi a me stessa di non dare ascolto a quella maledetta voce.
Camminai, inoltrandomi laddove non mi ero mai spinta.
Continuai dritta per la mia strada, percorrendo, senza mai fermarmi,
quel sentiero.
Ogni rumore si faceva più lontano, non distinguevo
più quel fastidioso ticchettio né il gocciolare
imperterrito, solo i singhiozzi erano rimasti, ovattati dalla
lontananza quasi tangibile.
Quel luogo non poteva essere infinito.
Tutto aveva una fine, e come se i miei pensieri si tramutassero in cose
reali, cominciai a scorgere qualcosa all’orizzonte
Andai.
Andai più veloce che potevo verso quel qualcosa.
Più mi avvicinavo, più le mie speranze si
rafforzavano e più la voce diventava insistente. Diceva di
non andare avanti, di fermarmi.
Ma io non la ascoltavo.
Ero deciso ad andare fino in fondo.
Ferma
ragazzina. Ferma!
Ripeteva
costantemente la voce.
No!
Non mi sarei fermata.
Non avrei arrestato la mia corsa perché una stupida voce
all’interno della mia testa m’imponeva di farlo.
-Piccola
mia, ti scongiuro, fermati.
Quella
voce bloccò il mio cammino.
Mio padre.
Era morto due anni prima.
<<
Papà dove sei? Cosa ci fai qui? >>
Le
lacrime cominciarono a scendere quando il suo volto si fece largo
davanti ai miei occhi.
Non rispose.
La sua voce assieme a quella della voce senza volto continuava a
ripetermi incessantemente di fermarmi.
-Non
farlo! Non venire qua, non è il tuo posto, non è
il tuo momento-.
Diceva
mio padre disperato.
Fermati!
Gridava
la voce fuori di se.
Io volevo solo tornare a casa.
Le loro voci si mischiarono, le loro sagome si confusero insieme
creando i lineamenti di un individuo sfocato che m’implorava
di tornare indietro.
Tutto cominciò a girare vorticosamente i colori si
mescolarono formando strane tinte.
Il caos regnava sovrano in quel momento finché tutto non
tornò indietro come il riavvolgimento di un nastro.
Quello strano universo si riavvolse e tutto scomparve, tutto si fece
bianco e i discorsi di chimi stava a fianco divennero più
chiari da percepire, fino a che i miei occhi non si aprirono.
Un urlo di pura gioia si diffuse.
Era mia madre
<<
Bambina mia ti sei svegliata… >>
Distesa
sul letto e impossibilitata a muovermi non capivo cosa fosse successo.
Mi guardai intorno e riconobbi ogni rumore.
Il fastidiosissimo ticchettio delle lancette dell’orologio da
parete che segnava le 18:23.
Il gocciolare sempre uguale della flebo attaccata al mio braccio.
I singhiozzi di mia madre seduta al mio fianco e i suoni emessi da un
monitor che segnavano i lenti battiti del mio cuore.
Voltai il viso verso mia madre.
<<
Che cosa è successo? >>
Domandai,
senza capire per quale motivo mi trovassi in ospedale.
<<
Hai avuto un incidente. Sei stata in come per una settimana.
Ho avuto tanta paura di perderti tesoro mio…
>>.
Disse
scoppiando a piangere.
Ero stata in coma e avevo visto mio padre assieme a miliardi di altre
figure indefinite.
Avevo visto mio padre che m’implorava di non andare da lui.
“Non è il tuo momento” erano state le
sue ultime parole.
Lui era morto ed io stavo per raggiungerlo.
Buongiorno, dunque questa storia è un viaggio un po' strano e ambiguo dentro la mente di una ragazza in stato di come.
Ovviamente non so cos accade realmente, né sono informata sull'argomento, ma dalle poche notizie dello stato di premorte di cui ho sentito parlare e dai vari racconti, questo scenario potrebbe anche essere plausibile.
Spero che la shot vi piaccia e riesca, anche solo minimamente, coinvolgervi e farvi sentire quello che ho cercato di esprimervi, le emozioni che questa ragazza provava.
Buona lettura, a presto.
Se volete, potete trovarmi all'account facebook "Pois Nicole Spurce" e al gruppo facebook "Radio flit", che gestisco assieme all'autrice e amica Mary_Sophia_Spurce.
Baci Cinzia.