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Autore: zagabria    05/05/2011    1 recensioni
La caccia, da sempre, è stata oggetto di varie opinioni controverse: molti affermavano che fosse un passatempo crudele, altri uno sport, per altri ancora era una necessità. Ed è in quest’ultimo caso che Ettelen si trovava, con un arco in mano ed il dardo pronto a fendere l’aria in caso di avvistamenti di selvaggina. Si muoveva agilmente tra le impenetrabili fronde degli alberi ed arbusti che raggiungevano l’altezza della sua vita. Nonostante indossasse un semplicissimo paio di calzoni marroni ed una casacca verde non aveva affatto un aspetto trasandato, tutt’altro. Era abbastanza attento per quanto riguardava il suo aspetto e la sua figura si ergeva in tutto il suo metro e novantotto con grande fierezza e fascino.
Genere: Fantasy, Generale, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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 La Collana del Fauno

 

 

 

 

 

La caccia, da sempre, è stata oggetto di varie opinioni controverse: molti affermavano che fosse un passatempo crudele, altri uno sport, per altri ancora era una necessità. Ed è in quest’ultimo caso che Ettelen si trovava, con un arco in mano ed il dardo pronto a fendere l’aria in caso di avvistamenti di selvaggina. Si muoveva agilmente tra le impenetrabili fronde degli alberi ed arbusti che raggiungevano l’altezza della sua vita. Nonostante indossasse un semplicissimo paio di calzoni marroni ed una casacca verde non aveva affatto un aspetto trasandato, tutt’altro. Era abbastanza attento per quanto riguardava il suo aspetto e la sua figura si ergeva in tutto il suo metro e novantotto con grande fierezza e fascino. Indossava spesso in inverno una fascia di stoffa nera, che gli cingeva il collo poderoso, con il pomo d’Adamo molto evidente, in modo particolare, che ne risaltava il viso dai lineamenti non eccessivamente pronunciati, il mento e le guance ricoperte da un sottile velo di barba molto curata che circondava le labbra morbide e carnose. Gli occhi avevano un taglio comune, niente di così ricercato, ma erano di un castano scurissimo, come i capelli lunghi e le folte sopracciglia del resto, profondi; denotavano un carattere riflessivo, che agisce solo dopo aver pensato e valutato attentamente ogni possibilità; l’armonia del suo corpo rispecchiava quell’equilibrio interiore difficile da raggiungere. Nel suo atteggiamento probabilmente era possibile notare un minimo di cinismo, da non confondere però con l’apatia. Era un tipo divertente, molte volte allegro, ma era strano. O così lo definivano le persone che avevano avuto l’occasione di passare del tempo con lui. Non si faceva mai prendere dalla situazione, in alcun caso, rimaneva fermo ed impassibile, indifferente. Dal suo viso non trapelava un’emozione, niente di niente, in nessuna circostanza.

Prestava molta attenzione nel non far rumore calpestando le foglie secche che erano cadute dai rami più alti, marrone come la terra sotto i suoi piedi. Da settimane essa aveva perso la fertilità ed Ettelen non era l’unico a dover ricorrere alla caccia per sopravvivere, anche se, spesso, gli animali scarseggiavano e doveva accontentarsi di qualche uovo trovato in un nido o delle bacche superstiti a quella strana carestia che aveva colpito la regione. Nessuno sapeva spiegarsi il perché la natura si rifiutasse di fornire il cibo all’uomo come aveva sempre fatto e molti si accusavano l’un l’altro di azioni malvagie che avrebbero potuto scatenare l’ira della terra. In certi villaggi arrivavano anche ad uccidersi in violente liti e la tensione era altissima. Proprio per questo il ragazzo si era allontanato dal suo, di borgo, non potendo più tollerare gli sguardi inquisitori che scopriva fissi sulla sua persona mentre vagava per le strade affollate come nelle piccole taverne. Non tornava nella sua austera dimora da poche settimane e si accorse, durante questa seppur breve permanenza, di non sentire affatto la mancanza dei concittadini, né tantomeno della sua casa e abitudini. Si era letteralmente stancato di trascorrere una vita all’insegna della monotonia ed era andato alla ricerca del nuovo, dell’ignoto. Per quanto riguarda argomenti più superficiali, anche se era oggettivamente un bel ragazzo, non aveva ancora trovato la donna adatta a lui. Quelle poche esperienze che aveva avuto come “dimostrazione” l’avevano convinto che le donne fossero tutte uguali e vanitose, il cui unico pensiero fosse apparire abbastanza belle da imprigionare tra le loro grinfie un uomo ricco e possibilmente avvenente. Odiava quel genere di persona, le aborriva e questo l’aveva portato ad avere un certo pregiudizio e ad essere schivo nei loro confronti.

Alcuni raggi sottili illuminavano la radura nella quale era giunto, formando un piccolo arcobaleno riflettendosi nell’acqua gorgogliante del fiumiciattolo che abbeverava la selva e che, scorrendo, dava all’aria una certa soavità e originava un motivetto che aleggiava tra i tronchi. Stanco per le ore passate con andamento sostenuto, Ettelen decise di fermarsi presso le sponde di questo, per rinfrescarsi e riposarsi. Si accovacciò dunque a pochi centimetri dall’acqua e, immergendovi le mani, tirò su, verso il viso, il prezioso e trasparente liquido, bevendone una parte mentre l’altra sfuggiva alle sue mani vigorose per bagnare il volto e le vesti, non recandogli fastidio. Nel frattempo aveva rilassato i sensi e poggiato a terra il suo arco resistente e flessibile, un dono prezioso che gli aveva lasciato il padre nel momento dell’ultimo saluto, ricongiungendosi così alla donna che aveva amato per tutta la vita, sua madre, che non aveva mai avuto l’occasione di conoscere. Anche in quella circostanza egli era rimasto impassibile; questo non significava che dentro di sé non provasse del turbamento, ma aveva una concezione della morte tutta sua. Per lui era la liberazione dal dolore, la fine della sofferenza dell’uomo ed il ritorno alla pace, negata all’umanità da una potente creatura malvagia impossibile da combattere: il Fato; quindi era inutile preoccuparsi e darsi da fare nella vita quando, sempre secondo il suo parere, si sarebbe arrivato comunque a qualcosa di ampiamente migliore.

Stava fermo e silenzioso, rannicchiato accanto al rivo, immerso nei suoi pensieri quando, alla sua sinistra, alcune foglie lontane scricchiolarono, segnale di un qualche essere vivente in avvicinamento. Ettelen scattò in piedi, l’arco già teso e la freccia puntata nella direzione dei movimenti, i nervi a fior di pelle. Il rumore si faceva sempre più vicino e forte ed i secondi trascorrevano inesorabili. Quale creatura poteva non temere la presenza umana? Temette fosse un animale molto grosso ed affamato ma la sua curiosità lo trattenne dal fuggire velocemente. Il cespuglio a lui più prossimo ebbe uno scossone e con esso anche il ragazzo, che con un balzo si era allontanato di qualche passo. L’animale che gli si presentò davanti, però, deluse le sue aspettative: un piccolo coniglio nero, con una macchia beige sul dorso e sulle orecchie lunghe, piegate verso l’esterno. Ettelen lo guardò e per alcuni attimi anche il coniglio fermò i suoi occhi in quelli del giovane. Entrambi indugiarono immobili, in attesa di una qualche reazione da parte dell’altro ma l’animaletto fuggì quando il ragazzo scoppiò in una fragorosa risata, afflosciandosi sul terriccio umido e, portandosi una mano alla fronte, scompigliò i capelli che gli si erano appiccicati poiché bagnata dall’acqua e dal sudore. Si sdraiò, incurante delle macchie che si erano venute a formare sugli abiti, ed osservò il cielo di un intenso azzurro, rischiarato ancora per poco dal sole, in procinto di nascondersi oltre le colline ad ovest. Resosi conto di non avere più molto tempo, con movimenti veloci si alzò e, raccolte le sue cose, si avviò senza fretta verso sud, guidato dalla grande e brillante stella alla sua destra e dalla dolce tramontana che, soffiando lieve, faceva ondeggiare le fronde verdi e non. Il panorama era sempre lo stesso da quando era giunto in quei luoghi e stava iniziando a tediarlo ma non rinunciò a quella posizione strategica scoperta casualmente nel suo vagabondare. Il bosco aveva suscitato in lui strane sensazioni alle quali non voleva separarsi, si era affezionato ad esso e avrebbe voluto imparare a conoscerlo nella sua interezza prima di lasciarselo alle spalle. Si era stabilito accanto ad un rilievo poco elevato di macigni grigi sul quale si arrampicava di quando in quando, anche se questo non gli permetteva di vedere i confini della boscaglia poiché nettamente più alta e soprattutto fitta. Accese agilmente il fuoco e, non essendo riuscito a procurarsi del cibo, si limitò a fissare le lingue rossastre che si ergevano nell’aria piacevolmente fredda del crepuscolo, provvedendogli un adeguato tepore se si fosse trovato alla giusta distanza da esso. Le fiamme danzavano sul ceppo diventato ormai brace, le cui polveri venivano sparse tutt’intorno, ed inducevano Ettelen in uno stato di trance, di completa rilassatezza nel mezzo dei suoi pensieri più nascosti. Non soffriva di solitudine, ma certe volte sentiva la mancanza di qualcosa che non c’era in quel momento e che probabilmente, se fosse rimasto in quella foresta, non ci sarebbe stato neanche in futuro. Per alleggerire l’atmosfera iniziò a canticchiare una filastrocca che aveva sentito in paese: una canzoncina per bambini che parlava di animali, con un ritmo di quelli che si dimenticano con difficoltà e che continuano ad agitarsi nella mente per tutto il resto della giornata. Fu così che alcune ore dopo si abbandonò a un sonno vigile, la schiena poggiata alla sporgenza di sassi prima descritta.

La luna era alta nel cielo e, con le compagne stelle, vegliava sul cammino degli uomini ed illuminava il lavoro del destino che, con le sue lunghe e sottili dita, intrecciava per diletto le storie di individui diversi e lontani. Ma si sa, il tempo scorreva inarrestabile e presto la notte diede spazio al giorno lucente e senza nuvole. Ad est sorse il grande astro che, sin dalle esperienze ancestrali, aveva regolato l’esistenza umana determinando la periodicità delle stagioni e dei raccolti, mitigando l’aria e facendo maturare il grano.

Ettelen si risvegliò quando il sole era ormai a metà del suo cammino, pensando al sogno appena terminato. Ricordava solo che fosse strano, nient’altro. Unendo i palmi delle mani distese la colonna vertebrale che rumoreggiò dopo una notte trascorsa nella scomodità più assoluta. Dopo l’esperienza del coniglio del giorno prima volle portarsi anche le due daghe che usava per difendersi, temendo la presenza di animali più grossi e pericolosi. Le daghe erano lucide e ben curate, i manici ornati da un motivo singolare di spirali e linee intrecciate su se stesse, protette da due fodere unite ad una spessa cintura in pelle, molto resistente. Legata la cinta alla vita, sistemò le spade, una sul fianco destro, l’altra sul sinistro, in modo che queste fossero a portata di mano per qualsiasi evenienza, la mente troppo impegnata a disporre le lame per accorgersi di un rumore di foglie e rami, comunque coperto dalle braci che, spegnendosi, ancora scoppiettavano.

 

Correva una corsa sfrenata, come se ne andasse della sua stessa vita, anche se per alcuni tratti impedita dalla lunga veste che s’impigliava nei rami bassi e spinosi che le graffiavano le gambe dalla pelle chiara e delicata e le strappavano il mantello nero che ondeggiava freneticamente a causa dei suoi movimenti veloci ma maldestri. Il fiato corto ed ansimante, le guance, nascoste come tutto il viso dal cappuccio di tale mantello, colorate di un intenso rosso per la fatica ma non poteva fermarsi o voltarsi indietro. L’avrebbero presa. L’avrebbero catturata. Non avrebbero avuto pietà nei suoi confronti. Nonostante non udisse voci dietro di sé già da una mezz’ora non si sentiva ancora al sicuro ed era certa di non essere sola. L’indecisione la colse: doveva voltarsi per controllare che alcuno la seguisse o continuare ancora ad affrettarsi? Sentendo come le sue gambe stessero per cedere, bocciò quest’ultima proposta e, accertandosi che non ci fossero alberi a intralciare il suo cammino, rallentò il passo, girò la testa e scrutò attentamente alle sue spalle, nessuno. Si era sbagliata, non c’era anima viva che la seguisse, che fosse lì con lei, anche se il più delle volte le sue sensazioni erano esatte. Non ebbe neanche il tempo di completare tale pensiero che andò a finire contro qualcosa di non troppo duro, ma che si lamentò di dolore.

Questo qualcosa era un ragazzo.

- Ma cosa...? – balbettò egli prima di ritrovarsi a terra, il viso a pochi passi da una roccia aguzza.

La ragazza non disse nulla, era troppo stanca e sorpresa per articolare una frase di senso compiuto, quindi preferì rimanere in silenzio al momento. Resasi comunque conto di essere ancora sdraiata sul giovane, il viso poggiato sul suo petto che si muoveva ritmicamente ad ogni respiro, scivolò alla sua sinistra, sedendosi a gambe incrociate e sistemando il cappuccio in modo da non far intravedere il volto. Quando si spostò anche Ettelen poté sollevarsi fino ad essere all’altezza di quella ed assumendo la sua stessa posa si ravvivò i capelli, portandoli lontani dal volto.

- Chi sei? – le domandò curioso, ed ancora non ricevette risposta; poté sentire solo un sussurro alcuni secondi dopo aver posto quel quesito.

- Scusa... –

Ed Ettelen osservò la figura, che sembrava un fagotto nero, accovacciata a terra che scrutava continuamente intorno a sé, inquieta. – E di cosa? – chiese con una cortesia forzata.

- Per esservi caduta addosso. – chiarì, ed il ragazzo annuì pensieroso.

- Capita quando si fugge da qualcosa. – la stuzzicò.

- Io non sto fuggendo da nessuno. – rispose lei, pungente.

- Non era mica rivolto a te. Ti senti per caso colpita dalla mia affermazione? –

- E voi perché mi date del tu? Non vi conosco, o sbaglio? – nel suo tono di voce c’era un pizzico d’ironia che irritò il ragazzo.

- Non saprei, non vedo neanche il tuo viso. – ribatté, marcando molto le ultime parole.

Lei sospirò infastidita e incrociò le braccia circondate anch’esse dal mantello nero, le cui maniche erano notevolmente grandi e larghe per lei e formavano delle pieghe evidenti all’altezza dei polsi. Allora lui, vedendo la situazione, si rizzò in piedi e tese la mano alla ragazza per fungere da aiuto per alzarsi. – Non è conveniente che tu rimanga seduta a terra, ha piovuto recentemente. – le consigliò. Da sotto quell’ingombrante mantello sembrò non avesse avuto alcuna reazione a quelle parole, ma raccolse tra le mani le vesti che le erano d’intralcio e, da sola, si sollevò, lasciando che Ettelen stringesse aria quando chiuse le dita in un pugno.

- Dimmi almeno come ti chiami. – le chiese allargando le braccia in modo da farle intendere che la sua pazienza avesse un certo limite.

La ragazza ci pensò su, indecisa. – Il mio nome è Fanie, il vostro...?–

- Fanie... – ripeté. – Particolare, non l’avevo mai sentito. –

- Non avete risposto alla mia domanda. – gli ricordò.

- Ettelen, piacere di conoscervi. – le disse, chinandosi leggermente in avanti, il braccio destro posato sul pomolo della spada sul lato opposto. – Dammi pure del tu. –

Fanie annuì sotto il mantello che ancora non decideva a togliere. Tra di loro scese il silenzio, forse causato dalle troppe domande che vagavano nella mente di entrambi. Lui cercava un modo per comprendere le intenzioni di quella, la quale non sapeva né cosa fare né tantomeno cosa dire. Fu Ettelen a rompere quella pesante atmosfera. – Stavo andando a caccia, vieni con me? – le chiese aspettandosi una risposta negativa.

- D’accordo. – rispose invece quella.

- Ma... – riprese lui. - ... Con un abbigliamento del genere faresti fuggire tutti gli animali. – non aveva tutti i torti, e Fanie se ne rese conto. Erano troppo ingombranti e avrebbero fatto troppo rumore. Allora sospirò ed iniziò a  slegare i lacci che tenevano fermo il mantello. Quando se lo sfilò, Ettelen rimase affascinato dalla figura che era stata nascosta fino ad ora. Una ragazza non troppo alta e ben proporzionata, il viso dai lineamenti dolci era circondato da una folta e lunghissima chioma bianca, candida come la neve, ed un paio di occhi rossi simili al sangue che risaltavano sulla pelle pallida. Era un’albina. L’abbigliamento era semplice: una veste blu notte dalla lunga gonna e le maniche che andavano a svasare in prossimità dei polsi. Al collo una sottile collanina il cui ciondolo era una pietra viola, molto brillante alla luce del sole.

Ettelen rimase a fissarla per un po’, con un’espressione disorientata in volto, finché Fanie non avanzò in sua direzione con passo lento e leggero e gli sussurrò divertita. – Andiamo? – proseguendo davanti ad egli, che rimase indietro di qualche passo prima di correre per raggiungerla e mettersi al suo fianco.

Lei teneva le mani unite dietro la schiena e socchiudeva gli occhi quando venivano colpiti da un raggio di sole troppo intenso mentre era intenta ad osservare le piccole nuvolette che galleggiavano sopra le loro teste; lui invece, arco e freccia in mano, osservava il terriccio in cerca di una traccia lasciata dalla preda che tanto cercava. Il silenzio tra loro non durò molto, spezzato da lui che le rivolse una domanda.

- Quindi, da chi... – saltò una radice molto grande di un albero altrettanto imponente - ...stavi scappando? –

Prima di rispondere anch’ella passò sopra la radice, sulla quale stava per inciampare. – Non stavo scappando, te l’ho già detto. – il suo tono di voce era tranquillo ma, nonostante Ettelen fosse certo che stesse mentendo, non insisté su quell’argomento capendo che quello non fosse il momento giusto. Le domandò allora tutt’altra cosa. – Anche nel tuo villaggio c’è mancanza di cibo? –

Fanie trasalì e si voltò nella direzione opposta al viso di quello. – Purtroppo sì...- si interruppe - Ma voi uomini non pensate ad altro?! – chiese con una certa impulsività.

- Sbaglio o per vivere ci serviamo di quello? – le rispose lui, ostinato.

- Sopravvivere, non vivere. – sottolineò quella.

- Non c’è differenza. –

- Certo che sì! – ribatté. – Se sono la stessa cosa, perché usiamo due termini diversi? –

Ettelen non controbatté ma, facendo uno strano gesto con la mano, le disse di tacere; Fanie però si indispettì e si ripromise di fargli pagare amaramente quella poca cortesia nei suoi confronti, prima o poi.

Il ragazzo dunque si accovacciò dietro un cespuglio e Fanie lo imitò: attraverso l’arbusto videro il fiumiciattolo dove il giorno prima il ragazzo si era imbattuto nel coniglio. Ora presso questo corso d’acqua si abbeverava un cervo il cui palco di corna non era parecchio sviluppato, segno che fosse ancora molto giovane. Il corpo snello era ricoperto da una pelliccia che andava dal marrone scuro del dorso al bianco del ventre; le zampe sottili e flessuose immerse nel limpido fiume. Ciò che successe fu una cosa fulminea ed inattesa da parte di Fanie. Ettelen scoccò la prima ed unica freccia che, colpendo l’animale alla base del collo, lo fece accasciare a terra con un lamento. Il suo sangue tinse di un tenue rosso quelle che furono acque pure. Quando la ragazza si rese conto di quello che era accaduto non riuscì a non urlare e non coprirsi gli occhi con le mani; lui si voltò verso ella e preoccupato le domandò:

- Che ti prende? –

E lei gli urlò – Sei un mostro! –

- Ma sei stupida?! – gli diede un pugno sul braccio.

- L’hai ucciso! –

- E quindi..? – era sconvolto dalla sua reazione – Era solo un animale. – Al ché Fanie abbandonò il nascondiglio con una smorfia di disgusto e se ne andò nella stessa direzione dalla quale i due erano venuti. Ettelen la guardò allontanarsi ed inciampare ad ogni passo, sospirò e si avvicinò al corpo senza vita della bestia. Non poteva lasciarlo lì dopo la fatica fatta per trovarlo quindi, dopo aver attraversato il fiume dal fondale basso, bagnando i pantaloni fino alle ginocchia, tolse la freccia conficcata nelle carni, lo caricò sulla schiena e si avviò anch’egli per la strada percorsa prima dalla ragazza, seguendo le orme da lei lasciate. La trovò seduta su uno spuntone di roccia accanto ai resti del braciere, le braccia incrociate sotto al seno e l’espressione imbronciata. Dalla veste blu, i cui orli erano strappati, facevano capolino i piccoli piedi protetti da delle scarpette in tessuto dello stesso colore dell’abito. Dopo aver lasciato il corpo dell’animale non si avvicinò a Fanie, ma in silenzio iniziò ad accendere il fuoco dato che le tenebre stavano per scendere. Lei lo osservò con la coda dell’occhio, senza voltarsi né farsi scoprire; le sue spalle erano larghe e vigorose, i capelli scuri, tenuti sciolti, di tanto in tanto si spostavano sul viso, ma lui con un gesto veloce della mano li rimetteva al loro posto. Lo vide esultare quando una fiammella illuminò l’ambiente ed il suo volto, cui risaltavano, in contrasto con la luce delle lingue di fuoco, i lineamenti marcati del mento e del naso. In un attimo si girò verso di lei per condividere il suo entusiasmo e per pochi secondi i loro sguardi si incontrarono, gli occhi sanguigni immersi in quelli scuri del ragazzo. Erano nettamente differenti ma si trovavano entrambi nello stesso luogo, così vicini da potersi incrociare. Ettelen comprese venissero da due mondi lontani ma condotti lì per un buon motivo. Le sorrise e le fece l’occhiolino, mentre Fanie reagì arrossendo e voltandosi di nuovo verso il buio del bosco.

- Vieni qui al caldo? – la invitò con molta cortesia.

- Non ho freddo. – rispose secca.

- Sei ancora arrabbiata per quello stupido animale? – la figura della ragazza si irrigidì più di quanto lo fosse stato prima ma non reagì, nonostante avesse una voglia matta di picchiarlo a sangue e cucinare lui al posto del cervo.

 

Era suo dovere insegnargli la lezione.

La notte scese ed Ettelen non si sentiva più solo in quella grande foresta. La ragazza, nonostante fosse lontana da lui, vagava nei suoi pensieri, impedendogli di avere un sonno senza sogni, uguale a quelli precedenti. Fanie invece non dormiva ma, sdraiata sul proprio mantello nero, ascoltava il respiro regolare del giovane. Silenziosamente si alzò e si avvicinò ad egli, si inginocchiò al suo fianco e chiuse gli occhi. Le labbra rosee erano mosse in un sussurro incomprensibile e le mani lontane tra loro, ma con i palmi rivolti uno verso l’altro. Da queste prese vita una sfera inconsistente, molto simile ad una biglia di vetro, nella quale volteggiavano lievi delle spire nere che sembravano assorbire quella poca luce nell’aria. Dischiuse gli occhi e, osservandola, sorrise; allora l’avvicinò alla fronte del ragazzo, gli scostò i capelli e la sua pelle fece propria quell’oscurità.

 

Per la terza volta in poche ore Ettelen ammirò la radura in cui si trovava, il sole splendeva raggiante e il fiumiciattolo gorgogliava senza sosta. Nell’aria c’era qualcosa di magico e la tranquillità regnava sovrana. il giovane si avvicinò alla fonte e si specchiò in essa, ma l’immagine che l’acqua gli restituì non fu quella che si aspettava: era un cervo. Era il cervo; quello ucciso ore prima.

  
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