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Autore: Ely79    05/05/2011    2 recensioni
Regulus Black, visto attraverso gli occhi di Rabastan Lestrange. Perché questo giovane odia tanto il secondo genito dei Black? Perché tanto isentimento nei suoi confronti?
Storia prima classificata al "Il mio miglior nemico/La mia miglior nemica contest" indetto da Maeve_ e Mizar19.
Genere: Dark, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Mangiamorte, Nuovo personaggio, Rabastan Lestrange, Regulus Black
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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- Questa storia fa parte della serie 'Rabastan Lestrange'
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IV
IV

pauraeonore

«Tra poco la tisana farà effetto e Regulus farà una bella dormita» annunciò Elanor, entrando nella nostra camera da letto.
Attesi che si infilasse nel letto, scoprendomi nudo sotto le lenzuola. Per lei era un segnale chiarissimo: ero furioso. Odiavo coricarmi con indosso qualcosa che mi si sarebbe arrotolato attorno nel giro di pochi minuti, facendomi saltare definitivamente i nervi.
Parlai solo quando la sentii raggomitolarsi contro la mia schiena. Il suo respiro calmo riusciva ad acquietare un poco l’ira che covavo da ore.
«Perché l’hai accudito?»
Si sollevò, cercando di spiare le mie reazioni da dietro la spalla.
«Perché è un ospite» rispose tranquilla.
Il mio silenzio valse quanto un discorso del Ministro.
«Mio buon signore, ho voluto essere una diligente padrona di casa. Sarebbe scortese maltrattare un visitatore in quelle condizioni. E soprattutto, non vorrei mai incorrere nelle ire di una madre» si giustificò, sporgendosi.
Rimbrottai che si trattava di timori infondati. Non si poteva temere tanto quella donna, tutta strilli e vesti gonfie. Poteva far spavento a guardarla, di certo non poteva nuocere a chi era fedele al Maestro. Walburga Black era solamente un’isterica troppo piena di sé.
«Cerca di capirla. Regulus è il solo figlio che le rimane: riversa su di lui tutte le sue attenzioni e le sue speranze. Non biasimo i tuoi compagni, se hanno deciso di non rimandarlo a casa. Quella povera donna sarebbe morta di spavento».
Pur non avendo figli, riconobbi il tono materno della sua voce. Ma, alle mie orecchie, parlava una lingua sconosciuta.
Continuai a rimanere in silenzio. Perché quel ragazzino aveva il diritto di essere sostenuto e compatito? Perché c’era sempre qualcuno pronto ad allungare una mano per sorreggerlo ad ogni passo? Perché riusciva a guadagnare la stima di chiunque con un solo, insignificante gesto? A me non era stato concesso tanto. Mai. Avevo imparato a farmi valere con le mani, prima ancora che con la bacchetta. Lottavo giornalmente per raggiungere i miei traguardi e pagavo i miei errori. Perché non doveva essere così per lui?
«Non essere ostinato, Rabastan» disse Elanor, passandomi le dita fra i capelli.
«Già, di fare il libero pensatore se ne occupa Black» sbuffai.
Con la coda dell’occhio la vidi scuotere il capo, rassegnata e divertita. Io non vedevo nulla di spiritoso in tutta quella storia.
«Si è gettato nella mischia senza misurare le proprie forze. È debole, spaventato. Non è come te. Tu sei potente, indomito, senza paura. Potresti fargli da mentore, guidarlo. Renderlo migliore» propose.
«Non ci penso nemmeno» rimbrottai seccato.
«Faresti bella figura con Milord» mi bisbigliò all’orecchio, catturando la mia attenzione. «Pensaci: tu che istruisci a dovere Regulus, rendendolo un degno Mangiamorte, portandone in luce le potenzialità. Sai quanto Lui abbia in considerazione il ragazzo. Aiutarlo potrebbe spingere il Maestro a mantenere prima del tempo la sua parola» suggerì.
Mi volsi un poco, fissandola interrogativamente. Lord Voldemort non aveva mai saldato in anticipo un suo debito, per quanto ne sapessi. Tuttavia, dovevo ammettere che l’interesse che mostrava per quello scapestrato frignate era da non sottovalutare. Forse Elanor aveva ragione: per quanto trovassi ripugnante l’idea di divenire il tutore di Black, poteva essere un punto a nostro favore.
«Come ti vengono certe pensate?» domandai perplesso.
A volte sfoderava una perfidia ed un’arguzia inimmaginabile. Il suo aspetto fragile era una maschera migliore di quella da Mangiamorte.
«Voglio che Milord mantenga la promessa e mi guarisca» rispose decisa. «Voglio essere forte. Voglio smettere di vivere dietro a continue difese per timore che uno spiffero mi costringa a letto per settimane. E se posso aiutarti ad accelerare i tempi, lo farò con ogni mezzo. Per quanto non ne abbia molti da impiegare» ammise.
«È per questo che…»
Annuì. La parte dell’ospite affettuosa e comprensiva era stata solo una messinscena per entrare nelle grazie di quel marmocchio capriccioso. Ero orgoglioso della sua prontezza e della sottile abilità con cui aveva perseguito il suo fine. Anche se ciò mi metteva di fronte all’insensatezza delle mie reazioni.
«Questo però non significa che tu debba ignorare tuo marito» la rimproverai.
«Non ti ho ignorato, mio buon signore. Ho semplicemente rimandato ogni cosa a quando saremmo rimasti soli. Come ora» disse timidamente, accarezzandomi il torace.
Anche se eravamo sposati da tre anni, arrossiva ancora quando alludeva ai segreti del talamo.
«Mi lusinga sapere che sei geloso di me» mi stuzzicò.
Non poteva immaginare quanto la costatazione corrispondesse al vero e mi facesse infuriare. Sì, ero geloso. Geloso delle tenerezze immeritate di cui quel ragazzino aveva goduto al posto mio. Bisognoso o meno, si era appropriato senza il mio consenso di qualcosa che non gli spettava e che avrei riavuto. Subito.
«Nessuno deve toccarti oltre a me» ringhiai, sfilandole senza tanti complimenti la camicia da notte.
«Nessuno» sorrise, lasciando che cancellassi ogni traccia dell’abbraccio di Black con uno sguardo affamato.
La biancheria finì sul pavimento, miracolosamente integra. La figura diafana di Elanor catturò la luce della luna che entrava dalle finestre. La natura non le aveva concesso un fisico prorompente, bensì un corpo snello e sottile, gentile nelle forme. Quella visione mi fece impazzire di desiderio.
«Le tue mani sono mie» dissi, portandole al volto e coprendole di baci.
«Solo tue» confermò, muovendo le dita perché potessi ripulirla di ogni traccia dell’intruso.
«Queste braccia sono mie».
«Solo tue» ripeté dolcemente, sussultando man mano che salivo verso il suo volto.
Sentiva il calore dei nostri corpi che si avvicinavano, la mia forza che la investiva come un’onda.
«Questa bocca è mia» dichiarai, vicinissimo alle sue labbra dischiuse.
«Sì» ansimò tra un bacio e l’altro.
La misi a cavalcioni delle mie gambe. Guidai i suoi fianchi verso i miei, fingendomi irritato dalla falsa ritrosia con cui cercava di sottrarsi alle mie attenzioni. Rideva stringendosi le braccia al petto, agitandosi e tentando d’evitare il contatto. Si mostrava timida per farmi piacere. Sapeva quanto amassi quelle scaramucce amorose.
«Il tuo cuore… dimmi a chi appartiene» ripresi, posando le labbra sul suo seno.
«A te» replicò, inarcandosi per consentirmi di tracciare arcani arabeschi sul suo petto.
Chiusa fra le mie braccia, si sentiva protetta e senza via di fuga. Diceva spesso che i miei abbracci erano come le mura di una fortezza priva di porte: inespugnabili da ogni lato.
«La tua anima… di chi è, strega?» chiesi, stringendola con tanta forza da levarle il fiato.
Inspiravo l’aroma dolce della sua pelle accaldata, mescolato alle ultime note del profumo che aveva spruzzato sui vestiti e sui capelli.
«Tua, amore mio. Tua» ripeté, estasiata dal gioco.
Il suo cuore batteva rapido.
«Il tuo corpo» indagai, facendo scivolare una mano lungo la sua schiena e poi in basso, più giù. «Il tuo corpo, dimmi di chi è!»
«Tuo. È tuo, Rabastan» mormorò, tremando nel sentire il mio tocco che si faceva più insistente, fino ad oltrepassare il morbido confine del suo corpo.
Le diedi tregua per pochi attimi, il tempo di assaporare sulle dita quanto mi desiderasse.
La feci stendere, coprendola col mio corpo.
«Tu sei mia. Solo mia. Per sempre» decretai.
Elanor sorrise, sussurrando un assenso carico di passione.
Mia, mia, mia. Solamente mia. Era l’unica cosa a cui riuscivo a pensare mentre la prendevo.
Avrei dovuto sapere mi sarei pentito della foga con cui la stavo amando. Ogni spinta, ogni morso, ogni stretta, avrebbe lasciato una traccia sul fragile corpo di mia moglie; lividi scuri che avrebbero impiegato giorni per scomparire. Una manciata di minuti d’intimità e piacere, di calore, di felicità coniugale, imbrattati dalla mia frustrazione. Avrei dovuto fermarmi.
Un gemito, più acuto e sofferente degli altri, mi risvegliò. Scorsi le sue labbra tese, gli occhi serrati con forza. Mi immobilizzai, sollevato sui gomiti. Non si era sottratta ai doveri coniugali, nonostante sapesse che potevo diventare violento quando ero arrabbiato. Aveva sopportato finché era stata in grado, solo per consentirmi di sfogare la mia gelosia, di sottolineare il mio possesso su di lei. Un gesto inutile. Inutile ed sciocco. Che bisogno avevo di rassicurazioni? Lei amava me.
«Elanor» chiamai sottovoce, colpevole.
Lei aprì gli occhi. Sorrise, ancora dolorante.
«Sto bene, mio buon signore. Non è nulla» ma una minuscola lacrima la tradì.
Buon signore un accidente. Mi sentii un verme. Amava una belva furiosa, che non aveva alcuna giustificazione per ciò che le stava facendo. Licantropi e Giganti erano creature immonde e senz’anima, animali su due gambe incapaci di reprimere la loro natura. Ed io, pur non essendo parte di quell’immonda genia, mi ero abbassato al loro livello, confondendo un ignobile istinto con un diritto sacrosanto.
Poggiai la fronte sulla sua, incapace di chiedere perdono.
«Non importa, Rabastan. Non importa» disse, prendendo il mio volto tra le mani.
Sapeva che non avrei mai ammesso ciò che provavo in quel momento, la mia vergogna per aver concesso ad un impulso mostruoso di sopraffarmi.
«Dimmi che sei almeno un po’ mio. Un poco mi basta. Voglio solo che tu non appartenga per intero alla tenebra» sussurrò, trattenendo un singhiozzo.
«Non appartengo a lei. Appartengo a te sola».
   
 
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