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Autore: Main_Rouge    06/05/2011    5 recensioni
1° classificata al contest Flowers for life di Ss904.
una fiction vagamente malinconica con tema la musica e l'amore, in una suggestiva ambientazione londinese...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tutto era fermo in quel verde prato.
L’aria tersa inondava una distesa erbosa come non ce ne erano altre a Londra; un oasi di pace, un paradiso, per i più romantici osservatori.
Solo qualche roccia solitaria spezzava l’immacolato campo smeraldo, dando agli occhi un debole appiglio per dividere il vero dal surreale, dall’eterno, dall’indistinto.
Un silenzioso uomo si muoveva lento, ma deciso, nel mezzo di quel campo.
Occhi stanchi, pelle chiara. Capelli, verdi come il prato, di un colore tanto appariscente e finto da non poter non strappare un sorriso, di scherno come di riflessione. Tanto, a lui non importava. Jeans neri, strappati in qualche punto, una maglia stretta, un sottile gilet di pelle, anch’essa nero. Le braccia, scoperte, lasciavano scorgere sinuosi tatuaggi, le sue “ferite di guerra” e i lividi procuratosi in balli un po’ troppo movimentati. Qualche semplice piercing brillava a lato del suo naso.
Era talmente vero, talmente spregiudicato da  doverlo ammirare, o temere. Il genere di uomo che il cittadino medio avrebbe paura di incontrare in un vicolo.
Ma tanto, a lui non importava.
Dopo molto lento camminare, l’uomo si fermò, guardò l’erba sotto i suoi piedi e si stese. Chiuse gli occhi con un sospiro dopo aver appoggiato ad un sasso la chitarra blu notte che aveva trascinato con una mano fino ad allora.
Pace.
Ma una dolce voce di donna lo richiamo dal mondo in cui stava per entrare.
-Josh, che fai là disteso?-.
Una voce fresca, trillante. Ma al contempo armonica, rassicurante, calda. Josh non aprì gli occhi, non ne aveva bisogno: sapeva bene che lei lo stava fissando, seduta accanto alla sua amata Flying V.
-Aspetto che faccia sera-
-Già, ho saputo che parti. Sai già per dove?-
-America. Lì ancora non sanno chi io sia, quindi devo andare ad accertarmi che nessuno lo scopra-.
Fuggiva, lo sapeva. Ma non sarebbe stato in grado di ammetterlo neanche a sé stesso, figurarsi a lei.
-Ho sentito dire che è un bel posto. E con chi vai? Trey? Mel?-
-No. Loro suonano ancora. Sono io che ho perso il tocco ormai. Non vedo perché trascinarli a picco con me a questo punto-.
Di nuovo silenzio.
Una leggera brezza si alzò dal nulla, mentre lui, d’un tratto, decise che il suo tempo lì era già scaduto. Si fece violenza per alzarsi: non poteva certo partire conciato in quel modo. E comunque stare lì, con lei, gli faceva troppo male.
Iniziò, a passi decisi, ad avviarsi verso casa sua, uno dei tanti tristi appartamenti londinesi, ma fu fermato.
-Te ne vai così, senza una parola?-
-Si. Sono venuto solo perché non volevo partire senza salutarti un’ultima volta, Marie.-
-E come sapevi che ero qui?-
-Spero di non dover davvero rispondere-
-È davvero un bel posto, non trovi?-.
Per qualche secondo, Josh non proferì parola. Poi, fattosi coraggio, chiese, con tono di sfida: -Come puoi fare finta di niente? E con che coraggio mi chiedi di conversare amabilmente, come vecchi amici, come se- e le parole gli si ruppero in gola. Non voleva dire ciò che stava per dire, ma era, in fondo, proprio quello che pensava; un’idea egoista, una convinzione ridicola. Ma non poteva farci niente.
-Come se non ti avessi abbandonato? E questo che cerchi di dire?-.
Lui non rispose, ma riprese a camminare, accelerando il passo.
-Almeno raccontami cosa è successo da allora. Non voglio che queste siano le ultime parole che ci saremo scambiati-.
Fermarsi? Raccontare? La sua paura di soffrire non glielo avrebbe mai permesso. Rivivere nella mente quei mesi infernali sarebbe stato troppo. La sua debolezza aveva ormai preso il controllo del suo corpo stanco. Continuò a muoversi, oppresso da quel pesante macigno che porta il nome di rimpianto.
Ma, come anche il più piccolo seme, piantato nel giusto terreno, può dar vita ad un maestoso albero, così quelle parole fecero nascere nella sua testa i ricordi di un periodo che cercava di dimenticare. Era poco più di un barlume, una fievole luce che, sebbene soffocata dalle sue ansie, tentava strenuamente di resistere e mostrare almeno qualche brandello di memoria.

Nel Moonlight, uno dei più famosi locali di musica soft di Londra, una cinquantina scarsa di persone conversava, mangiava, beveva accompagnata dalla soave sinfonia dei migliori artisti inglesi che questo stile aveva da offrire. Di tutti, però, la vera attrazione era Josh Soldier: cantautore, rocker melodico. Insieme alla sua fida acustica, incantava le serate del Moon, immergendo chi avesse la fortuna di far giungere la sua arte alle proprie orecchie nella più completa trance. Quando lui si esibiva, nessuno aveva il coraggio di interromperlo, o disturbarlo. La sua poesia era il punto più alto che questo tipo di musica potesse raggiungere. Ma farsi conoscere per la pace negli anni del punk, nel periodo d’oro dei Sex Pistols per intenderci, era pressoché impossibile. Quindi, nessuno allora si sarebbe stupito di incontrare chi non lo conoscesse. Era come il miglior giocoliere di Parigi vissuto negli anni della “Presta della Bastiglia”. Semplicemente, nessuno se ne era curato.
Ma in realtà, a Josh non importava. Lui non cercava la fama, né i soldi. Cercava ciò che ogni giovane artista agogna, e spesso non trova mai: la felicità di vivere di sé stessi e dei proprio ideali, senza dover scendere a compromessi.
Lui però, in effetti, la felicità era convinto di averla già trovata.
E così, quando quella ora così vicina sera di Marzo lui iniziò ad intonare le sue canzoni per il pubblico in attesa, la sua felicità lo stava aspettando, impaziente.
Dietro il sipario che divideva il palco dal retroscena, un’alta ragazza con i capelli color dell’ebano ondeggiava lenta al ritmo della musica del suo innamorato.
Aveva un largo vestito colorato, dal motivo floreale, un paio di occhiali discreti, delle scarpe semplici. Tutto di lei emanava purezza, surreale perfezione.
All’ultimo morbido tocco delle dita bianche di Josh sulle corde, uno scrosciante applauso pervase il Moonlight Bar, mentre Marie, ancora una volta, aspettava che il suo uomo venisse a prenderla per tornare a casa.
Quando Josh uscì, con gli applausi che, in sottofondo, ancora echeggiavano nel locale, i due si diedero un bacio di routine, ma non per questo meno intenso o sentito di quando si erano conosciuti.
Con i suoi lunghi capelli castani, che cadevano con un leggero accenno di movimento, il suo naso aquilino e i suoi occhi verdi, Josh era senza dubbio quanto di meglio quella parte di Londra poteva mettere in mostra.
Nella sua tenuta impeccabile, composta da un sobrio maglione a quadri e pantaloni scuri, poteva passeggiare a testa alta per le strade della città.
In pochi minuti si ritrovarono a casa. Una casa un po’ spoglia, ma accogliente. Un semplice appartamentino, in cui i due innamorati vivevano insieme da ormai due anni, da quando cioè lei si era trasferita lì.
Per tutta la sera, dopo una cena leggera, discussero del più e del meno. E per tutta la sera, lui non riuscì a distogliere lo sguardo dal motivo floreale dell’abito della sua bella. Il sinuoso gioco di colori, di ricami e pizzi che si ripetevano in una perfetta armonia lo rapiva e infastidiva un po’. Era quasi geloso di tanta bellezza; una perfezione geometrica che le sue canzoni non avrebbero mai avuto.
-Perché fissi il mio vestito?- chiese ad un certo punto lei, notando che era distratto.
-Senza alcun motivo. È solo… bellissimo- rispose con un filo di voce lui.
-Grazie. Ti piacciono questi fiori?- domandò lei indicandone alcuni, di vario colore, tutti caratterizzati da cinque grossi petali tondeggianti e da un pistillo rigonfio, che andavano a creare una cintura floreale intorno alla vita di Marie.
Lui li esaminò per qualche secondo, poi annuì senza dire una parola. E lei capì.
-Si chiama “Ibisco”, è un fiore davvero meraviglioso. E profondo. Simboleggia la mortalità di tutte le cose, della bellezza così come della pace, della quiete, della gioia. È forse il fiore che, dentro di sé, porta più messaggi, più riflessioni. È una cosa che ho sempre amato nei fiori, come sappiano nascondere con pochi colori pastosi i sentimenti e le paure più nascoste di noi uomini-.
A quel punto lei soffocò una risatina divertita e aggiunse: -Ma tanto tu non mi stai neanche ascoltando-
-Non è affatto vero- sbuffò lui, offeso per gioco –in pratica, mi stai dicendo che questo ibisco… siamo noi. Io, tu, come tutto ciò che abbiamo intorno: siamo destinati ad invecchiare ed a spegnerci. Non è molto incoraggiante come messaggio però- disse scherzando.
-I fiori sono sempre sinceri, anche troppo. Ma proprio per questo tutti li amano. E poi -aggiunse lei prendendo in mano la chitarra del suo amato abbandonata sul pavimento vicino al divano su cui discutevano -non tutto è mortale-.
Un leggero colpo alle esili corde, una lunga ed armoniosa vibrazione.
La sua arte sarebbe sfuggita al tempo crudele, non sarebbe mai invecchiata, né morta; al limite messa da parte. Josh non riuscì a negarsi un sorriso un po’ amaro nel comprendere ciò che lei gli stava suggerendo.
Con delicatezza, le prese lo strumento, se lo passò tra le mani calme, come per studiarlo. Quindi suono qualche leggera nota, e subito si interruppe. Era vero. Se la musica era la sua dea, Marie era il suo ibisco. Non altrettanto assoluta, né perfetta forse, né duratura. Ma senz’altro più caro, sentito, compatito nella sua fragilità. Il fiore che l’avrebbe accompagnato, appassendo con lui, fino all’ultimo secondo di vita.

Josh si svegliò, dopo una notte lunga mesi, di pessimo umore.
Un vago sentore di nausea, un forte mal di testa. L’impressione, pesante, di una mancanza, dell’assenza di qualcosa di necessario. Qualcosa che dovrebbe essere e non è.
Guardò, ancora steso, al suo fianco. L’ampio letto era vuoto, appena scombinato da una notte agitata dall’alcol.
Aveva bevuto, e molto. Il classico, stupido, tentativo di scordare qualcosa avvelenando la mente e stordendosi fino al sonno.
Non voleva pensare, non voleva sapere. Non voleva neanche prendere in mano la sua chitarra, e sapeva che non l’avrebbe fatto per molto tempo.
Piombò di colpo in un oscuro vortice di silenziosa routine, di cui ha solo immagini confuse.

Solo qualche mese dopo, spinto da amici preoccupati, Josh riprese in mano la sua acustica.
Derek, il proprietario del Moonlight, aveva organizzato una grande serata per festeggiare il suo ritorno sul palco.
E così, quella sera di Luglio inoltrato, Josh salì in platea per tornare a stupire, a commuovere, a far struggere di passione i suoi fedeli fan. Festoni, addobbi, una folla troppo numerosa per poter essere davvero contenuta nel modesto Moonlight. Eppure era lì. Solo vedendoli, sentendo il loro primo, caldo applauso di incoraggiamento, che sembrava voler dire “Noi ti aspetteremo sempre”, riuscì a far vibrare di nuovo le corde del suo strumento, il suo mezzo di ascensione all’olimpo degli artisti. Ma qualcosa era diverso dal solito. Seppure fossero le stesse note, infatti, le dolci canzoni del cantautore avevano qualcosa di diverso. La sua voce, come quella della sua chitarra, era piena non più di ingenua, ma incorruttibile, speranza: un accenno di rassegnazione, una nota di tensione, un lento, disperato sottofondo blues. Di melodico, non c’era più nulla.
Una musica leggera, ma sporcata dal cupo mormorio di un’anima affranta. La sua voce, ogni suo gesto, ogni suo sguardo strideva con ciò che stava facendo. Ad un tratto senza dire niente, Josh fermò la mano. Le sue dita tremavano; era solo un accenno, ma tanto evidente da spaventarlo; per questo, lasciata la chitarra a terra, si scuso con voce gracchiante, orribile. E si ritirò.
Tutti avevano sentito nella sua musica la disperazione, lo sconforto. Uno solo, un grassoccio agente di una qualche casa discografica, aveva anche sentito la sua rabbia.

E così, dopo molte incertezze e crisi, dopo aver ingurgitato abbastanza alcol da mettere a tacere il suo amor proprio, il nuovo Josh, molti mesi dopo, salì su un palco diverso dal solito.
Un largo spiazzo ligneo, infiammato da luci al neon. A terra, qualche bottiglia frantumata, un paio di chiazze di liquido scuro; di fronte, una massa informe di esaltati amanti della musica, della loro musica. Josh, con la sua nuova Flying V, venne al cospetto dei punk del Phantom Snake, la peggiore bettola di Londra, trampolino di lancio dei più grandi artisti del genere, per crearsi una nuova vita, e magari riuscire, visto che non poteva dimenticare, a vivere di ciò che gli restava di Marie: il ricordo di quando stavano ancora insieme.
Con lui vi erano due vecchi amici, da sempre amanti del rock avvelenato dei punk. Prima di iniziare a suonare, guardò l’uomo che, con un sorriso porcino, brindava al suo successo. Lo stesso che, poche settimane prima, aveva deciso di arricchirsi con la sua sofferenza. Ma tanto, non gli importava. Spostato da davanti agli occhi un ciuffo smeraldo con un colpo secco della testa, Josh diede inizio allo spettacolo.
Ma non ci volle molto a capire che quella non era la sua musica, la sua arte, la sua dea. E così, dopo qualche fallimentare esibizione al Phantom, risultò fin troppo evidente la sua ora scomoda natura di cantautore, sebbene mascherata da accordi audaci e invettive feroci. Odiato dai suoi vecchi fan, che si sentivano traditi dal suo cambio di stile, odiato dal suo nuovo pubblico, offeso per quell’insulto alla loro passione, Josh non ebbe alternative che mollare tutto. E dopo aver passato molto tempo nel suo piccolo appartamento a compiangersi ed a rimuginare, aveva deciso che il suo tempo lì era scaduto da un pezzo.

Per un frammento di secondo, nella mente di Josh vorticarono gli sbiaditi ricordi di quel periodo infernale. Aveva perso sé stesso, oltre che la sua felicità, e questo non avrebbe mai potuto sopportarlo.
Si piantò di colpo mentre, in quel prato verde, la sua memoria completò la sua punizione, impartita forse dallo stesso Dio che lo aveva rovinato. O forse no, non gli importava.
Gli importava solo di dov’era, di cosa stava facendo.
Di cosa non avrebbe dovuto fare ed ha fatto.
Si girò lentamente, ma Marie non c’era più. Al suo posto, c’era solo una fredda lapide cinerea, con incise poche toccanti parole. Ah, se solo non si fosse ubriacato con i suoi amici, se solo non l’avesse chiamata per farsi venire a prendere. Se solo quel dannato autobus…
Sospirò stanco. Fuggiva proprio per questo, per provare a smettere di pensare, di piangere, di maledirsi ogni minuto di ogni giorno.
Ma proprio in quel momento, fissando quella lapide, in mezzo a quel cimitero verde come i suoi capelli, lo sguardo di Josh si posò sulla sua Flying V, abbandonata sulla fredda roccia.
E ripensando al nome che aveva sentito di doverle dare, intuì l’ironia della sua triste sorte: proprio dopo aver affermato il contrario, la sua musica era appassita, rovinando anche solo il ricordo della sua primitiva perfezione, mentre la sua Marie era divenuta, morendo così giovane e pura, perfetta per l’eternità. Nulla, neanche il tempo, avrebbe scalfito il suo ricordo.
Un triste sorriso increspò le sue labbra secche mentre, senza ripensamenti, Josh si avviò verso l’uscita del cimitero di Saint Rose, nel cuore di Londra.
E intanto, la sua Ibisco splendeva baciata dal caldo sole di Agosto.
  
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