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Autore: dardeile    09/05/2011    0 recensioni
Voldemort fa evadere i suoi Mangiamorte. Ma guarire non è facile, quando hai vissuto l'orrore.
Two-parter.
In corsivo, i ricordi di Narcissa. [Prima Classificata al concorso "The Same Blood"]
Genere: Dark, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Bellatrix Lestrange, Narcissa Malfoy
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno | Contesto: II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
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Narcissa Malfoy sedeva alla destra di suo marito, quella sera; fuori la neve batteva forte sui

vetri delle alte finestre, mentre il vento scuoteva le chiome degli alberi, implacabile. L’inverno

imperversava in tutta la Gran Bretagna, uno dei peggiori degli ultimi dieci anni. Le temperature

si rifiutavano di risalire al di sopra dello zero, e la neve non faceva in tempo a sciogliersi che una

nuova, fitta coltre ricopriva il terreno bagnato.

 

Fra le mura di Villa Malfoy gli elfi domestici lavoravano sodo per tenere l’inverno al di fuori della

grande magione. I caminetti erano accesi tutto il giorno, tutti i giorni, e tenuti sotto controllo nel

caso qualche fiamma si affievolisse. La casa era una fortezza che offriva ai suoi abitanti un riparo

dal rigido gelo che infestava il paese. E se mai un caminetto si fosse spento, l’elfo responsabile

sapeva che sarebbe stato il nuovo ornamento del “muro delle teste”.

 

Anche quella sera nella grande, lussuosa sala da pranzo della villa il fuoco ardeva nel caminetto

in marmo, gettando un sinistro bagliore rossastro sullo specchio che lo sovrastava, e collaborava a

far luce nella stanza, i cui soffitti erano troppo alti per essere perfettamente illuminati dal pesante

lampadario che pendeva basso sulla tavola.

 

Lucius Malfoy poggiò le posate sui bordi del piatto e si pulì gli angoli della bocca, e rivolse un

sorriso soddisfatto alla moglie, che rispose educatamente con un cenno della testa. Una piccola

elfa domestica trotterellò nella stanza e fece un profondo inchino, schiarendosi la gola per attirare

l’attenzione dei suoi padroni. Entrambi si voltarono nella sua direzione e Narcissa, con voce altera,

ordinò all’elfa di portare via i piatti.

 

Con uno schiocco delle piccole dita dell’elfa i piatti si smaterializzarono, rimpiazzati da due piccoli

bicchieri colmi di un liquido ambrato; l’elfa indietreggiò lentamente e, con un profondo inchino

reverenziale, uscì dalla stanza.

 

Lucius bevve dal suo bicchiere, svuotandolo del suo contenuto con un grande sorso. Narcissa seguì

il movimento del pomo d’Adamo del marito, e poi posò lo sguardo sul suo bicchiere, perdendosi nei

suoi pensieri.

 

“A cosa pensi?” le chiese Lucius, poggiando il bicchiere sul tavolo.

 

Narcissa alzo lo sguardo velocemente e si stampò un sorriso sul volto, il più velocemente

possibile. “Nulla d’importante. Non credo di volerlo,” aggiunse, spingendo il calice verso suo

marito ed invitandolo a bere al suo posto con un cenno della mano.

 

Lucius la scrutò, cercando di leggerle dentro, ma dopo un primo tentativo decise che forse era

solo uno di quei giorni in cui Narcissa era lontana da lui, presa dai suoi pensieri e dalle sue

preoccupazioni.

 

“Ancora la profezia?” le chiese, chinandosi verso il bracciolo della sedia e piegando leggermente la

testa.

 

Narcissa abbassò lo sguardo e strinse le labbra. “Ti ho detto che non è niente,” ripeté la donna,

appoggiandosi allo schienale. “Non insistere.”

 

Lucius scosse la testa e Narcissa lo detestò per quanto riusciva a capirla. Sì, era di nuovo la profezia

che la preoccupava. Non tanto la cosa in sé, ma il fatto che Lucius fosse stato messo a capo della

squadra che avrebbe dovuto entrare nel ministero, ingannare Potter, costringerlo a prendere la

profezia e consegnarla. Il Signore Oscuro aveva affidato il compito a Lucius ed altri due uomini,

entrambi folli e senza scrupoli, Mangiamorte invasati e così incredibilmente devoti da prendere per

oro colato tutto quello che usciva da quella bocca sottile e serpentesca.

 

Lucius era diverso, lei lo sapeva. Lucius aveva ragioni dietro la sua affiliazione al circolo mortifero;

aveva motivi che andavano al di là dell’adorazione per quell’individuo che tutti cercavano di

soddisfare. Lucius cercava di ristabilire la purezza del sangue, cercava di agire per ridare ai maghi

ciò che era stato negato loro: la libertà di essere maghi senza costrizioni, o Statuti magici che

controllassero ogni loro mossa.

 

Narcissa aveva però l’impressione che quella che era cominciata come una missione sacrosanta si

fosse trasformata in un massacro senza pilastri, lo sfogo di un gruppo di repressi sanguinari che in

questo modo giustificavano le loro scorribande. Il suo Lucius non era così, e odiava che per volere

del Signore Oscuro si dovesse mischiare a quegli squilibrati.

 

A preoccuparla ancora di più era il fatto che fossero solo tre, ad entrare al Ministero. Era sicuro?

Non sarebbe stato meglio mandare un manipolo più numeroso, pronto a fronteggiare eventuali

imprevisti? E se gli Auror fossero stati di guardia, come già era successo? E se questa volta non

fossero stati così fortunati da trovare una sola persona, a guardia della profezia, ma l’intero dannato

Ordine della Fenice? Suo marito era dotato, ma quali possibilità avrebbe avuto contro venti Auror

altamente specializzati? Venti contro tre: una missione suicida.

 

“Scusami Lucius, ma continuo a non capire,” esordì Narcissa, fondamentalmente incapace di tenere

il suo disappunto per sé. “Perché tu? Perché proprio tu? Non hai pensato neanche per un secondo

che forse manda te semplicemente perché sei l’unico rimasto? L’unico che è stato abbastanza furbo

da rimanere fuori da Azkaban?”

 

Ma non appena le parole le furono uscite dalla bocce, le rimpianse. Sapeva di aver sbagliato, e

vide il suo errore dipinto sul viso di suo marito, che le schioccò un’occhiataccia, alzandosi così

bruscamente da far cadere la sedia con l’interno delle ginocchia.

 

“Davvero pensi questo? Pensi che sia tanto incapace da non meritare di essere messo a capo di

qualcosa di così importante? Pensi che se tuo cognato fosse stato qua, sarebbe stato al mio posto?”

esclamò, alzando la voce. Narcissa sussultò alla menzione del cognato, ben conscia di quanto suo

marito avesse sofferto di essere infinitamente meno importante di Rodolphus Lestrange agli occhi

di Lord Voldemort. “Dimmi Narcissa, è davvero questo che pensi di tuo marito?”

 

Narcissa continuò a fissarlo, immobile, altera nella sua sedia, le mani elegantemente poggiate sul

proprio grembo, distinta e nobile nell’anima quanto nel sangue. Con un sorriso gelido, si alzò anche

lei, molto più delicatamente, e fece per voltarsi nella direzione opposta, indicando la volontà di

lasciare la stanza, ma Lucius le afferrò il polso e la costrinse a guardarlo ancora negli occhi.

 

“Lasciami immediatamente,” sussurrò Narcissa, e la sua voce non tradì un briciolo di emozione se

non il disgusto per l’esplosione fuori luogo ed esagerata del marito. “Non mi interessa l’importanza

che credi questa missione ti dia all’interno del tuo piccolo club, ma qui rimani lo stesso uomo di

sempre. Nulla cambierà, Lucius. Nulla cambierà mai.”

 

Lucius ritrasse la mano, come scottato, e Narcissa si avviò verso la porta, con passi lunghi e decisi,

la faccia contorta dalla rabbia, con gli occhi sgranati e la bocca che tremava per l’affronto. Spinse

con forza la pesante porta e uscì dalla stanza, sbattendola dietro di sé. Se Lucius voleva illudersi

di essere entrato nelle grazie del Signore Oscuro, lei non sarebbe stata lì ad assecondarlo. Perché

proprio lei, Narcissa, sapeva che solo una persona poteva vantare di tale titolo, e non era certo suo

marito, e nemmeno Rodolphus.

 

Sentì un brivido percorrerle la spina dorsale ed uno spiffero la colse di sorpresa. Qualcuno aveva

lasciato una porta, o una finestra, aperta? Da dove proveniva quella brezza? Perché il fuoco non

scaldava più il grande atrio? Perché all’improvviso faceva così freddo?

 

Girò su se stessa, cercando di individuare la fonte dello spiffero, ma tutte le finestre del gigantesco

atrio erano sigillate come da ordini. Il fuoco nel caminetto, più grande di quello della sala da

pranzo, tremò leggermente e come se una volata di vento si fosse abbattuta su di esso, la fiamma si

spense completamente, lasciando la stanza nel buio più totale.

 

Lei capì immediatamente cosa stava succedendo e abbassò il capo, pronta a ricevere la visita che

quei segni annunciavano. E infatti, dopo soli pochi secondi, nella stanza si Materializzò un’ombra

che Narcissa conosceva perfettamente. Nel buio era impossibile distinguerne bene i tratti, ma il

pallore malato della carnagione dell’uomo sembrò risplendere in piena unione con la neve che si

intravedeva alle sue spalle, oltre i vetri.

 

“Mio Signore,” sussurrò Narcissa, abbassando nuovamente lo sguardo in un atteggiamento

referenziale. “Lucius è nella stanza accanto.”

 

“Non cercavo Lucius,” rispose la voce acuta e gelida di Lord Voldemort. “Cercavo te, Narcissa. Ho

qualcosa da affidarti. Qualcosa di molto importante.”

 

Narcissa osò levare lo sguardo e vide Voldemort che la fissava, intensamente, come se cercasse di

carpire la sua disponibilità dalla scintilla nei suoi occhi. Cosa strana in sé, perché Lord Voldemort

non chiedeva mai la disponibilità di qualcuno; egli ordinava, esigeva, pretendeva.

 

Quindi Narcissa annuì. “Certo, Mio Signore.”

 

Voldemort abbasso lo sguardo e Narcissa notò per la prima volta che qualcosa era sul pavimento,

parzialmente coperto dalla sua vista dalla larga veste nera di Voldemort. Quando si fu accorto che

Narcissa aveva individuato il motivo della sua venuta, Voldemort fece un passo di lato e spostò il mantello drammaticamente, rivelando quello che all’ombra sembrava un ammasso informe di

stracci sporchi.

 

Narcissa non capiva cosa fosse tanto importante per un uomo tanto potente. Cos’era? Cosa

nascondeva, quella pila di pezze? Si avvicinò e notò che si muoveva. Respirava. Qualcosa, là

sotto, era vivo e cominciava a dare segni di agitazione. Come se avvertisse il disagio di Narcissa,

Voldemort puntò la temibile bacchetta di fenice verso il caminetto, dove la stessa fiamma che poco

prima era morta tornò ad ardere.

 

Narcissa portò entrambe le mani alla bocca e trasalì, quando vide le gambe e le braccia magrissime

spuntare da sotto quella veste così sporca, e la massa di capelli neri, indomabili che nascondeva il

volto di ciò che il signore Oscuro aveva portato in casa sua.

 

Non aveva bisogno di vederne il volto, avrebbe riconosciuto quella sagoma dappertutto, nonostante

la magrezza eccessiva ed i segni della prigionia.

 

“Bella!” Narcissa esclamò, quasi strillando, gettandosi ai piedi di Voldemort, ma non in uno di quei

gesti adoranti che aveva visto fare a tanti Mangiamorte in passato, e spesso proprio dalla stessa

Bellatrix che ora giaceva in stato di semi-incoscienza sul pavimento bianco. Quel movimento

inconsulto fu una reazione incontrollabile alla vista della sorella, nulla aveva a che fare con l’uomo

che ora assisteva alla scena, impassibile. “Bella,” ripeté Narcissa, afferrando il corpo dalle spalle e

spostandola come una bambola di pezza finché il viso non fu alla luce del camino.

 

Forse un estraneo, chiunque avesse visto Bellatrix Black una volta nel passato, non l’avrebbe

riconosciuta: gli occhi erano chiusi, cerchiati dalle profonde occhiaie scure e da i segni della

mancanza di sonno (e pace), mentre la bocca era socchiusa, con quelle labbra secche e troppo

pallide che mostravano i denti ingialliti dalla tortura che era stata Azkaban.

 

Ma Narcissa non era un’estranea, e nonostante le condizioni di devastazione in cui Bellatrix aveva

vissuto negli ultimi quattordici anni avessero senz’altro segnato la donna, lei l’avrebbe riconosciuta

dappertutto. “Bella,” Narcissa sussurrò di nuovo, avvicinando il viso a quello della sorella e

sentendo il respiro affaticato e le parole strascicate ma incomprensibili che le uscivano dalla bocca.

 

“Narcissa,” Voldemort la chiamò, e lei si voltò senza lasciare andare il corpo della sorella.

Guardò in alto verso l’uomo che le aveva causato tanto dolore, a lei e a tutta la sua famiglia, tanta

disperazione; eppure non riuscì a non provare un moto di gratitudine inspiegabile e improvviso per

averle ridato la sorella che Narcissa credeva di aver perso per sempre.

 

“Come ha fatto ad evadere?” Narcissa chiese, non riuscendo più a trattenere il singhiozzo che la

scuoteva mentre sentiva il corpo freddo della sorella fra le mani, incredibilmente grata di sentirne il

tremore e il respiro.

 

Era qualcosa di incredibile: come se il suo stesso sangue ne avesse avvertito la presenza, sentiva il

suo cuore che pompava più forte, come se la presenza della sorella avesse risvegliato ogni fibra nel

suo corpo in modo così naturale ed involontario che si chiese per un secondo se il sangue fosse in

grado di avvertire la presenza di altro sangue della stessa matrice.

 

“Questo non importa,” Voldemort disse, ed era chiaro che non ammetteva repliche. “Quello che

conta è che ora sono liberi. Tutti.”

 

“Tutti?” Narcissa chiese, la voce tremante. “Liberi?”

 

“I miei Mangiamorte,” Voldemort spiegò. “Ognuno è al sicuro, e questo è il posto più sicuro per lei.

Contavo sul fatto che l’avresti aiutata. Lo farai?”

 

“Ma certo, mio Signore, certo che la aiuterò,” Narcissa disse, tornando a guardare la sorella,

tenendole la testa leggermente sollevata, appoggiata sulle sue gambe. “È mia sorella…” aggiunse,

in poco più di un sussurro.

 

“Rimettila in sesto,” Voldemort disse, autoritario. “Nutrila, lavala, falla riposare. Fa in modo

che domani, quando io e gli altri Mangiamorte torneremo per la riunione, sia la Bellatrix di

sempre. È un ordine, Narcissa. Io ti ho ridato tua sorella…” Narcissa chiuse gli occhi, ascoltando

Voldemort. “… ma tu restituiscimi la mia guerriera.”

 

Sentì un movimento improvviso e veloce alle sue spalle e seppe che il Signore oscuro si era

Smaterializzato. Narcissa non distolse gli occhi dal viso di sua sorella nemmeno per un attimo;

tenendola stretta a sè, allungò una mano sulla guancia di Bellatrix per scostare i capelli e sorrise.

 

“Bella,” chiamò, come cullandola. “Bella.” Ancora e ancora, finché finalmente Bellatrix aprì gli

occhi, giusto due fessure per vedere chi la chiamava, chi la teneva, a chi appartenevano le mani che

le scaldavano dopo i quattordici anni di freddo ad Azkaban.

 

Narcissa, che aveva provato a trattenere le lacrime, si arrese e sorrise alla sorella quando quegli

occhi scuri si posarono sul suo viso. Tra le lacrime, riuscì ad annuire e sussurrarle parole. Le disse

che era al sicuro, che era a casa, che finalmente era libera e che non l’avrebbe lasciata andare.

 

Le labbra di Bellatrix si mossero, impercettibilmente, e Narcissa dovette avvicinarsi ancora di più

per riuscire ad afferrare cosa la sorella stesse cercando di dire.

 

“È tornato,” stava dicendo, con l’unico briciolo di forza che i Dissennatori non erano riusciti a

strapparle. “È tornato a prendermi.”

 

Prima che Narcissa potesse pronunciare qualsiasi risposta, una porta nelle vicinanze si aprì

violentemente. Alzò lo sguardo in tempo per vedere Lucius che usciva dalla sala da pranzo e

camminava, a testa bassa, verso la grande scalinata che portava alle camere da letto.”Lucius,”

mormorò, e lui si voltò nella sua direzione.

 

Narcissa teneva la sorella fra le braccia, sul pavimento, le sorreggeva la testa, le accarezzava i

capelli e le strofinava la pelle delle braccia, cercando di riscaldarla. Lucius rimase impietrito,

immobile davanti a quella scena. Aprì la bocca un paio di volte, senza riuscire a proferir parola,

richiudendola subito dopo.

 

“Narcissa, ma quella…” cominciò, e Narcissa annuì, sorridendo fra le ultime lacrime. “Come…

Quando…”

 

“Il Signore Oscuro l’ha portata qui, Lucius,” Narcissa esclamò. “Lei e tutti gli altri, sono tutti fuori

da Azkaban, Lucius! Li ha liberati tutti!” Tornò a guardare la sorella in modo amorevole. “Sono

tutti liberi.”

 

“Tutti?” C’era qualcosa di strano nella voce di Lucius, panico misto a incertezza. Narcissa tornò

a guardarlo, comprendendo la fonte delle sue preoccupazioni: se finora aveva potuto sperare di

guadagnare un posto privilegiato tra i Mangiamorte, con Rodolphus, Barty Jr e Bellatrix di nuovo

a piede libero non aveva speranza. Di fatto, la presenza della cognata nella sua magione significava

solo una cosa, per Lucius Malfoy: il fallimento.

 

“Aiutami a portarla di sopra,” Narcissa gli ordinò. “Portiamola nella stanza degli ospiti. Dormirà

per quanto ha bisogno, e quando si sveglierà mi prenderò cura di lei.”

 

“Ma Narcissa, hai idea di quanto sia pericoloso? A quest’ora ci saranno Auror sguinzagliati per il

paese! È una ricercata, e il primo posto in cui verranno a cercarla è questo!” Lucius non lo disse

ad alta voce, ma sperava che la trovassero. Sperava che in quel preciso istante uno squadrone di

Auror del Ministero gli piombasse in casa e la riportasse ad Azkaban, dove la sua essenza non

rappresentava una minaccia.

 

“Se verranno lo sapremo, Macnair ci avvertirà!” Narcissa spiegò, cercando di alzarsi sorreggendo

la sorella. “La nasconderemo in cantina, insieme a tutte le altre cose che sei bravissimo a tener

nascoste alle autorità. Ora vieni, aiutami!”

 

Lucius sospirò e si avvicinò alla moglie; senza tante cerimonie prese Bellatrix dalle sue braccia e la

issò sulle sue, come tante volte aveva fatto con Draco quando si addormentava davanti al caminetto.

Guardò la donna fra le sue braccia e si chiese quanto fosse patetico sentirsi minacciato da una donna

più morta che viva.

 

“Portiamola su, avanti,” Narcissa disse, avviandosi verso le scale. Lucius la seguì, su per l’immensa

scalinata, mantenendo lo sguardo fisso sul viso incavato di Bellatrix. Lì, mentre teneva la cognata

fra le braccia, ricordò l’ultima volta che si erano visti.

 

Avevano sentito il bussare frenetico alla grande porta d’ingresso e tutti i presenti si erano

immobilizzati: Lucius, Narcissa, Rodolphus, Rabastan, Barty Jr, Rockwood e Bellatrix. Aspettavano

tutti notizie dal padrone, notizie sulla missione più importante da quando erano stati marchiati.

Una missione che non era stata affidata a loro, una missione che il loro Signore avrebbe dovuto

compiere da solo, quella notte del 31 Ottobre.

 

Lucius e Bellatrix furono i primi a balzare in piedi e corsero attraverso la grande sala da pranzo,

fuori nell’atrio, fino alla porta, come due bambini che corrono ad abbracciare il padre che

torna a casa dopo una giornata di lavoro. Aprirono la porta, entrambi con gli occhi sbarrati

dall’emozione, dalla felicità, pronti a ricevere la notizia della vittoria del loro padrone.

 

Ma fu Dolohov che entrò correndo, senza fiato, urtando entrambi, col terrore negli occhi. La

porta rimase aperta, mentre pian piano gli altri Mangiamorte, e Narcissa, si unirono a loro.

Tutti guardavano Dolohov, che si accasciava sul pavimento lentamente, a gattoni, e respirava

freneticamente, con gli occhi assenti.

 

“I Potter sono morti,” sussurrò.

 

Grida di giubilo si alzarono dai presenti, persino Lucius e Bellatrix si guardarono e si sorrisero

in preda all’euforia dell’ennesima schiacciante vittoria. Narcissa osservava il marito e la

sorella dall’ombra della stanza. Non esultava: era l’unica ad aver percepito la stranezza nel

comportamento di Dolohov, l’unica ad aver capito che era successo qualcosa. L’espressione del

Mangiamorte non era una di esultanza, era una di terrore.

 

“Lucius,” gridò sopra le urla degli altri, e suo marito si girò per ascoltarla. Lei fece segno con la

testa verso l’uomo che era ancora per terra e non alzava lo sguardo; Dolohov tremava, dalla testa

ai piedi, e il respiro gli si faceva più veloce. Bellatrix si avvicinò e lo guardò dall’alto al basso, il

furore di prima rimpiazzato da un’espressione incerta, più cupa. Narcissa le si avvicinò, le stava

dietro e anche lei guardava verso Dolohov che continuava a contorcersi sul pavimento in preda a

un dolore invisibile, non fisico quanto psicologico.

 

“Dolohov,” Bellatrix mormorò. “Dolohov, cosa è successo? DOLOHOV!” gridò, piegandosi

sull’uomo e afferrandolo per i capelli, costringendolo a girarsi, a guardarla negli occhi. “DOV’E’

IL SIGNORE OSCURO, DOLOHOV!”

 

Ma l’uomo non parlava, riusciva solo a piagnucolare parole sconnesse che non avevano alcun

senso per nessuno dei presenti. Narcissa conosceva la sorella, sapeva che stava per perdere il

controllo, quindi si abbasso e le posò le mani sulle spalle. “Bella, calmati.”

 

“ZITTA!” le urlò Bellatrix, spingendola via e facendola cadere all’indietro. Lucius fece un passo

avanti, per aiutare la moglie, ma Narcissa fu più veloce e scosse la testa: non voleva essere aiutata,

ci era abituata… Dopotutto era sua sorella.

 

Fu dopo che Bellatrix lo scosse che il Mangiamorte ansimante riuscì a guardarla negli occhi,

guardarla davvero, e a sussurrare quelle parole che li avrebbero tormentati per il resto della loro

esistenza. “Il Signore Oscuro è morto.”

 

Ci fu un silenzio incerto, in cui nessuno osò fiatare. Bellatrix lo lasciò andare e si rialzò, e lo stesso

fece anche Narcissa, rimanendo al fianco della sorella. Sapeva cosa stava per succedere.

 

Bellatrix ridacchiò. “Sei uno stupido Dolohov,” disse. “Il Signore Oscuro non può morire! Sarà

senz’altro uno dei suoi trucchi per confondere il Ministero, e gettare panico e scompiglio.”

 

“No Bellatrix!” Dolohov gridò mentre Bellatrix si allontanava, quel ghigno di chi crede di sapere

tutto ancora stampato sul viso. Narcissa si guardò intorno: sua sorella era l’unica a essere

serenamente convinta della vittoria del suo padrone, mentre sui visi di tutti gli altri vi era tutto un

altro racconto. “Bellatrix, ascoltami!” continuava a gridare Dolohov. “Se non mi credi, guarda il

tuo Marchio, folle! GUARDALO!”

 

Bellatrix si voltò di scattò, furente. “Il mio Marchio è perfettamente normale!” gridò.

 

Narcissa spostò lo sguardo sugli altri Mangiamorte che, uno ad uno, si tiravano su la manica

sinistra della veste, e vide il poco colore rimasto nei loro visi sparire completamente. Erano tanti

fantasmi, i seguaci-fantasmi di un uomo sconfitto.

 

“GUARDALO!” ripeté Dolohov, alzando la sua manica e mostrandole il pallido ricordo di quello

che era stato il Marchio Nero, una volta di un nero vivido, ora ridotto a poco più di un ricordo

sbiadito.

 

Gli occhi di Bellatrix si posarono su ciò che restava del Marchio dell’uomo e il ghigno scomparve.

Narcissa la guardava attentamente, e vide qualcosa negli occhi della sorella, un lampo, una

scintilla, il segno inequivocabile di qualcosa che si rompeva: la speranza, la fede, la certezza

dell’incolumità dell’amato padrone. Contro se stessa, si riavvicinò alla sorella, e le si parò

davanti, prendendole il viso bruscamente con la mani, afferrandola per il mento e costringendola a

guardarla.

 

Intorno a loro due gli altri Mangiamorte cominciavano ad agitarsi, e si chiedevano cosa rimaneva

da fare, dove nascondersi, come potesse essere successo. Dolohov dava una spiegazione strana,

raccontava di un Avada Kedavra rimbalzato, di una casa interamente distrutta, di un padrone

scomparso. Mentre intorno a loro dilagava la paura, Narcissa e Bellatrix si guardavano.

 

“Devi scappare,” disse Narcissa. “Prendi Rodolphus, lasciate il paese; saranno qui a breve.

Dovete nascondervi. Germania, Francia, qualsiasi posto, ma lasciate la Gran Bretagna e non

fidatevi di nessuno.”

 

Bellatrix la sentiva, ma non la ascoltava. Le pupille le si dilatavano sempre di più finché

improvvisamente cacciò un urlo, disperato, folle, bestiale, che le ricordò della notte in cui era

morta sua madre ed era stata lei stessa, Narcissa, a urlare così.

 

“No,” esclamò Bellatrix. “NO!”

 

“Bellatrix, dovete andare ORA!” continuava a dire Narcissa, ma Bellatrix oramai era lontana da

lei, lontana da tutto quello che era il presente. E forse, quel qualcosa che aveva visto spezzarsi

nella sorella, insieme alla speranza, era proprio la percezione della realtà.

 

“NO!” gridò ancora Bellatrix, divincolandosi. “DOBBIAMO TROVARLO!”

 

“Non c’è più niente da fare,” sussurrava Dolohov, guardando in basso in modo sconfitto.

 

“CODARDI!” gridava Bellatrix “DOBBIAMO TROVARLO! CERCHIAMO GLI AUROR, LORO

SAPRANNO DOV’E’!”

 

Lucius si fece avanti e cercò di parlarle in modo ragionevole. “Bellatrix, non possiamo rivolgerci

agli Auror, ci staranno cercando. Dovete nascondervi, voi che siete stati così apertamente dalla

parte dell’Oscuro Signore siete più in pericolo degli altri.”

 

Bellatrix si volto verso il cognato, folle e incontrollabile. “NOI, Lucius? NOI! E tu cosa farai? Lo

rinnegherai, lo tradirai? CODARDO, tu come tutti gli altri!” esclamò. Poi si voltò nuovamente, e

raggiunse il marito a grandi passi. “Dobbiamo trovarlo, Rodolphus. Dobbiamo cercarlo, lui si fida

di noi, si aspetta che lo cerchiamo, si aspetta la nostra fedeltà!”

 

Rodolphus si guardò intorno, e lesse il disagio nella maggior parte dei testimoni. Poi incontrò lo

sguardo di suo fratello, che annuì impercettibilmente, e quello di Barty Jr, i cui occhi erano tanto

folli quanto lo erano quelli di Bellatrix.

 

“NO!” urlò Narcissa. “È una condanna, non potete farlo! Proprio voi, sarete i primi sospettati, vi

daranno la caccia come le bestie! Dovete scappare!”

 

“Noi non lo tradiremo, Narcissa,” disse Rodolphus, prendendo Bellatrix per mano.

 

“Bella!” gridò ancora Narcissa. “Sono tua sorella! Te lo ordino!”

 

Bellatrix la guardò e, con sdegno, sputò ai piedi della sorella. “Io non sono sorella di traditrici e

voltagabbana.”

 

Rodolphus si voltò verso Rabastan e Crouch, ordinando di trovarsi a casa dei Paciock, tra gli

Auror più importanti del Ministero. Senz’altro, loro avrebbero saputo, e se anche non avessero

voluto parlare, avrebbero avuto quello che gli spettava.

 

Narcissa e Bellatrix si guardavano, le suppliche negli occhi dell’una, il disprezzo in quelli

dell’altra.

 

Poi, si Smaterializzarono.

 

Era stata l’ultima volta che avevano parlato. L’ultima volta che lei, Narcissa, aveva visto sua

sorella. Non se l’era sentita di assistere al processo, quando aveva saputo che lei, Rodolphus, Rabastan e Crouch erano stati catturati. E poi, avrebbe corso un rischio troppo grande, soprattutto tenuto conto del completo voltafaccia che lei e Lucius avevano osato compiere. Lui, suo marito, era stato presente al processo, se non altro per dimostrare fedeltà al Ministero subito dopo che anche le

accuse che gli pendevano sul capo erano state rigettate. Lei non gli aveva mai chiesto niente, non

gli aveva mai chiesto come Bellatrix avesse affrontato l’udienza, non gli aveva mai chiesto se era

pentita.

 

Non lo aveva chiesto perché conosceva sua sorella, sapeva benissimo che il pentimento non

rientrava nel suo carattere. Bellatrix sarebbe affondata insieme al suo Padrone, piuttosto che

rinnegarlo, tradirlo come tante volte aveva gridato quella sera.

 

Non era mai andata ad Azkaban, non ne aveva mai avuto la forza né il coraggio. In parte perché

Lucius glielo aveva impedito categoricamente, in parte perché sapeva che andando si sarebbe

sottoposta ai peggiori insulti da parte di tutti i prigionieri dell’ala. Tremava al solo pensiero di

quello che le avrebbero gridato se un giorno l’avessero vista camminare davanti alle loro celle. Lei,

la traditrice, la bugiarda, l’infida strega che aveva voltato le spalle ai Mangiamorte, alle persone

che fino a poco tempo prima cenavano nel suo soggiorno, chiacchieravano nelle sue stanze e si

intrattenevano nel suo salotto.

 

Le uniche notizie che aveva ricevuto le aveva lette sui giornali, sulla Gazzetta del Profeta, che

riportavano dell’instabilità crescente della Mangiamorte Bellatrix Lestrange, di come con lo

svolgersi della sentenza i Dissennatori le rubassero l’anima.

 

Ma aveva poi un’anima, quella donna? Narcissa non lo sapeva più. Col passare degli anni,

l’efferata criminale che abitava la cella 34 di Azkaban diveniva sempre più un ricordo, si

allontanava ogni giorno di più dall’essere sua sorella e diveniva invece quella criminale che tutti

temevano quasi quanto avevano temuto Lord Voldemort.

 

Più passavano i giorni, più i ricordi di quando erano bambine venivano rimpiazzati dai racconti

raccapriccianti delle persone che l’avevano conosciuta nella sua veste peggiore: parenti di persone

torturate, uccise dal braccio destro del Signore Oscuro, persone che giuravano fosse il Diavolo

in persona, o che senz’altro doveva almeno avergli venduto l’anima per poter essere così priva di

coscienza.

 

Narcissa non ritrovava la Bellatrix che conosceva in quei resoconti così dettagliati di puro orrore.

Certo, sua sorella non era mai stata una dama da salotto, ma mai nessuno (e certamente neanche

suo padre, che tanto l’aveva elogiata quando era stata marchiata) avrebbe potuto ricollegare la

famigerata assassina alla sua figlia maggiore.

 

E poi l’aveva vista, lì, sul pavimento di casa sua, ai piedi del Signore Oscuro, un corpo troppo

magro e troppo bianco, e tutto quello che aveva pensato in quei terribili anni, tutte quelle volte che

aveva deciso di rinnegarla esattamente come Bellatrix aveva rinnegato lei, erano diventati solo un ricordo.

 

Anche ora, mentre suo marito la trasportava, ancora incosciente, su per le scale, e Narcissa lo

seguiva, non riusciva a distogliere lo sguardo dagli occhi semi-chiusi di Bellatrix, la testa che

dondolava ad ogni gradino, le braccia che cadevano, abbandonate, verso il basso, i capelli così

lunghi che per poco non toccavano il pavimento. Se non fosse stato per la tragicità del momento, le

labbra violacee, le occhiaie, la polvere e la terra che le rovinavano la pelle, avrebbe riso alla scena

di Lucius che la portava in braccio, quasi fosse una principessa, pensando agli anni di puro odio fra i due.

 

Ma non era una scena comica, né romantica. C’era un senso di drammaticità, come se Lucius

trasportasse un cadavere, e Narcissa fu percorsa da un brivido pensando a quanto fossero stati vicini

alla realizzazione di quell’incubo. Vedendo Bellatrix ridotta così, non poteva non pensare che un

unico giorno in più sarebbe bastato a spegnerla per sempre, lì ad Azkaban.

 

Invece era libera, libera grazie al Signore Oscuro che aveva mantenuto la sua promessa. Li aveva

salvati, li aveva salvati tutti e li avrebbe ricompensati per la loro fedeltà, per il loro giuramento di

lealtà eterna. Non le importava, in quegli attimi, del perché, non le interessava sapere se l’avesse

fatto solo perché lei, come gli altri, gli serviva per la profezia, o qualsiasi altra missione avesse

in mente. L’unica cosa che contava era che lei ora era libera, era finalmente da lei, a casa, come era

giusto che fosse.

 

Giunti in cima alle scale, Narcissa corse avanti e aprì le porte della camera da letto più vicina,

quella di Draco. Lucius entrò, attento a non far sbattere la testa di Bellatrix contro lo stipite, e

quando fu al lato del letto ve la adagiò sopra. Narcissa gli rimase al fianco, ed entrambi osservarono

Bellatrix che per un secondo aprì li occhi, guardandoli, prima di richiuderli e far ricadere

leggermente la testa di lato.

 

“Cosa dobbiamo fare?” Narcissa sussurrò.

 

“Lasciamola dormire, per ora,” Lucius rispose, scuotendo la testa. ”Perdonami, ma è la prima

volta che do rifugio ad una fuggitiva di Azkaban, non sono ferrato in materia.” Questo lo aggiunse

in tono sprezzante, facendole pesare la responsabilità che gravava sulle loro spalle, ospitando

Bellatrix. Ma Narcissa non lo ascoltava. Si sedette sul letto al fianco della sorella.

 

“Resterò con lei, stanotte,” spiegò, senza guardarlo. “Nel caso si svegliasse, sono sicura che non

vorrebbe rimanere da sola.”

 

Lucius guardò il profilo della moglie; non la vedeva chiaramente, ma la luce della luna, filtrata dei

vetri delle finestre, gettavano un chiarore sinistro sulla stanza e su di lei, già così pallida di suo.

Poteva vedere la preoccupazione, e allo stesso tempo la soddisfazione di riavere Bellatrix. Si chiese

per un attimo se anche sul suo viso fosse possibile intravedere i sentimenti che provava: timore,

incertezza, intimidazione.

 

Annuì e lasciò la stanza, chiudendo la porta dietro di sé: dovette ammettere che, come sempre era

stato, tra Narcissa e Bellatrix non c’era spazio per altre persone, almeno per quanto riguardava la

prima. Sua sorella veniva prima di tutto, da sempre.

 

Ma per Bellatrix… Non ne era poi così sicuro.

 

Narcissa rimase nella stanza per tutta la notte. Aveva avvicinato la vecchia poltrona al letto, quella

poltrona sulla quale aveva allattato Draco, la poltrona sulla quale raramente Lucius si era seduto per

parlare con il figlio, ed era rimasta su quella poltrona, vigile ed attenta ad ogni minimo movimento

della donna sul letto. A volte Bellatrix si muoveva, poco, e chiaramente con molto sforzo, ma lo

faceva e dalla bocca uscivano sussurri, sospiri, un respiro affannato e doloroso.

 

Dopo qualche ora Narcissa si arrese al sonno, e si appoggiò al bracciolo; non seppe quanto dormì,

ma ad un certo punto fu svegliata bruscamente da un urlo. Sobbalzò sulla poltrona e si guardò

intorno, facendo mente locale, ed immediatamente tornò a rivolgere lo sguardo sul corpo che ora si contorceva sul letto, urlando e inarcando la schiena, stringendo i pugni, le palpebre serrate.

 

“Bella,” esclamò, alzandosi dalla poltrona e sedendosi sul letto. Afferrò la sorella per le spalle,

cercando di bloccarne le convulsioni. “Bella, svegliati, Bella!”

 

I movimenti cessarono e le palpebre si aprirono di scatto; Bellatrix spalancò gli occhi e la guardò,

come se la vedesse per la prima volta, chiaramente ignara della situazione e di come potesse

essere giunta lì, come se gli istanti in cui era stata a malapena cosciente fossero stati dimenticati.

Era immobile, sul letto, nella presa della sorella, ma gli occhi si muovevano da un lato all’altro,

velocemente, come un animale spaventato.

 

“Bella, sei a casa,” Narcissa sussurrò, portando una mano sulla fronte della sorella nel tentativo

di calmarla. Poi le accarezzò una guancia e annuì in modo rassicurante. “Il Signore Oscuro ti ha

portato qui, ricordi? Bella?”

 

Bellatrix deglutì rumorosamente e il respiro si stabilizzò. Dischiuse le labbra, come per dire

qualcosa, ma alla fine decise di tacere. Richiuse gli occhi e Narcissa fece scivolare la sua mano su

quella della sorella, stringendola.

 

Narcissa si accasciò sulla sorella, appoggiando la tempia contro il petto, tanto vicina da sentirne

il cuore battere. Anche Bellatrix strinse la mano della sorella e Narcissa sorrise. “Va tutto bene,”

disse. “Tutto bene.”

 

E la sentì di nuovo, più forte. Quella sensazione di potenza che la vicinanza di Bellatrix, e del suo

sangue, le dava, quella vitalità era come una nuova ragione per vivere quando credeva di essere

condannata alla mediocrità.

 

La aveva odiata, aveva voluto odiarla per non soffrire della sua lontananza, ma ora che era là,

distesa sul letto, in agonia, in preda ai temibili ricordi di Azkaban e di quello che aveva vissuto, la

amava come mai aveva fatto. Riscoprì quel bisogno di sua sorella che aveva perso quando aveva

compiuto diciassette anni, riscoprì il bisogno di averla vicina, il bisogno di parlarle, di litigare con

lei, di dirle che sbagliava, o di complimentarsi con lei per le piccole cose. Aveva bisogno di lei,

e aveva cercato di soffocare questo bisogno per quattordici anni, riuscendoci solo in superficie,

marginalmente, se era bastato vederla per far tornare a galla quei sentimenti così forti.

 

“Dov’è?”

 

Narcissa alzò la testa, sorpresa dalle parole della sorella, anzi semplicemente sorpresa che avesse

parlato.

 

“Intendi dove sei?” le chiese.

 

Bellatrix scosse la testa, tenendo gli occhi chiusi. “Dov’è?” ripeté. La voce era rauca, bassa: con

un brivido Narcissa penso che fosse dovuto a quanto aveva gridato ad Azkaban, fino a sole poche

ore fa. Era l’unica cosa che aveva saputo, della prigionia della sorella: invocava a gran voce il suo

Signore e rideva, rideva come una folle in preda a una crisi. Urlava e rideva.

 

“Chi?” le chiese Narcissa, sperando che non fosse quello che credeva.

 

“Lui,” disse semplicemente Bellatrix. Contemporaneamente sfilò la mano da quella della sorella.

 

Narcissa si mise a sedere dritta, e contemplò la possibilità di non risponderle. Ma sapeva che

avrebbe continuato a chiedere di lui, avrebbe urlato, se necessario. “Sarà qui fra tre giorni,

Bellatrix,” le disse. “Mi ha fatto promettere di rimetterti in sesto. Mi ha fatto promettere di farti

tornare la sua guerriera.”

 

Le labbra di Bellatrix si curvarono in un sorriso. Non un ghigno, come suo solito, un sorriso vero, di

felicità. “È tornato a prendermi, Cissy,” disse, e nuovamente cadde in un profondo sonno, stavolta

senza incubi.

 

Gli incubi, quelli erano stati esorcizzati perché il suo Signore l’aveva voluta al suo fianco.

 

Non ci sarebbero stati incubi.

 

Non più.

[To be continued]
  
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