Sono stanchissima e in partenza per un tour de force... ma questa storia ha già atteso troppo quindi vi lascio un capitolino al volo.
Arrivederci alla prossima settimana!,
Grazie a Mela, Sumire 90 e FlaR per il loro apprezzamento!
PARTE I, cap. 2
La bocca di Munemasa Katagiri si
piegò, accennando
un sorriso amaro, alla vista di Yasu che, per l’ennesima
volta, controllava di
nascosto l’orologio.
“Sono le
“Sicuro?” chiese lei educatamente, anche se intanto
si era alzata e stava già riordinando la scrivania alla
bell’e meglio.
Lui annuì e si avvicinò alla finestra, fingendo
di
guardare fuori. In realtà voleva semplicemente non vederla
tradire quei gesti
di impazienza, anche perché era conscio dei suoi tentativi
di dissimularli -ma è
così giovane, pensava,
non è facile dominare le emozioni, alla sua
età. Avrebbe trovato quei tentativi addirittura
divertenti, al pari dei
gesti infantili che ogni tanto le sfuggivano, se solo non gli avessero
fatto
tanto male.
“Allora prendo la macchina, stasera, va bene?”
chiese Yasu.
“Ah già” rispose lui, continuando la
farsa che
andava avanti da tutto il pomeriggio, ossia che l’evento
previsto per la serata
non rappresentasse niente di particolare. “Vai a cena con
Wakashimazu,
stasera”.
“Sì” rispose lei laconica. Raccolse le
sue cose e
rimase ferma di fronte a lui.
“Puoi andare” le fece notare Katagiri.
“Ehm… Munemasa?”
“Sì?”
“Le chiavi della macchina le hai tu”.
“Ah, giusto” sorrise nervosamente della propria
dimenticanza, porca miseria aveva proprio la testa altrove!
Fece scivolare la chiave della macchina che aveva
preso a noleggio nelle mani della ragazza, lei la afferrò e
si diresse verso
“Munemasa…” sussurrò di
nuovo. “Mi hai chiesto tu
di farlo… e, comunque, non hai niente di cui
preoccuparti”.
“Lo so” rispose lui. Ed era vero: sapeva di non
aver nulla da temere, sapeva di essere stato lui a chiederle di
chiarire la
situazione col suo ex… razionalmente
sapeva quelle cose… era la sua parte irrazionale, quella che
proprio grazie a
Yasu aveva ricominciato a vivere, a farlo impazzire di…
beh… gelosia. “La
prossima volta, però, uscirai con me”.
“Non sai quanto mi piacerebbe… però
bisogna
cominciare fin d’ora a pensare a cosa dire al signor
Mikami!”
Risero entrambi, anche se con poca convinzione,
poi Yasu si avviò verso la propria stanza.
Scegliere cosa indossare non era
facile: non
voleva essere troppo elegante, ma nemmeno troppo sportiva…
insomma era cambiata,
cresciuta, ma era sempre lei. Voleva che le sue nuove forme
risaltassero, ma
non sfacciatamente. Doveva studiare l’abbigliamento con cura,
ma la scelta
doveva apparire naturale, quasi casuale. E poi non sapeva dove
sarebbero
andati…
Comunque, dopo averci pensato su tutto il giorno
(e anche la notte precedente, a onor del vero), Yasu aveva infine
deciso di
indossare un tubino nero, con giacca e stivali in tinta e calze a righe
sui
toni del grigio, per sdrammatizzare. Odiò vieppiù
i suoi capelli, infine decise
di raccoglierli in una minuscola coda, tenuta su a viva forza da una
serie di
mollette. Completò tutto con degli orecchini a cerchio poco
vistosi e con un
ciondolo regalatole da Ken anni prima, e giusto un tocco di eye liner.
Infilò portafogli, telefono e chiavi in una
minuscola borsa nera e scivolò fuori dal J-Village, usando
degli opportuni
corridoi di servizio. Riuscì così a non
incrociare nessuno, a parte un paio di
donne delle pulizie.
Il motore della spider nera cantò sotto di lei.
Munemasa aveva gli stessi gusti di suo fratello Ichirou in fatto di
macchine.
Per parte sua, Yasu, pur riconoscendone la bellezza, aveva nostalgia
della
piccola Yaris rossa, abbandonata da anni nel garage della villa di
Nankatsu.
Chissà se si sarebbe mai rimessa in moto…
Uscì dal parcheggio e imboccò la via per Meiwa.
Non aveva fatto che pochi metri quando scorse la fermata
dell’autobus. Notò con
sorpresa che c’era qualcuno lì ad aspettare.
Takeshi Sawada.
L’istinto fu di tirare dritto. Tanto non l’avrebbe
riconosciuta. Ma poi pensò che, se era tornata per rimettere
a posto le cose,
dare un passaggio a Takeshi poteva essere un ottimo modo per iniziare:
infondo
casa sua era a un paio di isolati da quella di Ken.
Infondo, anche se ora stava insieme al suo ex, Takeshi
era stato uno dei suoi migliori amici.
Inchiodò e innestò
“Tranquillo, Takeshi, sono io” si palesò
Yasu,
abbassando il finestrino oscurato. “Serve un passaggio fino a
Meiwa?”.
“Ya-chan!” esclamò il ragazzo, mentre un
sorriso
enorme gli illuminava la faccia rotonda. La luce si spense in fretta:
“Cioè
Yasuko, ciao” Aprì la portiera e si sedette. Il
vecchio Sawada le si sarebbe
buttato al collo stringendola forte. Questo se ne stava seduto
rigidamente, lo
sguardo fisso in avanti, torcendosi le mani in grembo.
La ragazza cercò di rivolgergli un sorriso
rassicurante, poi inserì la marcia e partì.
“E’ questa la tua macchina?” chiese
Sawada,
guardandosi intorno dubbioso.
“In realtà l’ha presa a noleggio Mune-
ehm, il
signor Katagiri e me l’ha gentilmente prestata per
stasera”.
“Ah”.
Seguirono alcuni momenti di silenzio imbarazzato.
Sembrava di sentire i due cervelli lavorare alacremente alla ricerca di
un
qualsiasi argomento consono.
“Erano tutti molto felici di rivederti, sai?”
disse infine Takeshi.
“Già” sorrise lei ripensando alla
calorosa
accoglienza che i ragazzi le avevano riservato quella
mattina… si era quasi
commossa.
Ridendo, ricordarono gli abbracci gioiosi di Taki,
Teppei, Takasugi e Izawa, suoi amici fin dalle elementari,
l’abbraccio da polpo
del solito Soda, le calorose strette di mano di Tsubasa, Misaki, Misugi
e
Matsuyama. Infine Jito che l’aveva sollevata come un
fuscello, scaraventandola
nelle braccia di Kojiro, il quale, in un esilarante mix di affetto
profondo e
imbarazzo, l’aveva afferrata e stretta brevemente fra le
braccia. Takeshi si
era limitato a salutarla da lontano.
“Finalmente ho conosciuto Aoi” osservò
Yasu. “È
davvero una sagoma come avevo sentito dire”. Le risate di
entrambi riempirono
il basso abitacolo della spider, ricordando la buffa performance di
Shingo Aoi.
All’inizio non aveva neppure notato l’ingresso di
Yasu nella palestra: aveva
continuato a chiacchierare a macchinetta con Sano, col quale stava
facendo
l’esercizio. Preso dalla foga del discorso, si era accorto
solo con qualche
attimo di ritardo che non solo Mitsuru non era più vicino a
lui, ma che tutti
quanti si erano alzati ed erano andati ad assieparsi verso la porta.
“Che
succede?” aveva chiesto svagato, “fatemi
vedere!” aveva protestato, di fronte
al muro di giocatori, quasi tutti più alti di lui. Lesto,
come lo era in campo,
si era insinuato fra i compagni fino a trovarsi di fronte a Yasu, che
lo aveva
guardato con un sorriso.
“Tu sei il famoso Shingo Aoi, piacere”.
“Piacere mio” aveva mormorato il ragazzo,
arrossendo e accennando un timido inchino. “Tu chi
sei?”
“E’ Yasu Wakabayashi, capra” lo aveva
rimproverato
Nitta con uno scappellotto.
“Ah!!! La sorella di Genzo! Quella che stava con
Ken e poi è andata via! Quella che faceva i
massaggi!”
Yasu aveva annuito ridendo di gusto, mentre tutti
si prendevano il volto fra le mani.
Parlando dei vari membri della nazionale, il breve
tempo del tragitto verso casa di Ken era trascorso rapidissimo.
Scorsero il
cancello di casa Wakashimazu e Ken appoggiato al muro.
Vedendo la macchina fermarsi, Ken si avvicinò.
“Ah!” esclamò stupito, vedendoli
scendere. “Siete…
venuti insieme?”.
“Sì” lo informò Takeshi,
“mi ha visto alla fermata
del bus e mi ha dato un passaggio”.
“E’ stato gentile da parte tua”
sussurrò Ken,
carezzando la spalla di Yasu. “Lo sai, sì, che sei
uno schianto, con questo
vestito?”
La ragazza deglutì: se lei era uno schianto, lui
era un dio. Bellissimo in camicia bianca, jeans scuri e scarpe
eleganti: il
ricordo del loro primo appuntamento le mozzò il respiro.
Mentre lei non riusciva a non fissare il portiere,
lo sguardo di lui era passato alla la macchina.
“Gran bel gioiellino, complimenti…”
Yasu stava per rispiegare la storia del noleggio,
ma le parole successive di Ken la colpirono come un macigno fra capo e
collo.
“…ma in tre non ci stiamo”.
La ragazza non riuscì ad articolare niente, né
una
protesta, né una domanda, il dialogo che procedeva fra i due
calciatori, lo sentiva
provenire come da lontano.
“Prenderemo la mia” diceva Ken.
“Ma tu non puoi guidare con quella spalla! E io
non ho ancora la patente!”
“Faremo guidare Yasu, se per lei va bene…Eh,
piccola?”
“Eh?” si risvegliò lei, sentendosi
chiamata in
causa.
“Puoi guidare tu la mia macchina?” le
ripeté Ken.
“Sì, certo…”
balbettò in risposta. “Scusa non
sapevo venisse anche lui” disse infine, pentendosi della nota
di disprezzo
messa su quel pronome, nell’istante stesso in cui lo
pronunciava.
“Ma sì” suggerì timidamente
Takeshi. “Andate voi
due. Avrete tante cose da dirvi e…”
“No” lo interruppe Ken. “Voglio che venga
anche
tu”.
Sawada cercò gli occhi di Yasu, ma lei li volse
con decisione altrove.
Il ristorante scelto da Ken era molto bello,
tradizionale, ma arredato con gusto moderno. Aveva riservato una
saletta
privata dove cameriere precise, silenziose ed eteree come le geishe dei
tempi
antichi, collocarono con grazia diversi assaggi di cibi per poi
lasciare soli
gli ospiti, come da essi esplicitamente richiesto.
Yasu, Ken e Takeshi si accomodarono su dei cuscini
disposti attorno al tavolo, piluccando assaggi dell’ottimo
cibo, accompagnato
da una conversazione pacata circa le novità al J-Village, le
avventure europee
di Yasu e quelle degli altri nei rispettivi club, e innaffiato da una
discreta
quantità di sakè.
Yasu stava bene: se non ci pensava troppo, le
sembrava di essere tornata a scuola. Eppure sentiva anche le parole non
dette
permeare l’aria, simili a scosse di energia elettrica.
L’alcol e la stanchezza ebbero presto la meglio su
Sawada, che si addormentò beato sui cuscini, o almeno
così volle lasciare
intendere.
Ken e Yasu si scambiarono un’occhiata d’intesa,
accompagnata da un sorriso.
“Andiamo a prendere una boccata d’aria?”
suggerì
il portiere, alzandosi e porgendo la mano a Yasu, che annuì
emozionata. Si
lasciò condurre, attraverso la portafinestra verso il
piccolo e curatissimo
giardino, anch’esso, come la saletta, riservato a loro.
Era una notte di tarda primavera, una brezza
tiepida e profumata carezzava il viso. Yasu non aveva messo le ciabatte
e
rabbrividì leggermente sentendo l’erba fresca
sotto i piedi, lasciandosi
sfuggire un mugolio di piacere.
La mano grande e calda di Ken le avvolgeva ancora
le dita. Il suo profilo, la sua voce che raccontava della scorsa
stagione in
J-league, erano familiari, come le canzoni di un cd ascoltato tante
volte che,
finita una traccia, inizi a cantare quella successiva ancor prima che
parta.
La condusse vicino a un minuscolo laghetto e si
sedettero sui grandi ciottoli bianchi che lo delimitavano.
“Cosa volevi dirmi, senza Takeshi?” chiese Ken,
dopo qualche attimo di silenzio.
“Ma niente, avevo frainteso le tue intenzioni,
ecco… ma infondo hai ragione tu… stare una serata
io e te da soli sarebbe stato
come riscaldare una minestra che comunque è da
buttare…”
“Non è tutto da buttare” intervenne lui,
aggrottando le sopracciglia.
Yasu ebbe un attimo di esitazione, in cui credé
che Ken l’avesse sentita parlare col padre, ma poi
capì che, semplicemente, la
pensavano alla stessa maniera.
Come prima succedeva tanto spesso.
Suo malgrado, un sorriso le sbocciò sulle labbra.
Allungò una mano a sfiorare il pelo dell’acqua e
le ninfee che galleggiavano
sopra.
“Io, invece, avrei mille cose da dirti…”
proseguì
lui, lo sguardo rivolto al laghetto, “non sai quante ne ho
pensate in questi
mesi… se tenessi un diario come fai tu, avrei scritto una
specie di
enciclopedia”
“Non lo tengo più, il diario”.
“Uh? Peccato…”
Silenzio.
“E invece
tu…” chiese a un tratto Yasu. “Cosa mi
volevi dire con Sawada?”
“Volevamo dirti che ci sei mancata tanto e che ti
vogliamo bene, e…”
La mano di Yasu si strinse a pugno, ma l’acqua ne
fuggì via subito.
“Smettila con questo “noi”, non ha
senso…”
“Certo che ha senso.” Il tono era quasi offeso.
“Noi siamo…”
“Lo so cosa siete, cazzo!Solo… credevo che stasera
fosse per parlare, un’ultima volta, di quello che eravamo tu e io…”
“Yasu…” Ken tentava di controllarsi, ma
faceva
fatica. “Lo capisci che non c’è
più niente da dire? Ti ho fatto male, lo so, e
ti chiedo scusa. Ma non l’ho fatto apposta, se avessi potuto
te l’avrei
risparmiato… Kamisama, Yasu sei la prima e credo sarai
l’unica donna che io
abbia
Yasu si alzò di scatto. Lui stava dicendo
esattamente quello che lei sperava: in fondo, la sua più
grande paura era di
scoprire che la loro storia non fosse stata altro che una menzogna e
che lui
non l’avesse mai amata come diceva. Ora sapeva che non era
vero e una parte di
lei, si sentì tanto leggera da pensare che, alzandosi da
quel sasso, avrebbe
spiccato il volo.
Ma l’altra parte ribolliva di rabbia e voleva
vendetta. E fu quest’ultima a spingerle la voce lungo la gola
e attraverso i
denti serrati.
“Finiscila con queste cazzo di frasi da film, non
leniranno mai il male che mi hai fatto! Anche io ti ho amato, ma ora ti
odio”.
Gli occhi di Ken, ora rivolti a Yasu,
fiammeggiarono.
“Bene. Ti sei fatta migliaia di chilometri per
venirmi a dire questo? Allora siamo a posto, no?”
ringhiò, alzandosi in piedi.
“Non è tutto. Volevo anche dirti che ho un altro,
quindi esci dalla mia vita!” gli sputò contro lei,
prossima alle lacrime.
“Consideralo già fatto”. A rapide e
grandi falcate
il portiere tornò nella stanza, afferrò la
propria giacca e raccolse le chiavi
che Yasu aveva appoggiate vicino alla borsa. Quindi uscì,
quasi di corsa, dal
ristorante.
“Non sono riuscito a fermarlo…”
“Lascia perdere, paghiamo e facciamoci chiamare un
taxi…” disse lei brusca.
“Tu risolvi tutto così, vero? Paghi e pensi per
te… Ken era furioso e un po’ alticcio, senza
contare che la spalla gli dà
fastidio per guidare, e tu lo lasci andare così?”
Yasu guardò Takeshi, il suo piccolo amico, il più
giovane eppure il più saggio, sì, era sempre
stato così… eppure… ora era anche
uno sconosciuto. Uno sconosciuto che se la faceva col suo ex.
“Cosa credi, che io sia tranquilla?”
squittì Yasu,
ben decisa a non dargli la ragione che meritava.
“Tu, tu, tu, Yasuko Wakabayashi ti sei mai accorta
che ci sono anche gli altri? Che hai messo in pericolo
Ken…”
“Ma va, non fare il menagramo…”
“Se gli succede qualcosa, è colpa tua!”
Yasu rispose solo con un gesto stizzito della mano
e andò alla cassa per pagare e far chiamare il taxi.
Di lì a poco, la ragazza ricomparve sulla porta
della saletta privata.
“C’è il taxi, vuoi un passaggio,
Sawada?” disse
atona.
Il giovane centrocampista la seguì senza
rispondere, mordendosi le unghie col cellulare all’orecchio.
“Non risponde” piagnucolò per
l’ennesima volta,
una volta nella vettura.
“Ah, può farlo anche per una settimana, te lo dico
per esperienza, rassegnati”.
“Ma lo sto chiamando io, mica è arrabbiato con me,
è arrabbiato con te!”
Yasu si morse le labbra. Stava per rispondere,
quando la vista di un riverbero blu di lampeggianti le fece morire le
parole in
bocca. Salendo praticamente in braccio a Takeshi, si
avvicinò al vetro.
Non c’erano dubbi: la macchina semidistrutta di
traverso alla strada era quella di Ken.
“Si fermi” sussurrò, atterrita.
“Prego?” chiese il tassista.
“Si fermi!” gridò Takeshi,
catapultandosi fuori
dal veicolo ancor prima che si arrestasse completamente.