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Autore: berlinene    10/05/2011    3 recensioni
Il seguito di "Un'altra possibilità"(ma non è fondamentale averla letta!): Yasu torna in Giappone come suggeritole da Katagiri per chiarire con Ken, ma affrontare il passato non è mai indolore e non sempre le cose vanno come si vorrebbe...
Prosegue e si conclude questo "E se" del Diario...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Danny Mellow/Takeshi Sawada, Ed Warner/Ken Wakashimazu, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Diario di Irene Price genera storie'
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Sono stanchissima e in partenza per un tour de force... ma questa storia ha già atteso troppo quindi vi lascio un capitolino al volo.

Arrivederci alla prossima settimana!,

Grazie a Mela, Sumire 90 e FlaR per il loro apprezzamento!

PARTE I, cap. 2

La bocca di Munemasa Katagiri si piegò, accennando un sorriso amaro, alla vista di Yasu che, per l’ennesima volta, controllava di nascosto l’orologio.
“Sono le 17.30” disse l’uomo alla ragazza. “Puoi andare, finiremo domani”.
“Sicuro?” chiese lei educatamente, anche se intanto si era alzata e stava già riordinando la scrivania alla bell’e meglio.
Lui annuì e si avvicinò alla finestra, fingendo di guardare fuori. In realtà voleva semplicemente non vederla tradire quei gesti di impazienza, anche perché era conscio dei suoi tentativi di dissimularli -ma è così giovane, pensava, non è facile dominare le emozioni, alla sua età. Avrebbe trovato quei tentativi addirittura divertenti, al pari dei gesti infantili che ogni tanto le sfuggivano, se solo non gli avessero fatto tanto male.
“Allora prendo la macchina, stasera, va bene?” chiese Yasu.
“Ah già” rispose lui, continuando la farsa che andava avanti da tutto il pomeriggio, ossia che l’evento previsto per la serata non rappresentasse niente di particolare. “Vai a cena con Wakashimazu, stasera”.
“Sì” rispose lei laconica. Raccolse le sue cose e rimase ferma di fronte a lui.
“Puoi andare” le fece notare Katagiri.
“Ehm… Munemasa?”
“Sì?”
“Le chiavi della macchina le hai tu”.
“Ah, giusto” sorrise nervosamente della propria dimenticanza, porca miseria aveva proprio la testa altrove!
Fece scivolare la chiave della macchina che aveva preso a noleggio nelle mani della ragazza, lei la afferrò e si diresse verso la porta. Poggiò la mano sulla maniglia.
“Munemasa…” sussurrò di nuovo. “Mi hai chiesto tu di farlo… e, comunque, non hai niente di cui preoccuparti”.
“Lo so” rispose lui. Ed era vero: sapeva di non aver nulla da temere, sapeva di essere stato lui a chiederle di chiarire la situazione col suo ex… razionalmente sapeva quelle cose… era la sua parte irrazionale, quella che proprio grazie a Yasu aveva ricominciato a vivere, a farlo impazzire di… beh… gelosia. “La prossima volta, però, uscirai con me”.
“Non sai quanto mi piacerebbe… però bisogna cominciare fin d’ora a pensare a cosa dire al signor Mikami!”
Risero entrambi, anche se con poca convinzione, poi Yasu si avviò verso la propria stanza.
 

Scegliere cosa indossare non era facile: non voleva essere troppo elegante, ma nemmeno troppo sportiva… insomma era cambiata, cresciuta, ma era sempre lei. Voleva che le sue nuove forme risaltassero, ma non sfacciatamente. Doveva studiare l’abbigliamento con cura, ma la scelta doveva apparire naturale, quasi casuale. E poi non sapeva dove sarebbero andati…
Comunque, dopo averci pensato su tutto il giorno (e anche la notte precedente, a onor del vero), Yasu aveva infine deciso di indossare un tubino nero, con giacca e stivali in tinta e calze a righe sui toni del grigio, per sdrammatizzare. Odiò vieppiù i suoi capelli, infine decise di raccoglierli in una minuscola coda, tenuta su a viva forza da una serie di mollette. Completò tutto con degli orecchini a cerchio poco vistosi e con un ciondolo regalatole da Ken anni prima, e giusto un tocco di eye liner.
Infilò portafogli, telefono e chiavi in una minuscola borsa nera e scivolò fuori dal J-Village, usando degli opportuni corridoi di servizio. Riuscì così a non incrociare nessuno, a parte un paio di donne delle pulizie.
Il motore della spider nera cantò sotto di lei. Munemasa aveva gli stessi gusti di suo fratello Ichirou in fatto di macchine. Per parte sua, Yasu, pur riconoscendone la bellezza, aveva nostalgia della piccola Yaris rossa, abbandonata da anni nel garage della villa di Nankatsu. Chissà se si sarebbe mai rimessa in moto…
Uscì dal parcheggio e imboccò la via per Meiwa. Non aveva fatto che pochi metri quando scorse la fermata dell’autobus. Notò con sorpresa che c’era qualcuno lì ad aspettare.
Takeshi Sawada.
L’istinto fu di tirare dritto. Tanto non l’avrebbe riconosciuta. Ma poi pensò che, se era tornata per rimettere a posto le cose, dare un passaggio a Takeshi poteva essere un ottimo modo per iniziare: infondo casa sua era a un paio di isolati da quella di Ken.
Infondo, anche se ora stava insieme al suo ex, Takeshi era stato uno dei suoi migliori amici.
Inchiodò e innestò la retro. Vide il ragazzo ritrarsi, un po’ spaventato dalla strana manovra della macchina sconosciuta.
“Tranquillo, Takeshi, sono io” si palesò Yasu, abbassando il finestrino oscurato. “Serve un passaggio fino a Meiwa?”.
“Ya-chan!” esclamò il ragazzo, mentre un sorriso enorme gli illuminava la faccia rotonda. La luce si spense in fretta: “Cioè Yasuko, ciao” Aprì la portiera e si sedette. Il vecchio Sawada le si sarebbe buttato al collo stringendola forte. Questo se ne stava seduto rigidamente, lo sguardo fisso in avanti, torcendosi le mani in grembo.
La ragazza cercò di rivolgergli un sorriso rassicurante, poi inserì la marcia e partì.
“E’ questa la tua macchina?” chiese Sawada, guardandosi intorno dubbioso.
“In realtà l’ha presa a noleggio Mune- ehm, il signor Katagiri e me l’ha gentilmente prestata per stasera”.
“Ah”.
Seguirono alcuni momenti di silenzio imbarazzato. Sembrava di sentire i due cervelli lavorare alacremente alla ricerca di un qualsiasi argomento consono.
“Erano tutti molto felici di rivederti, sai?” disse infine Takeshi.
“Già” sorrise lei ripensando alla calorosa accoglienza che i ragazzi le avevano riservato quella mattina… si era quasi commossa.
Ridendo, ricordarono gli abbracci gioiosi di Taki, Teppei, Takasugi e Izawa, suoi amici fin dalle elementari, l’abbraccio da polpo del solito Soda, le calorose strette di mano di Tsubasa, Misaki, Misugi e Matsuyama. Infine Jito che l’aveva sollevata come un fuscello, scaraventandola nelle braccia di Kojiro, il quale, in un esilarante mix di affetto profondo e imbarazzo, l’aveva afferrata e stretta brevemente fra le braccia. Takeshi si era limitato a salutarla da lontano.
“Finalmente ho conosciuto Aoi” osservò Yasu. “È davvero una sagoma come avevo sentito dire”. Le risate di entrambi riempirono il basso abitacolo della spider, ricordando la buffa performance di Shingo Aoi. All’inizio non aveva neppure notato l’ingresso di Yasu nella palestra: aveva continuato a chiacchierare a macchinetta con Sano, col quale stava facendo l’esercizio. Preso dalla foga del discorso, si era accorto solo con qualche attimo di ritardo che non solo Mitsuru non era più vicino a lui, ma che tutti quanti si erano alzati ed erano andati ad assieparsi verso la porta. “Che succede?” aveva chiesto svagato, “fatemi vedere!” aveva protestato, di fronte al muro di giocatori, quasi tutti più alti di lui. Lesto, come lo era in campo, si era insinuato fra i compagni fino a trovarsi di fronte a Yasu, che lo aveva guardato con un sorriso.
“Tu sei il famoso Shingo Aoi, piacere”.
“Piacere mio” aveva mormorato il ragazzo, arrossendo e accennando un timido inchino. “Tu chi sei?”
“E’ Yasu Wakabayashi, capra” lo aveva rimproverato Nitta con uno scappellotto.
“Ah!!! La sorella di Genzo! Quella che stava con Ken e poi è andata via! Quella che faceva i massaggi!”
Yasu aveva annuito ridendo di gusto, mentre tutti si prendevano il volto fra le mani.

 
Parlando dei vari membri della nazionale, il breve tempo del tragitto verso casa di Ken era trascorso rapidissimo. Scorsero il cancello di casa Wakashimazu e Ken appoggiato al muro.
Vedendo la macchina fermarsi, Ken si avvicinò.
“Ah!” esclamò stupito, vedendoli scendere. “Siete… venuti insieme?”.
“Sì” lo informò Takeshi, “mi ha visto alla fermata del bus e mi ha dato un passaggio”.
“E’ stato gentile da parte tua” sussurrò Ken, carezzando la spalla di Yasu. “Lo sai, sì, che sei uno schianto, con questo vestito?”
La ragazza deglutì: se lei era uno schianto, lui era un dio. Bellissimo in camicia bianca, jeans scuri e scarpe eleganti: il ricordo del loro primo appuntamento le mozzò il respiro.
Mentre lei non riusciva a non fissare il portiere, lo sguardo di lui era passato alla la macchina.
“Gran bel gioiellino, complimenti…”
Yasu stava per rispiegare la storia del noleggio, ma le parole successive di Ken la colpirono come un macigno fra capo e collo.
“…ma in tre non ci stiamo”.
La ragazza non riuscì ad articolare niente, né una protesta, né una domanda, il dialogo che procedeva fra i due calciatori, lo sentiva provenire come da lontano.
“Prenderemo la mia” diceva Ken.
“Ma tu non puoi guidare con quella spalla! E io non ho ancora la patente!”
“Faremo guidare Yasu, se per lei va bene…Eh, piccola?”
“Eh?” si risvegliò lei, sentendosi chiamata in causa.
“Puoi guidare tu la mia macchina?” le ripeté Ken.
“Sì, certo…” balbettò in risposta. “Scusa non sapevo venisse anche lui” disse infine, pentendosi della nota di disprezzo messa su quel pronome, nell’istante stesso in cui lo pronunciava.
“Ma sì” suggerì timidamente Takeshi. “Andate voi due. Avrete tante cose da dirvi e…”
“No” lo interruppe Ken. “Voglio che venga anche tu”.
Sawada cercò gli occhi di Yasu, ma lei li volse con decisione altrove.
Il ristorante scelto da Ken era molto bello, tradizionale, ma arredato con gusto moderno. Aveva riservato una saletta privata dove cameriere precise, silenziose ed eteree come le geishe dei tempi antichi, collocarono con grazia diversi assaggi di cibi per poi lasciare soli gli ospiti, come da essi esplicitamente richiesto.
Yasu, Ken e Takeshi si accomodarono su dei cuscini disposti attorno al tavolo, piluccando assaggi dell’ottimo cibo, accompagnato da una conversazione pacata circa le novità al J-Village, le avventure europee di Yasu e quelle degli altri nei rispettivi club, e innaffiato da una discreta quantità di sakè.
Yasu stava bene: se non ci pensava troppo, le sembrava di essere tornata a scuola. Eppure sentiva anche le parole non dette permeare l’aria, simili a scosse di energia elettrica.
L’alcol e la stanchezza ebbero presto la meglio su Sawada, che si addormentò beato sui cuscini, o almeno così volle lasciare intendere.
Ken e Yasu si scambiarono un’occhiata d’intesa, accompagnata da un sorriso.
“Andiamo a prendere una boccata d’aria?” suggerì il portiere, alzandosi e porgendo la mano a Yasu, che annuì emozionata. Si lasciò condurre, attraverso la portafinestra verso il piccolo e curatissimo giardino, anch’esso, come la saletta, riservato a loro.
Era una notte di tarda primavera, una brezza tiepida e profumata carezzava il viso. Yasu non aveva messo le ciabatte e rabbrividì leggermente sentendo l’erba fresca sotto i piedi, lasciandosi sfuggire un mugolio di piacere.
La mano grande e calda di Ken le avvolgeva ancora le dita. Il suo profilo, la sua voce che raccontava della scorsa stagione in J-league, erano familiari, come le canzoni di un cd ascoltato tante volte che, finita una traccia, inizi a cantare quella successiva ancor prima che parta.
La condusse vicino a un minuscolo laghetto e si sedettero sui grandi ciottoli bianchi che lo delimitavano.
“Cosa volevi dirmi, senza Takeshi?” chiese Ken, dopo qualche attimo di silenzio.
“Ma niente, avevo frainteso le tue intenzioni, ecco… ma infondo hai ragione tu… stare una serata io e te da soli sarebbe stato come riscaldare una minestra che comunque è da buttare…”
“Non è tutto da buttare” intervenne lui, aggrottando le sopracciglia.
Yasu ebbe un attimo di esitazione, in cui credé che Ken l’avesse sentita parlare col padre, ma poi capì che, semplicemente, la pensavano alla stessa maniera.
Come prima succedeva tanto spesso.
Suo malgrado, un sorriso le sbocciò sulle labbra. Allungò una mano a sfiorare il pelo dell’acqua e le ninfee che galleggiavano sopra.
“Io, invece, avrei mille cose da dirti…” proseguì lui, lo sguardo rivolto al laghetto, “non sai quante ne ho pensate in questi mesi… se tenessi un diario come fai tu, avrei scritto una specie di enciclopedia”
“Non lo tengo più, il diario”.
“Uh? Peccato…”
Silenzio.
“E invece tu…” chiese a un tratto Yasu. “Cosa mi volevi dire con Sawada?”
“Volevamo dirti che ci sei mancata tanto e che ti vogliamo bene, e…”
La mano di Yasu si strinse a pugno, ma l’acqua ne fuggì via subito.
“Smettila con questo “noi”, non ha senso…”
“Certo che ha senso.” Il tono era quasi offeso. “Noi siamo…”
“Lo so cosa siete, cazzo!Solo… credevo che stasera fosse per parlare, un’ultima volta, di quello che eravamo tu e io…”
“Yasu…” Ken tentava di controllarsi, ma faceva fatica. “Lo capisci che non c’è più niente da dire? Ti ho fatto male, lo so, e ti chiedo scusa. Ma non l’ho fatto apposta, se avessi potuto te l’avrei risparmiato… Kamisama, Yasu sei la prima e credo sarai l’unica donna che io abbia mai amato. E ti amo ancora, solo non come tu vorresti…”
Yasu si alzò di scatto. Lui stava dicendo esattamente quello che lei sperava: in fondo, la sua più grande paura era di scoprire che la loro storia non fosse stata altro che una menzogna e che lui non l’avesse mai amata come diceva. Ora sapeva che non era vero e una parte di lei, si sentì tanto leggera da pensare che, alzandosi da quel sasso, avrebbe spiccato il volo.
Ma l’altra parte ribolliva di rabbia e voleva vendetta. E fu quest’ultima a spingerle la voce lungo la gola e attraverso i denti serrati.
“Finiscila con queste cazzo di frasi da film, non leniranno mai il male che mi hai fatto! Anche io ti ho amato, ma ora ti odio”.
Gli occhi di Ken, ora rivolti a Yasu, fiammeggiarono.
“Bene. Ti sei fatta migliaia di chilometri per venirmi a dire questo? Allora siamo a posto, no?” ringhiò, alzandosi in piedi.
“Non è tutto. Volevo anche dirti che ho un altro, quindi esci dalla mia vita!” gli sputò contro lei, prossima alle lacrime.
“Consideralo già fatto”. A rapide e grandi falcate il portiere tornò nella stanza, afferrò la propria giacca e raccolse le chiavi che Yasu aveva appoggiate vicino alla borsa. Quindi uscì, quasi di corsa, dal ristorante.
Sawada si alzò di scatto non appena la porta si chiuse, guardò un attimo Yasu, poi si fiondò a sua volta fuori dal ristorante. Il rombo del SUV di Ken risuonò non distante, e si allontanò. Di lì a poco Sawada ricomparve sulla porta, Yasu, intanto, era tornata dentro e adesso stringeva fra le mani tremanti un generoso bicchiere di sakè.
“Non sono riuscito a fermarlo…”
“Lascia perdere, paghiamo e facciamoci chiamare un taxi…” disse lei brusca.
“Tu risolvi tutto così, vero? Paghi e pensi per te… Ken era furioso e un po’ alticcio, senza contare che la spalla gli dà fastidio per guidare, e tu lo lasci andare così?”
Yasu guardò Takeshi, il suo piccolo amico, il più giovane eppure il più saggio, sì, era sempre stato così… eppure… ora era anche uno sconosciuto. Uno sconosciuto che se la faceva col suo ex.
“Cosa credi, che io sia tranquilla?” squittì Yasu, ben decisa a non dargli la ragione che meritava.
“Tu, tu, tu, Yasuko Wakabayashi ti sei mai accorta che ci sono anche gli altri? Che hai messo in pericolo Ken…”
“Ma va, non fare il menagramo…”
“Se gli succede qualcosa, è colpa tua!”
Yasu rispose solo con un gesto stizzito della mano e andò alla cassa per pagare e far chiamare il taxi.
Di lì a poco, la ragazza ricomparve sulla porta della saletta privata.
“C’è il taxi, vuoi un passaggio, Sawada?” disse atona.
Il giovane centrocampista la seguì senza rispondere, mordendosi le unghie col cellulare all’orecchio.
“Non risponde” piagnucolò per l’ennesima volta, una volta nella vettura.
“Ah, può farlo anche per una settimana, te lo dico per esperienza, rassegnati”.
“Ma lo sto chiamando io, mica è arrabbiato con me, è arrabbiato con te!”
Yasu si morse le labbra. Stava per rispondere, quando la vista di un riverbero blu di lampeggianti le fece morire le parole in bocca. Salendo praticamente in braccio a Takeshi, si avvicinò al vetro.
Non c’erano dubbi: la macchina semidistrutta di traverso alla strada era quella di Ken.
“Si fermi” sussurrò, atterrita.
“Prego?” chiese il tassista.
“Si fermi!” gridò Takeshi, catapultandosi fuori dal veicolo ancor prima che si arrestasse completamente.

   
 
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