Eccomi
qua. È passato davvero troppo
tempo dall’ultima volta che ho pubblicato e mi mancava. Ma ho
attraversato un
lungo periodo di mancanza di tempo-voglia-ispirazione che, per fortuna,
adesso
sembra volgere al termine. Ed è dunque venuto il momento di
sistemare alcune
cosette che da tanto, troppo tempo stazionano nel mio hard disk.
Prima
di tutto questa storia. Si
tratta del seguito di “Un’altra
possibilità” anche se in
realtà è nata prima.
Anzi, a voler essere precisi, prima è nata la seconda parte
di questa storia,
poi “UAP” quindi quello che, se vorrete, andrete a
leggere adesso. Non che
questo abbia importanza, era per farvi capire quanto contorto possa
essere il
mio cervello.P
Quello
che –spero- vi interessi è che
Yasu è tornata in Giappone insieme a Katagiri, prima di
tutto per chiarire con
Ken. Ma affrontare il passato non è mai semplice, non
è mai indolore.
Yasu
Wakabayashi\Irene Price è il mio
pg originale per eccellenza che trovate in tutte le storie della serie
“Il
diario di Irene Price genera storie”, sorella
gemella di Genzo e fidanzata di
Ken, con cui ha frequentato
Credo
che con questo possiate godervi
la FF anche senza leggere le altre citate… se poi vi
avrò un po’ incuriosito,
beh, spero che prima o poi ve le andrete a leggere e mi farete sapere
cosa ne
pensate:)
Ma ciancio alle
bande, cominciamo!!!!
PARTE
I, cap. 1
Il
rumore dei tacchi – bassi ma comunque non tacchetti
– sulle pietre del sentiero che portava al
J-Village le fece uno strano
effetto, un brivido le percorse la schiena e forse vacillò
anche leggermente
perché il braccio di Katagiri, discreto, corse a cingerle la
vita, come a
sostenerla. Ma fu solo un attimo: l’uomo la sciolse subito da
quel fugace
abbraccio, non senza poggiarle prima una delicata carezza sulla
schiena. Poi
tornò a camminare al suo fianco, a una distanza che gli
permettesse di esserle
vicino senza, tuttavia, dare adito a sospetti. Yasu gli sorrise
brevemente, poi
la sua attenzione fu attratta da qualcosa. Uno spazio fra la recinzione
e la
struttura in cemento del cancello, lo sapeva, permetteva di vedere il
campo di
allenamento. Dai suoni che giungevano in lontananza, capiva che
c’era
qualcuno. Si avvicinò alla recinzione, rallentando il passo:
dalla sottile
feritoia vedeva tante figurine lontane, apparentemente uguali, ma non
certo ai
suoi occhi. Bastava, infatti, un piccolo particolare per associare a
ognuna uno
dei nomi a lei cari.
Ancora
una volta Katagiri si avvicinò, stavolta le mise le mani
sulle spalle e le
sussurrò: “Wakashimazu non
c’è, puoi smettere di
cercarlo…”.
Yasu
arrossì e abbassò
“Aveva
di nuovo dei fastidi alla spalla e non poteva allenarsi”
spiegò Katagiri, “così
ne ha approfittato per andare qualche giorno a casa, è qui
vicino e…”
“Lo
so” tagliò corto Yasu.
“L’ho
saputo solo stamattina, più tardi se
vuoi…”
“Più
tardi deciderò cosa fare” disse lei, con un
sorriso. “Non ci pensare. Adesso
siamo qui per la riunione, no?” lentamente, staccò
le mani di lui dalle proprie
spalle, carezzandole nel farlo. Sorridendo, gli sistemò
amorevolmente la giacca
e la cravatta, anche se, come al solito, non ce ne sarebbe stato alcun
bisogno.
Varcarono
il cancello e proseguirono lungo il vialetto, fino alla grande vetrata
d’ingresso. La hall era immensa e deserta, come sempre. Sulla
sinistra, un
lungo corridoio portava a varie stanze per riunioni e conferenze
stampa. Sulla
destra, invece, c’erano gli ambulatori e le scale che
conducevano al piano
superiore e alle camere.
Munemasa
la guidò verso una delle sale riunioni. Era come Yasu
“Bene”
disse sbrigativo Munemasa, “credo non ci sia bisogno di
presentazioni…”
Yasu
annuì decisa.
Tatsuo
Mikami spense la sigaretta e chiuse la finestra presso la quale stava
fumando,
non prima di aver rilasciato all’esterno l’ultima
boccata di fumo. Si avvicinò
con un sorriso formale, ma non privo di un certo calore.
“Sì,
io e la signorina ci conosciamo piuttosto bene”.
Allungò un braccio, indeciso
fra una stretta di mano e un abbraccio… alla fine
optò per un’affettuosa pacca
sulla spalla.
“Certo”
aggiunse Minato Gamo, togliendo i piedi dal tavolo e recuperando un
contegno.
Al contrario di Mikami e Katagiri non indossava un completo, ma una
felpa e dei
jeans. “Come scordarsi…”
Intanto
Kozo Kira si era alzato dal divanetto e li aveva raggiunti, scrutandola
con
attenzione, come non si rammentasse. Incredibilmente anche lui era in
giacca e
cravatta.
“Mi
spiace contraddirti e interromperti Gamo, ma io temo di aver
dimentica-” si
interruppe.
“Mi
spezza il cuore così, mister” ridacchiò
lei, “credevo di essere stata la sua
allieva migliore”.
“Yasu? Yasu Wakabayashi?” esclamò Kira,
avvicinandosi per squadrarla meglio. “Dove hai messo la
ranocchietta tutta
gambe?”
“Sotto il tailleur” sussurrò lei,
strizzandogli un
occhio.
“Bene”
intervenne Katagiri col suo solito tono formale, vogliamo
cominciare?”
****
La riunione è
stata piuttosto breve, giusto il
tempo di dividersi i compiti. Con mio grande stupore ho scoperto che il
primo
allenatore della Nazionale è Kozo Kira, mentre Gamo e Mikami
lo coadiuveranno
in qualità rispettivamente di preparatore atletico e
allenatore dei portieri,
ma gireranno anche il Paese alla ricerca
di nuovi talenti. Munemasa ha chiarito che io ero
lì solo in qualità di
sua segretaria, interprete e addetta alle public relation. Tuttavia,
nonostante
io abbia detto esplicitamente di aver interrotto i miei studi di
medicina e
fisioterapia, probabilmente per sempre, mi hanno strappato la promessa
di
sopperire in caso di assenza del medico che si divide fra lì
e l’ospedale.
Beh, lo facevo a sedici anni, non
credo di essermi così rimbambita.
Finita la riunione, ho comunicato a
Munemasa la mia decisione di andare a trovare Ken, ma ho declinato la
sua
offerta di accompagnarmi: un autobus porta quasi direttamente dal
J-Village a
casa Wakashimazu. Lo avevo preso tante volte, quando io e Ken stavamo
insieme:
approfittavamo della vicinanza per goderci qualche scappatella. Sorrido
al
pensiero.
Che strano salirci di nuovo… dopo
essere stata tanti mesi lontana a rimuginare sulla fine della nostra
storia e
sulla scoperta di Ken della propria
omosessualità… chi l’avrebbe mai detto
che
sarebbe stato proprio quel vecchio autobus
“galeotto” a darmi modo, infine, di
rivedere Ken e di chiarire fra noi una volta per tutte?
Un dolore sordo e lacerante si impossessa
del mio cuore non appena salgo sul bus, sono troppo impegnata a
ricordarmi come
si fa a respirare per accorgermi che qualcuno si siede accanto a me.
“Tutto bene?” la voce è gentile e
brusca al contempo, e familiare.
“Sì, Kira-sama” rispondo io, dandomi
un contegno.
“Per quel che vale,” attacca lui dopo
un attimo di silenzio, “mi è dispiaciuto, voglio
dire, te e Ken… sembravate
così…”esita.
“Grazie” sorrido, togliendolo
dall’imbarazzo. “Io, invece,” proseguo e
divago, “sono molto contenta per lei,
CT della Nazionale! Sono sicura che farà un ottimo lavoro. E
l’abito
elegante le dona moltissimo!”
“Eh, eh grazie… diciamo che sto
cercando di migliorarmi… e anche… di bere un
po’ meno”.
“Le farà bene. Dunque, abita ancora a
Meiwa?”.
“Come? Ah, beh, sì” risponde.
“E tu,
dove vai?”
“A trovare Ken, a vedere come sta”.
“Già, quella maledetta spalla continua
a dargli fastidi, eppure stava meglio quando te ne occupavi tu, magari
potresti-”
Scuoto con decisione la testa. “Glielo
ho detto prima, ho chiuso con la medicina e simili e lui lo sa
benissimo cosa dovrebbe fare. Vado a trovare un…
amico” concludo,
con una sicurezza che non provo.
“Scusami
non…”
“Si figuri” sorrido, alzandomi. “La
mia fermata. A presto, Kira-san”.
“Buona serata” mi augura educatamente.
Ma è anche un saluto accorato e sincero, quasi paterno, e
benché dentro di me
pensi “Buona serata un cazzo”, me
lo
tengo per me e mi limito a ringraziarlo.
Scesa dal bus, costringo le mie gambe
a ripercorrere quella strada ben nota, dritto fino al tempio e poi a
sinistra,
lungo il fiume, fino a una casetta solitaria con annesso dojo di
Karate. Mi
soffermo un attimo sull’altro lato della strada e scorgo, sulla porta del
dojo, alcuni ragazzi
che, finita la lezione, si congedano con un inchino. Intravedo
Wakashimazu-sama:
l’istinto
è di nascondermi, perché a lui
non sono mai andata a genio, ma lo vedo rientrare in palestra e,
quindi, punto
dritto verso il cancello d’ingresso della casa. Il giardino
è curatissimo e
colorato, i fiori della signora Wakashimazu sono sempre bellissimi.
Quando, finalmente, trovo il coraggio
di suonare, è lei che viene ad aprirmi. È sempre
vestita con abiti
tradizionali, anche in casa. Ha qualche ruga in più, ma lo
stesso sorriso dolce
e materno. E gli occhi Ken.
“Buonasera, desidera?”chiede cortese,
affacciandosi alla porta.
“Signora sono…”
“Kamisama” esclama, affrettandosi
lungo il vialetto e spalancando il cancello. Evidentemente il mio
aspetto è
cambiato, ma la voce no. Esita un attimo, poi mi abbraccia.
“Bambina mia” mormora, stringendomi a
sé. Profuma di zenzero e rosa. Sono così
emozionata che ho voglia di piangere.
“Yasuko, tesoro, come stai?...
(…ebbene sì, può chiamarmi col nome
per intero senza farmi incazzare, è così dolce,
detto da lei)
“…Sei… diversa… i
capelli…”
(sì, lo so, sono ingrassata e ho i
capelli in fase di ricrescita e siccome, al contrario di praticamente tutte le mie
connazionali, li ho
mossi, stanno malissimo.)
“… Ken mi ha detto che sei stata in
Europa… sei stata dai tuoi genitori? Chissà la
tua mamma com’era contenta di
averti con sé!”
(...Uhhh, non sa quanto…)
“… A me sei mancata tanto…”
(…anche a me…)
“… Ma, ti prego entriamo in casa, ti
faccio del tè”
(…ebbene sì, se lo fa lei,
La vedo sollevarsi in punta di piedi
per raggiungere il prezioso servito da tè che tiene in una
vetrinetta, perché
la mamma di Ken, a differenza di lui, è bassina.
“Non si incomodi, la prego… le tazze di sempre
andranno bene”.
“Uh quelle… me ne sono rimaste sì e no
tre, quella peste di Haruki le ha rotte tutte”
Il nipotino di Ken. Ricordo quando
nacque… sarà grande ora.
“… e poi voglio usare queste tazze
qua, nessuna occasione è più speciale della mia
bambina che torna a farmi
visita…”. Mi porge un vassoio con quattro tazze.
“Ci sistemiamo in giardino,
che dici? È una così bella
giornata…”
Annuisco, prendo il vassoio e lo porto
sul tavolino fuori, mentre lei prepara il tè in cucina.
L’aria è tiepida e
profumata. Dovrei sedermi ad aspettare, ma proprio non ci riesco e mi
metto a
gironzolare per il giardino. Quando mi volto verso la palestra, lui
è lì.
Occhi chiusi e gesti lenti…-
il ricordo della prima volta che lo vidi
allenarsi, nel giardino di casa mia, mi colpisce, diretto allo stomaco
come un
Kamisori shot quando Soda non è esattamente in vena di
cortesie. Come allora,
mi sembra la danza più bella del mondo, che ha dentro
l’essenza stessa di Ken,
la sua forza, la sua fragilità.
Sono sicura di non aver fatto il
minimo rumore, eppure lui si volta di scatto e guarda nella mia
direzione.
Troppo lontani per discernerli, sento tuttavia la carezza dei suoi
occhi neri
su di me. Scompare
oltre la porta della
stanza per riapparire nel vano dell‘ingresso principale e
corrermi incontro, in
keikoji e a piedi nudi. Si sofferma un attimo guardandomi, incredulo,
come
fossi un fantasma, poi mi abbraccia. Mi stringe forte ma…
è un abbraccio, come
dire… rigido: la sua guancia non si appoggia sui miei
capelli, le sue mani non
mi carezzano la schiena, la mia testa non si rifugia, come al solito,
nell’incavo
della sua clavicola, ma resta immobile e rigida, come il resto del mio
corpo e
del suo, come il mio sguardo, ancora fisso sulla finestra ora vuota.
“Do… dovresti stare a riposo” mormoro,
mentre quello strano abbraccio si scioglie. Quando sono nervosa, mi
vengono
sempre in mente le cose più inutili.
“Sì, mister”risponde lui, con un mezzo sorriso.
“Sapendo che eri a migliaia di chilometri, pensavo di farla
franca”. Il tono
era un misto di rimprovero e ironia, la voce vibrava di emozione.
“E invece sono
qui”. Lapalissiano.
“Sono arrivata ieri e resto per tutto il tempo del ritiro,
intanto. Poi
vedremo”.
“Riprendi la tua posizione al
J-Village?”
“Non proprio, mi occuperò di altro”.
“Yasu, lo so, dobbiamo parlare, ma
questo non è il momento più
adatto…”si affretta a sussurrare.
“No, e comunque sono venuta in autobus
e fra un’oretta devo tornare al
J-Village…”
“Che ne dici di cenare insieme domani
sera? Magari poi ti fermi qui a dormire…”
“No, vengo in auto e passo a
prenderti”.
“Perfetto e…” esita, “Yasu ti
prego
di… coi miei insomma… mio padre non
sa…”.
“Capito”
Avrei giurato di non poterci riuscire,
eppure ho mantenuto, durante il tè, un perfetto
autocontrollo, rispondendo
educatamente alle domande circa il mio soggiorno in Europa, grata che
il
discorso si mantenesse su quell’argomento, cercando di
ignorare lo sguardo
della signora che passava da Ken a me e viceversa e il sorriso che lo
accompagnava. Ed evitando gli occhi severi del padre, che ci aveva
raggiunto
dopo un po’ e sorseggiava il tè in disparte, senza
prendere parte alla
conversazione, guardandoci con un sopracciglio inarcato. Dopo circa
un’ora, mi
sono alzata, spiegando che avevo l’autobus, ho salutato tutti
e confermato
l’appuntamento con Ken per le 19 di domani, quindi mi sono
avviata verso la
fermata dell’autobus.
Con mio grande stupore, vengo
raggiunta dal padre di Ken.
“Wakabayashi” mi chiama “solo un
momento”.
Mi volto, curiosa: “Cosa succede?”
“Io…” È la prima volta che
sento
incertezza nella sua voce. Forse è anche la prima volta che
lo guardo bene in
volto, mi viene da sorridere perché la piega della bocca
è esattamente quella
di Ken quando deve dire qualcosa che non vuole tipo “Mi
dispiace”, “Ho
sbagliato”, “Ho preso X goal”.
Raddrizza la schiena, recuperando la
sua solita espressione decisa e severa.
“Io credo di doverti chiedere scusa.
Ho sempre osteggiato la vostra relazione, ho detto mille volte a Ken
che non
eri la persona giusta per lui, solo perché io volevo per lui qualcosa di diverso…
proprio come quando volevo che
lasciasse il calcio per il karate. Perdona la mia schiettezza, ma non
ti
nascondo che sono stato felice quando ho saputo che vi eravate
lasciati. Ma poi
ho saputo che tu te ne eri andata, e ho visto Ken rinchiudersi in se
stesso,
l’ho visto nervoso e triste… e ho capito che mi
sbagliavo… e sono contento che
sei tornata e ti prometto che non mi metterò più
in mezzo. Non commetterò una
terza volta l’errore di impedire a mio figlio di seguire il
suo cuore…”.
Ho vacillato, credo.
Io, che ho sempre
(troppe) parole per tutto, non so descrivere appieno la sensazione che
mi ha
dato vedere quell’omone severo, forte e fiero, contorcersi
quelle mani che
potrebbero uccidere e accennare un inchino, scusandosi umilmente.
L’autobus
stava arrivando, costringendomi a rispondere immediatamente, ma dandomi
altresì
la possibilità di scomparire subito dopo.
“Wakashimazu-san”
ho detto,
sfiorandogli un braccio. “Non si deve scusare né
tantomeno sentire in colpa.
Quel che è accaduto non è assolutamente colpa
sua…anzi… aveva ragione lei…
probabilmente è stato l’unico che ci ha visto
giusto fin dal principio… Io
davvero non sono la persona giusta per Ken… alla fine lo
abbiamo capito anche
noi. Se sono tornata è solo perché avevamo
reagito troppo male e per recuperare
un rapporto, quantomeno di amicizia… Perché non
è tutto da buttare, ecco”.
L’ho
detto tutto d’un fiato, poi con
un inchino, sono scappata a nascondermi sull’autobus.
Sprofondata in un sedile,
in fondo all’abitacolo provvidenzialmente deserto ho pianto,
pianto, pianto.