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Autore: berlinene    06/05/2011    2 recensioni
Il seguito di "Un'altra possibilità"(ma non è fondamentale averla letta!): Yasu torna in Giappone come suggeritole da Katagiri per chiarire con Ken, ma affrontare il passato non è mai indolore e non sempre le cose vanno come si vorrebbe...
Prosegue e si conclude questo "E se" del Diario...
Genere: Drammatico, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Shonen-ai | Personaggi: Altri, Danny Mellow/Takeshi Sawada, Ed Warner/Ken Wakashimazu, Nuovo personaggio
Note: What if? | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Il Diario di Irene Price genera storie'
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Eccomi qua. È passato davvero troppo tempo dall’ultima volta che ho pubblicato e mi mancava. Ma ho attraversato un lungo periodo di mancanza di tempo-voglia-ispirazione che, per fortuna, adesso sembra volgere al termine. Ed è dunque venuto il momento di sistemare alcune cosette che da tanto, troppo tempo stazionano nel mio hard disk.

Prima di tutto questa storia. Si tratta del seguito di “Un’altra possibilità” anche se in realtà è nata prima. Anzi, a voler essere precisi, prima è nata la seconda parte di questa storia, poi “UAP” quindi quello che, se vorrete, andrete a leggere adesso. Non che questo abbia importanza, era per farvi capire quanto contorto possa essere il mio cervello.P

Quello che –spero- vi interessi è che Yasu è tornata in Giappone insieme a Katagiri, prima di tutto per chiarire con Ken. Ma affrontare il passato non è mai semplice, non è mai indolore.

Yasu Wakabayashi\Irene Price è il mio pg originale per eccellenza che trovate in tutte le storie della serie “Il diario di Irene Price genera storie”, sorella gemella di Genzo e fidanzata di Ken, con cui ha frequentato la Toho. In questa miniserie formata essenzialmente da “Un’altra possibilità” e dalla FF che segue, Ken però ha… ehm… cambiato sponda e lei, durante un soggiorno in Inghilterra, si è molto avvicinata a Katagiri…

Credo che con questo possiate godervi la FF anche senza leggere le altre citate… se poi vi avrò un po’ incuriosito, beh, spero che prima o poi ve le andrete a leggere e mi farete sapere cosa ne pensate:)

Ma ciancio alle bande, cominciamo!!!!

 

PARTE I, cap. 1

Il rumore dei tacchi – bassi ma comunque non tacchetti – sulle pietre del sentiero che portava al J-Village le fece uno strano effetto, un brivido le percorse la schiena e forse vacillò anche leggermente perché il braccio di Katagiri, discreto, corse a cingerle la vita, come a sostenerla. Ma fu solo un attimo: l’uomo la sciolse subito da quel fugace abbraccio, non senza poggiarle prima una delicata carezza sulla schiena. Poi tornò a camminare al suo fianco, a una distanza che gli permettesse di esserle vicino senza, tuttavia, dare adito a sospetti. Yasu gli sorrise brevemente, poi la sua attenzione fu attratta da qualcosa. Uno spazio fra la recinzione e la struttura in cemento del cancello, lo sapeva, permetteva di vedere il campo di allenamento. Dai suoni che giungevano in lontananza, capiva che c’era qualcuno. Si avvicinò alla recinzione, rallentando il passo: dalla sottile feritoia vedeva tante figurine lontane, apparentemente uguali, ma non certo ai suoi occhi. Bastava, infatti, un piccolo particolare per associare a ognuna uno dei nomi a lei cari.
Ancora una volta Katagiri si avvicinò, stavolta le mise le mani sulle spalle e le sussurrò: “Wakashimazu non c’è, puoi smettere di cercarlo…”.
Yasu arrossì e abbassò la testa. Poi si guardò attorno, ma, naturalmente, non c’era nessuno in vista, altrimenti Munemasa non l’avrebbe toccata così. Chiuse gli occhi, assaporando quel contatto… solo pochi giorni prima, a Parigi, non se ne sarebbe neppure accorta, ma ora, lì, in Giappone, davanti al cancello del J-Village, le cose stavano diversamente.
“Aveva di nuovo dei fastidi alla spalla e non poteva allenarsi” spiegò Katagiri, “così ne ha approfittato per andare qualche giorno a casa, è qui vicino e…”
“Lo so” tagliò corto Yasu.
“L’ho saputo solo stamattina, più tardi se vuoi…”
“Più tardi deciderò cosa fare” disse lei, con un sorriso. “Non ci pensare. Adesso siamo qui per la riunione, no?” lentamente, staccò le mani di lui dalle proprie spalle, carezzandole nel farlo. Sorridendo, gli sistemò amorevolmente la giacca e la cravatta, anche se, come al solito, non ce ne sarebbe stato alcun bisogno.
Varcarono il cancello e proseguirono lungo il vialetto, fino alla grande vetrata d’ingresso. La hall era immensa e deserta, come sempre. Sulla sinistra, un lungo corridoio portava a varie stanze per riunioni e conferenze stampa. Sulla destra, invece, c’erano gli ambulatori e le scale che conducevano al piano superiore e alle camere. 
Munemasa la guidò verso una delle sale riunioni. Era come Yasu la ricordava. Spaziosa, arredata in modo spartano: giusto un lungo tavolo circondato da sedie nel centro e dei divanetti sulle pareti di fondo. Una serie di grandi finestre sul muro opposto alla porta illuminava l’ambiente. Il riverbero del sole esterno l’abbagliò un attimo e le occorse qualche secondo per distinguere le persone che occupavano la stanza.
“Bene” disse sbrigativo Munemasa, “credo non ci sia bisogno di presentazioni…”
Yasu annuì decisa.
Tatsuo Mikami spense la sigaretta e chiuse la finestra presso la quale stava fumando, non prima di aver rilasciato all’esterno l’ultima boccata di fumo. Si avvicinò con un sorriso formale, ma non privo di un certo calore.
“Sì, io e la signorina ci conosciamo piuttosto bene”. Allungò un braccio, indeciso fra una stretta di mano e un abbraccio… alla fine optò per un’affettuosa pacca sulla spalla.
“Certo” aggiunse Minato Gamo, togliendo i piedi dal tavolo e recuperando un contegno. Al contrario di Mikami e Katagiri non indossava un completo, ma una felpa e dei jeans. “Come scordarsi…”
Intanto Kozo Kira si era alzato dal divanetto e li aveva raggiunti, scrutandola con attenzione, come non si rammentasse. Incredibilmente anche lui era in giacca e cravatta.
“Mi spiace contraddirti e interromperti Gamo, ma io temo di aver dimentica-” si interruppe.
“Mi spezza il cuore così, mister” ridacchiò lei, “credevo di essere stata la sua allieva migliore”.
“Yasu? Yasu Wakabayashi?” esclamò Kira, avvicinandosi per squadrarla meglio. “Dove hai messo la ranocchietta tutta gambe?”
“Sotto il tailleur” sussurrò lei, strizzandogli un occhio.
“Bene” intervenne Katagiri col suo solito tono formale, vogliamo cominciare?”

****

 La riunione è stata piuttosto breve, giusto il tempo di dividersi i compiti. Con mio grande stupore ho scoperto che il primo allenatore della Nazionale è Kozo Kira, mentre Gamo e Mikami lo coadiuveranno in qualità rispettivamente di preparatore atletico e allenatore dei portieri, ma gireranno anche il Paese alla ricerca  di nuovi talenti. Munemasa ha chiarito che io ero lì solo in qualità di sua segretaria, interprete e addetta alle public relation. Tuttavia, nonostante io abbia detto esplicitamente di aver interrotto i miei studi di medicina e fisioterapia, probabilmente per sempre, mi hanno strappato la promessa di sopperire in caso di assenza del medico che si divide fra lì e l’ospedale.
Beh, lo facevo a sedici anni, non credo di essermi così rimbambita.
Finita la riunione, ho comunicato a Munemasa la mia decisione di andare a trovare Ken, ma ho declinato la sua offerta di accompagnarmi: un autobus porta quasi direttamente dal J-Village a casa Wakashimazu. Lo avevo preso tante volte, quando io e Ken stavamo insieme: approfittavamo della vicinanza per goderci qualche scappatella. Sorrido al pensiero.
Che strano salirci di nuovo… dopo essere stata tanti mesi lontana a rimuginare sulla fine della nostra storia e sulla scoperta di Ken della propria omosessualità… chi l’avrebbe mai detto che sarebbe stato proprio quel vecchio autobus “galeotto” a darmi modo, infine, di rivedere Ken e di chiarire fra noi una volta per tutte?
Un dolore sordo e lacerante si impossessa del mio cuore non appena salgo sul bus, sono troppo impegnata a ricordarmi come si fa a respirare per accorgermi che qualcuno si siede accanto a me.
“Tutto bene?” la voce è gentile e brusca al contempo, e familiare.
“Sì, Kira-sama” rispondo io, dandomi un contegno.
“Per quel che vale,” attacca lui dopo un attimo di silenzio, “mi è dispiaciuto, voglio dire, te e Ken… sembravate così…”esita.
“Grazie” sorrido, togliendolo dall’imbarazzo. “Io, invece,” proseguo e divago, “sono molto contenta per lei, CT della Nazionale! Sono sicura che farà un ottimo lavoro. E  l’abito elegante le dona moltissimo!”
“Eh, eh grazie… diciamo che sto cercando di migliorarmi… e anche… di bere un po’ meno”.
“Le farà bene. Dunque, abita ancora a Meiwa?”.
“Come? Ah, beh, sì” risponde. “E tu, dove vai?”
“A trovare Ken, a vedere come sta”.
“Già, quella maledetta spalla continua a dargli fastidi, eppure stava meglio quando te ne occupavi tu, magari potresti-”
Scuoto con decisione la testa. “Glielo ho detto prima, ho chiuso con la medicina e simili e lui lo sa benissimo cosa
dovrebbe fare. Vado a trovare un… amico” concludo, con una sicurezza che non provo.
“Scusami non…”
“Si figuri” sorrido, alzandomi. “La mia fermata. A presto, Kira-san”.
“Buona serata” mi augura educatamente. Ma è anche un saluto accorato e sincero, quasi paterno, e benché dentro di me pensi “Buona serata un cazzo”,  me lo tengo per me e mi limito a ringraziarlo.
Scesa dal bus, costringo le mie gambe a ripercorrere quella strada ben nota, dritto fino al tempio e poi a sinistra, lungo il fiume, fino a una casetta solitaria con annesso dojo di Karate. Mi soffermo un attimo sull’altro lato della strada e  scorgo, sulla porta del dojo, alcuni ragazzi che, finita la lezione, si congedano con un inchino. Intravedo Wakashimazu-sama:  l’istinto è di nascondermi, perché a lui non sono mai andata a genio, ma lo vedo rientrare in palestra e, quindi, punto dritto verso il cancello d’ingresso della casa. Il giardino è curatissimo e colorato, i fiori della signora Wakashimazu sono sempre bellissimi.
Quando, finalmente, trovo il coraggio di suonare, è lei che viene ad aprirmi. È sempre vestita con abiti tradizionali, anche in casa. Ha qualche ruga in più, ma lo stesso sorriso dolce e materno. E gli occhi Ken.
“Buonasera, desidera?”chiede cortese, affacciandosi alla porta.
“Signora sono…”
“Kamisama” esclama, affrettandosi lungo il vialetto e spalancando il cancello. Evidentemente il mio aspetto è cambiato, ma la voce no. Esita un attimo, poi mi abbraccia.
“Bambina mia” mormora, stringendomi a sé. Profuma di zenzero e rosa. Sono così emozionata che ho voglia di piangere.
“Yasuko, tesoro, come stai?...
(…ebbene sì, può chiamarmi col nome per intero senza farmi incazzare, è così dolce, detto da lei)
“…Sei… diversa… i capelli…”
(sì, lo so, sono ingrassata e ho i capelli in fase di ricrescita e siccome, al contrario di  praticamente tutte le mie connazionali, li ho mossi, stanno malissimo.)
“… Ken mi ha detto che sei stata in Europa… sei stata dai tuoi genitori? Chissà la tua mamma com’era contenta di averti con sé!”
(...Uhhh, non sa quanto…)
“… A me sei mancata tanto…”
(…anche a me…)
“… Ma, ti prego entriamo in casa, ti faccio del tè”
(…ebbene sì, se lo fa lei, la Mamma delle Mamme, io bevo pure il tè giapponese.)

La casa di Ken sa di buono, c’è sempre una pentola sul fuoco in cui qualcosa sobbolle, un odore sempre diverso e sempre delizioso.
La vedo sollevarsi in punta di piedi per raggiungere il prezioso servito da tè che tiene in una vetrinetta, perché la mamma di Ken, a differenza di lui, è bassina.
“Non si incomodi, la prego… le tazze di sempre andranno bene”.
“Uh quelle… me ne sono rimaste sì e no tre, quella peste di Haruki le ha rotte tutte”
Il nipotino di Ken. Ricordo quando nacque… sarà grande ora.
“… e poi voglio usare queste tazze qua, nessuna occasione è più speciale della mia bambina che torna a farmi visita…”. Mi porge un vassoio con quattro tazze. “Ci sistemiamo in giardino, che dici? È una così bella giornata…”
Annuisco, prendo il vassoio e lo porto sul tavolino fuori, mentre lei prepara il tè in cucina. L’aria è tiepida e profumata. Dovrei sedermi ad aspettare, ma proprio non ci riesco e mi metto a gironzolare per il giardino. Quando mi volto verso la palestra, lui è lì.
Occhi chiusi e gesti lenti…-  il ricordo della prima volta che lo vidi allenarsi, nel giardino di casa mia, mi colpisce, diretto allo stomaco come un Kamisori shot quando Soda non è esattamente in vena di cortesie. Come allora, mi sembra la danza più bella del mondo, che ha dentro l’essenza stessa di Ken, la sua forza, la sua fragilità.
Sono sicura di non aver fatto il minimo rumore, eppure lui si volta di scatto e guarda nella mia direzione. Troppo lontani per discernerli, sento tuttavia la carezza dei suoi occhi neri su di me.  Scompare oltre la porta della stanza per riapparire nel vano dell‘ingresso principale e corrermi incontro, in keikoji e a piedi nudi. Si sofferma un attimo guardandomi, incredulo, come fossi un fantasma, poi mi abbraccia. Mi stringe forte ma… è un abbraccio, come dire… rigido: la sua guancia non si appoggia sui miei capelli, le sue mani non mi carezzano la schiena, la mia testa non si rifugia, come al solito, nell’incavo della sua clavicola, ma resta immobile e rigida, come il resto del mio corpo e del suo, come il mio sguardo, ancora fisso sulla finestra ora vuota.
“Do… dovresti stare a riposo” mormoro, mentre quello strano abbraccio si scioglie. Quando sono nervosa, mi vengono sempre in mente le cose più inutili.
“Sì,
mister”risponde lui, con un mezzo sorriso. “Sapendo che eri a migliaia di chilometri, pensavo di farla franca”. Il tono era un misto di rimprovero e ironia, la voce vibrava di emozione.
“E invece sono qui”. Lapalissiano. “Sono arrivata ieri e resto per tutto il tempo del ritiro, intanto. Poi vedremo”.
“Riprendi la tua posizione al J-Village?”
“Non proprio, mi occuperò di altro”.

La signora Wakashimazu ci chiama per il tè.
“Yasu, lo so, dobbiamo parlare, ma questo non è il momento più adatto…”si affretta a sussurrare.
“No, e comunque sono venuta in autobus e fra un’oretta devo tornare al J-Village…”
“Che ne dici di cenare insieme domani sera? Magari poi ti fermi qui a dormire…”
“No, vengo in auto e passo a prenderti”.
“Perfetto e…” esita, “Yasu ti prego di… coi miei insomma… mio padre non sa…”.
“Capito”
Avrei giurato di non poterci riuscire, eppure ho mantenuto, durante il tè, un perfetto autocontrollo, rispondendo educatamente alle domande circa il mio soggiorno in Europa, grata che il discorso si mantenesse su quell’argomento, cercando di ignorare lo sguardo della signora che passava da Ken a me e viceversa e il sorriso che lo accompagnava. Ed evitando gli occhi severi del padre, che ci aveva raggiunto dopo un po’ e sorseggiava il tè in disparte, senza prendere parte alla conversazione, guardandoci con un sopracciglio inarcato. Dopo circa un’ora, mi sono alzata, spiegando che avevo l’autobus, ho salutato tutti e confermato l’appuntamento con Ken per le 19 di domani, quindi mi sono avviata verso la fermata dell’autobus.
Con mio grande stupore, vengo raggiunta dal padre di Ken.
“Wakabayashi” mi chiama “solo un momento”.
Mi volto, curiosa: “Cosa succede?”
“Io…” È la prima volta che sento incertezza nella sua voce. Forse è anche la prima volta che lo guardo bene in volto, mi viene da sorridere perché la piega della bocca è esattamente quella di Ken quando deve dire qualcosa che non vuole tipo “Mi dispiace”, “Ho sbagliato”, “Ho preso X goal”.
Raddrizza la schiena, recuperando la sua solita espressione decisa e severa.
“Io credo di doverti chiedere scusa. Ho sempre osteggiato la vostra relazione, ho detto mille volte a Ken che non eri la persona giusta per lui, solo perché
io volevo per lui qualcosa di diverso… proprio come quando volevo che lasciasse il calcio per il karate. Perdona la mia schiettezza, ma non ti nascondo che sono stato felice quando ho saputo che vi eravate lasciati. Ma poi ho saputo che tu te ne eri andata, e ho visto Ken rinchiudersi in se stesso, l’ho visto nervoso e triste… e ho capito che mi sbagliavo… e sono contento che sei tornata e ti prometto che non mi metterò più in mezzo. Non commetterò una terza volta l’errore di impedire a mio figlio di seguire il suo cuore…”.
Ho vacillato, credo. Io, che ho sempre (troppe) parole per tutto, non so descrivere appieno la sensazione che mi ha dato vedere quell’omone severo, forte e fiero, contorcersi quelle mani che potrebbero uccidere e accennare un inchino, scusandosi umilmente. L’autobus stava arrivando, costringendomi a rispondere immediatamente, ma dandomi altresì la possibilità di scomparire subito dopo.
“Wakashimazu-san” ho detto, sfiorandogli un braccio. “Non si deve scusare né tantomeno sentire in colpa. Quel che è accaduto non è assolutamente colpa sua…anzi… aveva ragione lei… probabilmente è stato l’unico che ci ha visto giusto fin dal principio… Io davvero non sono la persona giusta per Ken… alla fine lo abbiamo capito anche noi. Se sono tornata è solo perché avevamo reagito troppo male e per recuperare un rapporto, quantomeno di amicizia… Perché non è tutto da buttare, ecco”.
L’ho detto tutto d’un fiato, poi con un inchino, sono scappata a nascondermi sull’autobus. Sprofondata in un sedile, in fondo all’abitacolo provvidenzialmente deserto ho pianto, pianto, pianto.

 

 

 

 

 

   
 
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