Capitolo 10
Night in white satin
soundtrack
Mi
ritrovai faccia a faccia con quel che restava di me stesso.
Il
punto era che quella poltiglia che era la mia faccia, era solo la minima parte
di ciò che era stato distrutto.
Il
resto se ne stava tutto dentro, a macerare ed infettare come carcasse e a
ferire come tanti pungoli arrugginiti. Ritrovarmi quel riflesso, di fronte allo
specchio, costituiva davvero il male minore.
Probabilmente
avrei dovuto fornire spiegazioni qua e là, certamente per strada sarei stato
l’oggetto di sguardi inquisitori e maligni, ma solo io potevo sapere la pena
che quei graffi e quei lividi si portavano dietro, il ricordo scottante della
mia colpa, marchiato in ogni eventuale cicatrice.
Per
quanto avessi evitato qualsiasi consumazione in quel locale, sentivo i miei
abiti pregni di quell’odore nauseante di alcol, grasso e fumo, e ristagnava
ancora nelle mie narici, come nella memoria, l’essenza acre e irritante del
vecchio che avevo assalito: sapeva di profumo scaduto e medicinali; non capivo
come le potesse accettare di piegarsi a quelle nefandezze.
Forse
era vero che non capivo le donne, ma quello andava al di là di ciò che
qualsiasi ragazza avrebbe fatto normalmente. Era come suicidarsi, come guardare
in faccia il boia durante la propria esecuzione.
Buttai
via camicia e maglietta, insanguinate e lorde, ormai inutilizzabili, riuscendo
a salvare almeno i jeans.
Avrei
dovuto fare dello shopping per rinfoltire il mio guardaroba. Sperai dunque di
non dover essere costretto a regalare i miei già pochi risparmi all’ospedale
per farmi visitare e medicare.
Mi
osservai scrupolosamente, esaminando ogni centimetro di pelle e, con mio enorme
sollievo, a parte qualche livido sul costato ed un’escoriazione sul palmo delle
mani, era solo la mia faccia a sembrare un campo di battaglia.
Lavai
via la polvere ed il sangue che era colato lungo le tempie che, seccandosi, si
era annerito e raggrumato, e disinfettai al meglio le ferite ancora leggermente
aperte. Purtroppo a nulla servirono i
miei sforzi di fronte ad un occhio, rosso ancora per poco, pronto a diventare
nero, e ad uno zigomo gonfio.
Felpa
e pantaloni della tuta, visto che il pigiama non è esattamente tra i miei
indumenti preferiti, me ne andai nella zona giorno a stendermi un po’ sul
divano. Sonno non ne avevo, l’adrenalina e la tensione per quanto accaduto
erano ancora in circolo. Per fortuna Aidan non sarebbe stato nei paraggi almeno
fino al mattino successivo, quando sarebbe tornato completamente fatto o, nella
migliore delle ipotesi, su di giri; ed, anche in quel caso, avrei avuto poche
occasioni di dialogo o scontro.
Accesi
il vecchio mangiadischi di Michael ed avvicinai a me un bicchiere ed una
bottiglia di rhum, uno bello tosto.
Ma
non stavo tranquillo neanche a bere e a sentire musica.
La
bocca amara dal sangue contrastava il calore del liquore e me lo rendeva
imbevibile, cosicché neanche il mio umore non riusciva ad addolcirsi.
Il
pensiero correva sempre a quanto accaduto solo un’ora prima e a quanto in meno
di venti minuti, avevo buttato al vento e fatto volare via.
In
più, cosa ancora più emeritamente cogliona, l’avevo messa in pericolo da me,
con quelle stesse mani che erano ancora doloranti per i pugni tirati all’aria,
nel vano tentativo di difendermi.
E
sembrava essere contro di me anche il vecchio vinile che girava sul piatto. Mi
parlava di lei ovviamente. Ma, d’altronde, probabilmente lo avrebbe fatto
qualsiasi altro trentatré giri avessi preso.
Mio
fratello ed i suoi gusti musicali … se non erano depressi e malinconici come
lui non gli piacevano. Diceva che così esorcizzava il malumore: si è visto poi
come lo ha esorcizzato bene …
Mi
chiesi se mai avrei la possibilità di rivederla, se mi avrebbe accettato di
nuovo nella sua vita e se avrebbe permesso a se stessa di fidarsi di me,
ancora.
Odiavo
lei per arrendersi ad una vita scritta per lei con la forza, da qualcuno che
solo con il terrore deteneva il potere; ma odiavo forse più me stesso per
essermi assimilato a quella politica, per aver pensato che i miei metodi
valessero anche per lei. Anche se con metri diversi, non mi ero comportato
tanto diversamente da chi la forzava a rimanere in quel locale; con la scusa
del sentimento buono e giusto, la stavo trascinando a forza in qualcosa che,
evidentemente, non voleva.
Ma
forse era anche arrivato il tempo di non pensarci più e smetterla di farsi così
male.
Just what you want to be
You‘ll be in the end
Quello che avrebbe voluto essere, ciò
che avrebbe voluto fare, sarebbe toccato solo a lei deciderlo. Io non avrei più
interferito; l’avrei aspettata, in silenzio. E se avessi fatto parte di ciò che
avrebbe voluto … beh, non avrei potuto che esserne felice. Ma sino a quel
momento, me ne sarei stato in disparte, perché era solo sua la vita e doveva
riprenderne il pieno controllo, come io, duramente e neanche totalmente, ero
riuscito a fare, anche un po’ grazie a lei.
And I love you
Yes I love you
Cazzo
sì se ti amo, e mi sembra di amarti sempre di più ogni secondo che passa, quasi
che l’averlo detto ad alta voce sia servito anche a me per realizzarlo
pianamente. In fondo, quindi ti ho anche mentito. Non mi sto innamorando …
perché sono completamente pieno di te, è inutile mentirsi, uno spreco di
energie e parole vane. Come del resto era inutile stare lì a dire che non avrei
fatto nulla finché non fossi stata tu a presentarti alla mia porta: alla prima
occasione avrei strisciato ai tuoi piedi, avrei persino scommesso contro me
stesso, tanto ero sicuro che alla fine lo avrei fatto.
Ma
perché sono nato così cazzone?! Possibile che non mi sia rimasto un briciolo di
puro orgoglio maschile?! Guarda come mi hai ridotto Allison!
Sentivo
il brusio del giradischi e della puntina che scorrendo sul disco strideva e a
volte stentava nell’avanzare, quel leggero soffio nella traccia che ti
ricordava del tempo che era trascorso da quando il disco era stato inciso; mi
sentivo avvolto da un’aura retrò, sospeso tra i ‘Sessanta delle rivolte e i
‘Settanta un po’ in bilico tra il passato ed il futuro: vivere una vita
sospesi, non male come ipotesi. Ma poi ricordai che in fondo era quello che
avevo fatto per quasi un anno e, per quanto facessero male i fatti di quella
notte, non si poteva dire che da quando avevo incontrato Allison la mia vita
fosse la stessa di prima; ero vivo, pieno di aspettative ed obiettivi,
sentimenti e passioni. Sopravvivere in anestesia dal mondo non è poi dunque
quella gran cosa.
Mi
accorsi di non aver acceso nemmeno una sigaretta da quando era rientrato in
casa e la cosa sembrava scivolarmi via tranquillamente; spensi distrattamente
il giradischi e mi misi a letto, sperando che la notte potesse portarmi
consigli migliori del giorno.
Fui
svegliato da ripetuti colpi, leggeri eppure decisi, alla porta di casa.
Mi
girai sul fianco, dando le spalle al resto della casa, aspettando che Aidan la
smettesse di martellare su quella maledetta porta. Era andato in bianco anche
questa volta … possibile che fosse così imbranato? Forse non ero fortunato
nelle storie d’amore, ma portare al letto una ragazza non era mai stato un
problema. Si era ripresentato a casa con un due di picche e senza chiavi: una
nottata all’addiaccio sul pianerottolo non gli avrebbe fatto male.
Quando
sembrava che ormai avesse deciso di smetterla, provai, ancora sghignazzando, a
coprirmi sotto il piumone e a chiudere gli occhi. Ma niente da fare, il
coglione riprese a battere sulla porta, ancora più insistentemente di prima. Fui
costretto ad alzarmi, a prendermi tutto il freddo che quella notte aveva
sfoderato e a far gelare il letto, solo per alzarmi e chiudere la porta della
mia stanza. “Tanto non ti apro, è inutile che sbatti!!!”
Eppure
c’era qualcosa di strano: solitamente, nonostante fossimo in piena notte, Aidan
avrebbe blaterato ed imprecato urlando come se fosse stato pieno giorno, e nel
palazzo tutti fossero attivi e pimpanti quanto lui. Invece, al di là di quella
porta, c’era solo silenzio. Iniziai a preoccuparmi, e sperai che non si fosse
cacciato anche lui in qualche guaio; solo quello ci mancava.
Avvicinandomi
all’ingresso iniziai ad avvertire dei timidi colpi di tosse, quasi come se chi
li producesse avesse persino il timore di farsi sentire e dare fastidio,
seguiti poi da dei sussurri di una voce singhiozzante e flebile. “Ty … Tyler”
invocava, quasi in agonia “sono io … Allison …”
Per
quanto debole, era difficile non indovinare a chi appartenesse quella voce.
Aprii velocemente la porta, senza badare nemmeno a controllare nello spioncino.
Mi
aspettavo di trovarmela davanti, Allison, ed invece non c’era che un borsone
lercio e consunto. Furono gli ennesimi colpi di tosse, forzatamente trattenuti
e smorzati, ad attirare la mia attenzione e a mostrarmi Allison.
Appena
la vidi, alla luce lampeggiante e smorta del neon quasi andato delle scale, mi
sentii morire.
Era
rannicchiata ad un angolo, vuoi per cercare evidentemente di scaldarsi, vuoi
per protrarre la difesa istintiva da qualcosa o qualcuno. Forse ero un
pessimista, ma non c’erano altre ragioni per cui Allison, che avevo baciato
contro la sua volontà poche ore prima, si presentasse nel cuore della notte a casa
mia: doveva essere successo qualcosa.
“Allie!”
mi precipitai verso di lei, in preda al panico “cos’è successo???!”
Non
mi accorsi di urlare, fin quando lei stessa, con un filo di voce, mi chiese di
abbassare il volume della voce.
Le
mani a martoriare uno straccio di fazzoletto, portate a coprire il suo volto,
celavano alla mia vista i suoi tratti e la sua espressione. Per quanto potesse
vergognarsi di ciò che era, non mi aveva mai nascosto il suo viso; andava
troppo fiera, giustamente, della sua bellezza: questo suo gesto, oltre ad
insospettirmi, mi fece temere ciò che avrei eventualmente scoperto se l’avessi
obbligata a rivelarsi.
Non
rispose ai miei ripetuti interrogativi, né la forzai a farlo, ma pensai che non
fosse il caso di continuare ad accusare l freddo e le correnti d’aria che si
concentravano lungo le scale.
“Dai,
andiamo dentro” la invitai, e non se lo fece ripetere due volte, annuendo e
tirando su col naso ghiacciato e raffreddato. L’aiutai ad alzarsi,
appoggiandola a me, e le si arpionò al mio collo con le sue braccia. Mi accorsi
solo allora, aiutandola a stare in piedi e a prendere il bagaglio, che i suoi
vestiti, vecchi e logori, inadeguati per una
notte fredda come quella, erano completamente fradici. Non mi ero
accorto che avesse iniziato a piovere, c’era troppo silenzio ed il ticchettio
della pioggia sul ferro delle scale antincendio non mi aveva fatto da sveglia
come era solito fare. Entrati in casa e chiusa la porta alle nostre spalle, mi
sentii sollevato e protetto dal tepore che, grazie al riscaldamento, aveva
intiepidito l’ambiente. Era certamente freddo, ma niente paragonabile
all’androne. Quel lieve calore riscorre e placo anche Allison che non aveva
smesso un attimo di mugugnare e tremare; non riuscivo a distogliere il pensiero
dalle mille e mille ipotesi su cosa potesse esserle accaduto, mentre le
prendevo un telo di spugna per asciugarsi e mettevo sul fuoco un po’ di latte
per scaldarla.
Non
riuscivo a guardarla, avevo una paura matta di scoprire qualcosa di sgradito o
che comunque avrebbe potuto far riaffiorare la rabbia nei miei nervi, ancora
tesi per l’azzuffata fuori dal club. In fondo, sapevo benissimo il motivo per
cui era venuta a farmi visita a quell’ora: se avesse voluto chiedermi scusa,
avrebbe di certo aspettato un orario più propizio per farmi visita. Ed invece,
scrutando l’orologio del cellulare, potei constatare che erano le 3 di notte, e
un’idea me l’ero già fatta, purtroppo. Lei stessa mi aveva urlato contro ed io
mi ero dannato per averla messa in mezzo alla merda, più di quanto già non
fosse.
Mi
avviai alla poltrona dove era ancora seduta, nel vano tentativo di
asciugarsi e
ricomporre i capelli. A terra una pozza d’acqua ed il divano era
bagnato come
lei, ma poco importava se era lei a non stare bene. Lasciai la tazza di
latte
caldo sul tavolino e mi affacciai al finestrone; capii per quale motivo
non
avevo sentito la pioggia scrosciare lungo le condutture di scolo: stava
nevicando. D’altronde un freddo del genere non poteva essere
giustificato
altrimenti. Mentre ancora guardavo scendere la neve sui tetti e posarsi
delicatamente sulle auto nel vicolo, imbiancando e purificando, la
guardai di
sfuggita mentre era ancora di spalle e beveva “Ho aggiunto un
po’ il cioccolato
un polvere, è già zuccherato. Spero ti piaccia
così” “Sì … grazie” rispose lei,
già abbastanza rinvigorita. “Ah” aggiunsi “se
vuoi i biscotti sono nella
credenza, sotto lo stereo”. Mi ero allontanato nel frattempo per
evitare di far
cadere il mio sguardo su di lei eccessivamente, e far male ad entrambi.
Io ne
avrei sofferto a vedere come era stata ridotta, lei avrebbe sofferto
perché
proprio io ne ero stato la causa. Andai in camera e frugai nei cassetti
del
comò per darle qualcosa di asciutto da indossare: la sua borsa
era talmente
zuppa, che difficilmente si era salvato qualcosa lì dentro. Mi
fermai un attimo
a guardare fuori, affascinato dalla tormenta di neve che si abbatteva
su New
York e si faceva sempre più insistente: ficcai i naso fuori
dalla finestra e mi
misi ad annusare l’aria. Era una cosa che amavo far sin da
bambino; nessuno mi
credeva e tutti mi prendevano in giro, ma ho sempre pensato che il
freddo della
neve conferisse all’aria un profumo diverso, particolare,
pungente e quasi
dolce. Ho sempre amato la neve. Fa tacere e nasconde ciò che di
brutto c’è in
giro col suo manto bianco. Da piccolo non capivo come si potesse
odiarla: i
miei stavano alla finestra ed imprecavano, sperando che smettesse il
più presto
possibile; io invece schiacciavo il naso più che potevo verso
sul vetro, facendola
appannare, per poi disegnare o scriverci sopra. Ridevo di chi con
l’auto in
panne spalava la neve per farsi strada ed invidiavo chi veniva mandato
a
giocare a palle di neve. Mi piace ancora la neve, come piaceva a
Michael, con
cui stavamo le ore a giocare a carte e mangiare cioccolata quando fuori
tutto
diventava bianco.
Senza
nemmeno accorgermene mi ritrovai a scrivere sul vetro il nome di mio fratello,
come facevamo da bambini. Mi manchi
Michael, ti scriverò presto, promesso.
Trovata
una maglia non troppo grande, tornai nella zona giorno e mi convinsi a parlare
con Allison. Avevamo aspettato fin troppo ormai, eppure era così tipico di noi
che non ci dava fastidio. Si era spostata dal divano e si era accucciata sul
davanzale interno; anche lei era stata rapita dalla neve. Poggiando lo sguardo
casualmente sull’asciugamano che aveva lasciato sul divano, mi accorsi di
alcune sbavature di sangue, per lo più ossidato e coagulato. Cominciai
amaramente a realizzare che quanto lei stessa temeva era accaduto, purtroppo.
Mi sedetti a terra, al suo fianco, mentre il suo sguardo continuava a rimanere
fisso sul vetro e perso nel vuoto della strada bloccata dalla neve.
“Mi
ha sempre affascinato il colore della neve di notte … tutto diventa rosso …”
disse. Sembrava persa e sconvolta.
“È
successo vero?” le chiesi “ti hanno sbattuta fuori? … perdonami”
Ero
contento in parte che fosse accaduto perché, al di là di ciò che provavo per
lei, non era giusto che trascorresse la vita a fare la schiava ad un vecchio
pappone. Ma il modo in cui era accaduto andava ben al di là delle mie speranze
e delle mie aspettative. Non mi aspettavo nulla di romantico o letterario, solo
che si armasse di un minimo di amor proprio, coraggio e, fatti i bagagli,
scappasse via. Ed invece l’avevano malmenata e mandata via, lasciandola senza
un soldo e senza una casa, noncuranti nemmeno della notte che avrebbe trascorso
al gelo.
Ancora
si rifiutava di parlarmi: era il minimo; probabilmente era venuta a rifugiarsi
da me perché sapeva che ero l’unico che l’avrebbe accolta. Giocava con me: l’aveva
sempre fatto e continuava a farlo; ma era perché io gliene davo la possibilità,
imperterrito, pazzo di lei e stregato da qualcosa che dovevo ancora capire. Non
era per la bellezza, ordinaria e pulita, non era per il carattere, testardo e
schivo peggio del mio. C’era un qualcosa in lei che sentivo essere anche parte
di me, la condivisione del dolore che avevano sperimentato, l’aiutarci a
vicenda anche senza rendercene conto: la guardavo e vedevo me stesso; ecco
perché mi ero innamorato di lei.
Mi
alzai da terra e mi misi a sedere sul davanzale, di fronte a lei. Mi costrinsi
a guardarla e notai che anche lei aveva un visino niente male, con lividi,
gonfiori e qualche graffio. I capelli si stavano asciugando ma i vestiti ne
avrebbero avuto ancora per molto. “Ti ho … preso una mia maglia, se vuoi
cambiarti. Almeno non ti becchi un malanno a stare con quei vestiti umidi
addosso …”
Mi
rispose con un sorriso tenue, quasi accennato e forzato. Si alzò e senza
curarsi della mia presenza, dandomi le spalle si tolse il camicione maschile di
velluto che indossava e mise la mia maglia, mostrandomi i lineamenti perfetti
dei suoi fianchi e della sua schiena nuda; distolsi lo sguardo per un momento,
concedendole quella privacy che in quel momento sembrava non interessarle. La
mia maglia, bianca e a maniche lunghe, sembrava piuttosto una camicia da notte,
visto che era troppo grande per lei.
“Non
la metto più … se vuoi puoi tenerla, ti sta bene” le confessai, ma non sembrò
curarsi più di tanto del mio
complimento. Approfittando dell’aumento della temperatura – avevo nel frattempo
riaperto le valvole dei termosifoni, chiuse prima di andare a dormire, unico
modo per salvarsi dai bollori del riscaldamento centralizzato – si liberò anche
dei pantaloni, buttandoli a terra vicino alla camicia e alla sacca che portava
con se. La aiutai a metterli sui radiatori ad asciugarli e proposi di fare
altrettanto con quelli che aveva in borsa: “Non credo si sia salvato qualcosa
con questa tormenta …” dissi, aprendo il borsone. “No aspetta!” urlò, correndo
a bloccarmi.
Ma era troppo tardi, ormai avevo aperto il borsone ed il segreto che custodiva
era stato svelato. Non c’era niente dentro, niente che potesse essere di una
certa utilità: l’unico indumento era una camicia da notte di satin, lunga e
femminile, un’armonica a bocca e tanti libri, tutti quelli che io le avevo
regalato.
“Sono”
balbettò “sono le uniche cose che sono riuscita a salvare …” Era al limite, si
vedeva che stava per scoppiare e mi augurai che non fosse un’implosione, perché
ciò che aveva da urlare e da reclamare doveva venir fuori, e non ucciderla
dentro.
“Non
ho più niente Tyler!” pianse, scoraggiata, in preda alle prime lacrime che le
vedevo versare “non ho più niente!”.
Si
buttò tra le mie braccia e quel pianto, che forse agognava da una vita,
sembrava non trovare una consolazione. Ma doveva piangere, doveva tirare tutto
fuori, per poter ricominciare a vivere serenamente.
“Shhh!
Shhh!” la consolai, come meglio potevo, mentre accasciata per terrà si era
rannicchiata contro il mio petto sempre più piangente “è finito tutto Allie … è
finito tutto ora”
“Ho
avuto paura!” mi disse e le chiesi se avesse voglia di dirmi cosa le era
successo. Avevo paura di sentire il suo discorso, perché paradossalmente, per
quanto mi sforzassi di non pensarci, la mia mente aveva già girato almeno due o
tre film sulle situazioni possibili e plausibili in cui Allison potesse essere
stata coinvolta, uno più nero dell’altro e temevo che tra quelli ci potesse
essere anche la realtà.
“Ho
continuato a lavorare fino all’una. Tornata a casa trovo un paio di uomini accampati
lì per terra, dove capitava, e uno steso sul mio letto. Gli ho detto di
andarsene, che era casa mia quella …” continuò il suo racconto, alternandolo
con singhiozzi che neanche un intero bicchiere d’acqua era riuscito a placare “…
ma parlavano una lingua incomprensibile, forse arabo, forse arabo ... non lo so
… era difficile distinguerli al buio … ma poi sono arrivati due che lavorano
per il capo e mi hanno detto di andarmene. Sapevo di non poter combattere
contro di loro, allora ho cercato di radunare le mie cose, ma non appena ho
provato a prendere anche solo i miei slip, mi hanno presa e sbattuta al muro …”
Avrei
voluto fermarla, pregarla di smetterla,
perché come racconto era già abbastanza chiaro e forte, e poteva bastare. Ma era
un treno a cui si sono rotti i freni, e non sembrava in grado di smettere, e
forse nemmeno voleva.
“Devo
aver sbattuto la testa da qualche parte, perché ho dei vuoti qua e là … ricordo
solo che ad un certo punto ho avvertito delle mani risalire sulle gambe e altre
hanno tentato di slacciarmi il reggiseno”
Il
senso di nausea e rabbia che mi aveva pervaso quando l’avevo vista tra le
luride braccia di quel vecchio, con le nodose mani nodose e grasse che
carezzavano la sua pelle era nulla a confronto di ciò che stavo provando mentre
si sfogava con me. La collera era amplificata dall’impotenza del proprio
essere, dalla consapevolezza che tutto questo poteva essere evitato se solo …
ma con i se non ci si combina nulla, al di fuori di ipotetiche congetture che
vanno bene ai filosofi, e non agli uomini e le donne che nel mondo vero ci
vivono e sopravvivono con le unghie e con i denti. Dovevo … dovevamo pensare al
presente, e a quello che ora potevamo fare per dimenticare il passato.
“Sono
scappata via appena ho realizzato cosa stesse accadendo, mordendo, graffiando e
prima che potessero raggiungermi e uccidermi di botte ero già in metro sulla
strada verso casa tua.”
Le
lacrime si erano fermate, ma l’angoscia per quanto era accaduto e
la
disperazione per un futuro che sembrava essere ancora più nero,
l’avevano sfigurata.
Prese in mano quegli oggetti che aveva con se, in particolare la
camicia da
notte che aveva uno strappo ad un lato; pareva volerli accarezzare,
trattarli
con una cura e una delicatezza che le avevo visto usare solo con i
libri fin’ora:
“era la preferita di mia madre …” spiegò
“… e l’armonica era di mio padre. È tutto
ciò che ho di loro … non volevo perdere anche
questo”. Non volli indagare
oltre, mi sembrava che la violenza subita ed il racconto che me ne
aveva fatto
fossero uno strazio sufficiente per la sua serata. Me ne stetti
lì, a testa
bassa, a guardarla emozionarsi davanti ai suoi ricordi.
“E
i libri?” Una stupida domanda uscita fuori nel momento meno opportuno, uscì
tipicamente dalla mia bocca.
“Perdonami
Tyler per come ti ho trattato prima, fuori dal locale!” fu questa la sua
risposta, il che mi fece capire che probabilmente avevo ancora una speranza con
lei, ma la tenni per me; illudersi fa male, farlo per due volte è un attentato
suicida.
Allison
prese ad esaminare con cura i libri, forse nella speranza di non trovarli
rovinati dalla neve che si era infiltrata tra la stoffa della borsa e la carta
dei vari tomi. Glieli avrei ricomprati tutti, se fosse stato necessario, se le
avesse restituito il sorriso per sempre.
“Ho
solo ricordi con me … cose che mi legano a chi voglio bene … non ho altro
Tyler!” riprese a piangere “niente altro!”
La
abbracciai, d’istinto, perché anche se utopica, la speranza che mi aveva dato
sembrava essere più che concreta, almeno ai miei occhi. Ci teneva a me, ed io
tenevo a lei. Tanto mi bastava per essere felice, anche per lei. Se non fosse
stato amore l’avrei capito, ma averla vicino mi bastava per essere sereno e
poter continuare ad aiutarla “Hai me” la rassicurai “sono qui” Sì, mi aveva,
rapito anima e corpo e consegnato a lei da fate ignoranti e meschine, eppure
efficienti nel proprio lavoro.
Sentii
le sue labbra stamparsi ripetutamente sul mio collo e le sue mani diventare febbrili,
dapprima sulle braccia, per poi scendere fino ai fianchi. Non seppi come
comportarmi, se assecondarla e per insano egoismo soddisfare i miei desideri, oppure
oppormi e da gentiluomo ricordarle che non aveva bisogno di certi pagamenti per
contraccambiare il mio aiuto. Optai per la seconda.
“Allison”
la ripresi “ti prego …” Mi alzai da terra e la scostai, facendo attenzione ad
ogni mio minimo movimento per non ferirla o offenderla. Mi spostai nel cucinino
con il pretesto di sciacquare la tazza del latte e mi accorsi, con la coda dell’occhi,
che mi seguiva con la coda dell’occhio. Una volta riposte quelle quattro
stoviglie che avevo lavato come scusa, mi voltai verso di lei, che si era
appoggiata allo stipite della porticina che separava il tinello dall’angolo
cottura; sembrava volersi nascondere dietro quella minima parete e l’unico
occhio che lasciava intravedere era persino nascosto dalla massa informe e ribelle
di capelli che si erano ormai completamente asciugati. Era così innocente
eppure così sensuale, gattina e leonessa racchiuse in unica persona. Non ce la
facevo a starle lontano troppo tempo, ma starle vicino era altrettanto
pericoloso: e da perfetto coglione mi ero tirato da solo la zappa sui piedi,
lasciando che indossasse la tua maglia e lasciasse scoperte le sue bellissime
gambe bianche. Non era la sua bellezza ad avermi colpito, non era una bellezza imponente e
statuaria, formosa e prorompente; eppure starle vicino era come ammirare una
scultura classica di dea, era inutile negare la sua bellezza, che lascia
comunque senza fiato.
“Ho
bisogno di te” sussurrò ed in lei c’era tutta la necessità primordiale e l’urgenza
di sentirmi vicino che provavo io per lei. “Ho bisogno di te” ripeté, e sapevo
cosa voleva dire.
Mi
avvicinai e per un flash vidi la scena dall’esterno; non potei evitare che una
lacrima scendesse persino sulle mie guance. Allungai un braccio e con la mano cercai al buio del corridoio la
sua. L’altra mano sulla sua guancia, a spazzare via le ultime gocce di tristezza
che cadevano giù dagli occhi, troppo belli per essere rovinati dal pianto.
“Fai l’amore con me, Allison. Fai l’amore con
me …”
NOTE FINALI
Bene,
eccomi a voi con l'ennesima schifezza. Probabilmente non avete capito
nulla del capitolo perché rileggendolo mi sono resa conto di
quanto sia effettivamente confuso. Ma forse è perché i
nostri due beniamini non effettivamente confusi...non so se il finale
sia appropriato alla storia, forse ho esagerato, forse è troppo
presto: sta a voi giudicare.
Ho in serbo per voi una sorpresa per il prossimo capitolo: riuscite ad
immaginarla? Mi fa piacere poter annunciare tralaltro che è
già avviato. Ma non posso dirvi altro.
Come alcune di voi sapranno, durante questa settimana ho scovato dei video fan made su Youtube
che trovato pertinenti alla storia. Ditemi cosa ne pensate, vi lascio i link qui di seguito.
Vi lascio perché non ho molto tempo e vi do appuntamento al prossimo capitolo, ringraziandovi per l'ampio seguito e ricordandovi che, per qualsiasi cosa, c'è un angolo tutto a vostra disposizione per contattarmi.
Federica