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Autore: Darik    12/05/2011    2 recensioni
Una grande battaglia era stata vinta. Ma il prezzo era stato una grave perdita, sempre più difficile da sopportare.
Per questo le persone che lo amano intraprenderanno un assai pericoloso viaggio, dove nulla è come sembra, per ritrovare Negi.
Questa storia è il seguito di "Colui che Evangeline ammira".
Genere: Avventura, Azione, Sovrannaturale | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Apparenze'
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4° Capitolo

L’aereo con il gruppo di Asuna atterrò all’aeroporto di Reykjavík.

Mescolati alla piccola folla di viaggiatori, uscirono dalla sala di attesa, ritrovandosi davanti una città ben diversa da Tokyo.

Reykjavík, infatti, era priva di palazzi veramente alti, a costruzioni recenti si alternavano altre dal sapore ottocentesco, c’erano diversi tetti dai vari colori, e il traffico di auto e persone non era certo a livello di una metropoli come la capitale giapponese.

In lontananza s’intravedevano delle alte montagne innevate.

Il tempo era buono, ma l’aria piuttosto fredda, quasi autunnale.

Mana andò a cercare un ufficio di cambio per avere corone islandesi al posto degli yen.

Ci mise pochissimo tempo a tornare, era evidente come fosse abituata a muoversi in paesi esteri.

“Ok” esordì Asuna guardandosi attorno “Ora siamo arrivati. Dobbiamo andare alle cascate di Skógafoss”.

“Ma non certo così. Andiamo prima in un albergo” propose Mana “ poi noleggeremo un mezzo per raggiungerle. Sono a un’ora di auto”.

“E come ci andiamo in albergo? Cioè, dovremmo chiedere informazioni. Chi conosce l’islandese?” domandò Sakura.

Mana alzò la mano, gridando: “TAXI!”

E subito un taxi giallo si fermò affianco a loro. Il guidatore abbassò il finestrino e Mana cominciò a parlare con lui.

In perfetto islandese.

Il guidatore annuì e chiamò qualcuno con la radio di bordo. Dopo pochi minuti arrivò un secondo taxi.

“Salite, ci portano in un albergo qui vicino” spiegò Mana.

“Potevi dircelo che conoscevi l’islandese” obbiettò Asuna.

“E voi potevate chiedermelo. D’altronde, secondo voi come mai il professor Takahata non aveva mai toccato il problema della lingua, finora?”

Asuna ammutolì, mentre le altre salirono sui taxi.

“Ah sì” rammentò Asuna “devo informare il professore del nostro arrivo”.

Fece il numero sul cellulare, ma sembrava non esserci campo.

“Proverò più tardi”.


La jeep, affittata, con Takamichi, al volante, Kamo, sulle spalle del professore, e Kotaro, percorreva una strada asfaltata e quasi deserta, in mezzo alla pianura islandese.

“Che pizza” sbottò Kotaro che stava con un braccio appoggiato al finestrino.

“Non ti piace questo bel panorama?” domandò Takamichi.

“Bah. Di bello è bello. Ma è cosi monotono. Pianure verdi, pendii e montagne rocciose in lontananza. Da quasi un’ora si vede solo questo. Un po’ di varietà, insomma” rispose Kotaro sbuffando.

“Su con la vita, rammenta che non siamo qui in viaggio turistico. Tra poco saremo alle cascate di Skógafoss”.

“Ha idea di cosa troveremo lì?”

“Non lo so. Spero qualcosa, perché c’è in ballo il destino di Negi. Tuttavia spero anche che non avremo brutte sorprese. Siamo solo noi. Le ragazze ci raggiungeranno tra un’ora o poco più. A proposito, riprova a chiamarle”.

Kotaro rimise mano al cellulare, fece il numero.

“Inutile. Ancora non sembra esserci rete. Stupida tecnologia” sbottò.

“Riproveremo tra poco. Intanto siamo arrivati” annunciò l’altro.

Sul fianco destro della strada c’era un cartello, in islandese e inglese, che indicava l’arrivo a Skógafoss.

In lontananza cominciò a intravedersi una piccola catena montuosa, alla sinistra della quale scorreva un fiume che sembrava iniziare dalle montagne per poi perdersi nel panorama all’orizzonte.

Fermarono l’auto in un parcheggio abbastanza pieno.

“Si vede che non hanno paura dei ladri qui” commentò Kotaro notando l’assenza di un custode.

Dal parcheggio partiva un sentiero in cemento grigio, che in mezzo a tutto quel verde sembrava quasi un enorme serpente.

Percorrendolo, i due svoltarono un angolo dietro una parete rocciosa e videro in lontananza la famosa cascata.

Che precipitava con fragore in mezzo a due pareti di roccia fittamente ricoperte di verde.

Il sentiero proseguiva quasi fin sotto la cascata e terminava in un ampio spiazzo.

In quest’ultimo c’era un gruppo di una decina di persone immobili, che osservavano la grande mole di acqua che con fragore precipitava nel fiume sottostante alimentandolo.

“Cosa ci troveranno d’interessante nel vedere acqua che precipita? Mah” esclamò Kotaro.

Takamichi si guardò intorno.

“Resta qui” disse al ragazzo avvicinandosi al gruppo di visitatori.

Davanti a lui vide il muro d’acqua, che produceva una nuvola di vapore e gocce che inevitabilmente andarono a bagnare il volto del professore, come quello di tutti gli altri.

Asciugandosi con un fazzoletto, Takamichi buttò un’occhiata verso la cascata.

Però non si riusciva a vedere niente oltre la corte d’acqua, che tra l’altro sembrava attirare l’attenzione degli altri turisti come un magnete attira il metallo.

Finito il controllo, il professore tornò da Kotaro, che stava di nuovo tentando di chiamare.

“Niente! Sembra quasi che siamo isolati!” esclamò il ragazzo, fortemente tentato di buttare via il telefono.

“Può capitare che in alcune zone non prenda. E poi qui siamo parecchio al nord” spiegò Takamichi.

Aveva la faccia ancora bagnata dall’acqua della cascata, quindi rimise mano al fazzoletto.

E fu allora che si accorse di un particolare.

Si girò di nuovo verso i turisti della cascata.

“Kotaro, dimmi” iniziò Takamichi mentre si asciugava la faccia.

“Cosa c’è?”

“Se tu fossi un turista, cosa faresti qui?”

“Non ho mai fatto il turista in vita mia”.

“Parlò in linea teorica. Se tu fossi un turista, cosa faresti adesso?”

Kotaro notò che in quella domanda c’era qualcosa di strano. “Be, pensò che mi guarderei in giro, farei delle foto, parlerei con qualcuno”.

“E se avessi il viso bagnato dallo stare troppo vicino alla cascata, te lo asciugheresti?”

“Certo. Insomma, mica me ne…” Kotaro alzò un sopracciglio “…starei immobile come quellì lì. Che sembrano…”

“Tante statue” concluse Takamichi.

I due si guardarono intorno, Takamichi iniziò anche ad indietreggiare.

“Andiamocene” ordinò.

“Non voglio scappare” replicò Kotaro.

“Siamo caduti in una trappola. E quando non si conoscono le capacità del nemico, non si possono correre rischi”.

Era un ragionamento giusto, perciò anche Kotaro iniziò ad indietreggiare.

Comunque, a parte ‘i turisti’ immobili, lì non sembrava esserci nessuno.

I due si voltarono per dirigersi, con passo svelto, verso il parcheggio.

Girarono l’angolo formato dalla parete rocciosa.

E si ritrovarono di nuovo nel piazzale della cascata.

“Che diavolo è successo?!” sbottò Kotaro.

Ricorse dietro l’angolo.

E ritornò nel piazzale.

Si guardò intorno smarrito.

“Una trappola” confermò allora Takamichi.

L’uomo indicò le persone che stavano fissando la cascata. Adesso erano voltate verso di loro. E verso di loro avanzavano.

I due non ebbero altra scelta che prepararsi alla difesa, mentre i nemici continuarono ad avanzare impassibili.

Takamichi mise le mani in tasca. E un istante dopo una forza invisibile sembrò colpire quei dieci uomini, facendoli volare per aria come birilli.

Atterrarono malamente al suolo.

Per poi rialzarsi subito, come se niente fosse, e riprendere la loro marcia impassibile contro i due giapponesi.

Takamichi inarcò un sopraciglio, sferrò un altro attacco, con maggiore forza.

Stavolta i nemici finirono con violenza contro una delle pareti rocciose.

Caddero al suolo, si rialzarono ancora e di nuovo ripresero a marciare.

“Al diavolo!” gridò Kotaro.

Mutò nella sua forma da combattimento, le orecchie canine, i capelli, aumentarono notevolmente il loro volume, il suo volto assunse un aspetto più feroce, braccia e gambe diventarono più lunghe, come la coda.

E artigli sbucarono da mani e piedi, in questo caso lacerando le scarpe.

Kotaro buttò la giacca e si lanciò ferocemente contro gli avversari.

Sembrava un licantropo.

Atterrò in mezzo a loro sbattendoli al suolo e con pugni e calci li fece volare per aria più volte.

Nonostante ciò, continuarono ad alzarsi.

A quel punto Kotaro annusò l’aria, sogghignò e caricando il pugno con le dita artigliate tese in avanti, mirò al petto di uno dei nemici.

Il colpo sfondò il petto del falso turista.

“Kotaro!!” lo richiamò Takamichi.

“Non ti preoccupare, professore. Questi tizi, non hanno odore, non sono vivi!” spiegò in preda ad una strana euforia il ragazzo-cane.

Il nemico infilzato, in effetti, sembrò non curarsi minimamente del braccio che gli passava il petto da parte a parte.

Perdeva sangue ma non emetteva neanche un lamento.

Afferrò per il collo Kotaro, una stretta forte.

A quel punto Kotaro diede un colpo col taglio della mano al collo del nemico, decapitandolo.

Tuttavia il corpo non mollò la presa.

Gli altri nemici fecero per avventarsi sul giovane.

Takamichi con i suoi colpi invisibili li respinse tutti.

Era rimasto solo quello ancora infilzato dal braccio di Kotaro.

Quest’ultimo se ne sbarazzò con un calcio, scagliandolo verso gli altri.

Tuttavia si rialzò nuovamente insieme agli altri.

“Mi sono seccato!” esclamò Kotaro.

Che evocò dalla sua ombra degli enormi cani neri, grandi quanto una persona.

Ringhiando i cani-fantasma si lanciarono contro i nemici e iniziarono a dilaniarli con le loro zanne. L’orribile massacro durò pochi minuti.

Alla fine, dei falsi turisti erano rimasti solo pezzi maciullati e avvolti in vestiti a brandelli.

“Kotaro” disse Takamichi con aria da severo rimprovero.

Il professore non era sconvolto da quella vista, d’altronde nella sua vita aveva visto di peggio, purtroppo.

Era invece preoccupato per l’autore di quel massacro.

“Sei stato troppo violento” continuò il professore “se fossero state…”

“Se fossero state persone vere, non avrei mai agito cosi. Te lo giuro. Io so controllarmi” rispose Kotaro asciugandosi un po’ di bava dalla bocca.

“Lo spero” disse Takamichi fissandolo duramente.

“Comunque, questi tizi sono stati una vera delusione. Nessuna tecnica speciale, solo forza bruta e in fondo neppure tanta. Questa trappola non era granchè”.

A quel momento uno strano rumore, prodotto da qualcosa di molliccio, attirò la loro attenzione.

Proveniva dal suolo.

I corpi nemici si stavano ricomponendo, i vari lembi si avvicinavano attratti da una forza invisibile e non appena si toccavano, i tessuti iniziavano a rigenerarsi.

“Che palle!” sbottò Kotaro, che ordinò ai suoi cani-fantasma di attaccare nuovamente quei resti.

“Ho un’idea migliore. Ordina ai tuoi cani di lanciare i resti contro la parete rocciosa laggiù, lontana dalla cascata” comandò Takamichi.

Kotaro lo guardò un po’ perplesso, poi capì ed eseguì. Fulminei i cani trasportarono tutti i resti alla base della parete.

Poi sembrò che la sommità di quest’ultima esplodesse, colpita da un’energia invisibile. Una grossa frana seppellì ciò che rimaneva dei falsi turisti.

“Metodo più efficace” spiegò il professore.

“In effetti. Bene, ora vediamo di andarcene da qu…”

Kotaro non poté finire di parlare, si portò una mano al collo e poi cadde a terra in silenzio.

“Kotaro!” esclamò preoccupato Takamichi chinandosi su di lui.

Controllando il collo del ragazzo, si accorse di una piccola freccetta conficcata nella pelle. E prima che potesse reagire, sentì anche lui qualcosa colpirlo al collo. E cadde nell’oblio.

Un momento dopo, decine di figure silenziose, avvolte in tuniche nere con cappuccio.

Tali individui erano apparsi come dal nulla, anzi, sembrava che avessero attraversato una sorta di sipario invisibile, scostando letteralmente l’aria come se fosse il tessuto di un drappo.

Alcuni presero per le gambe Kotaro, tornato normale, e Takamichi, trascinandoli dietro il sipario invisibile.

Uno degli uomini afferrò Kamo, che per tutto il tempo era rimasto in silenzio e immobile sulla spalla del professore, lo contemplò per un attimo e poi se lo portò dietro.

Quando tutti furono rientrati, l’intera zona della cascata sembrò farsi evanescente, come se volesse dissolversi.

Ma fu solo per pochi attimi, poi tutto tornò come prima e sembrò non essere accaduto nulla.

Unica differenza: stavolta intorno alla cascata c’erano dei turisti che si guardavano in giro, facevano foto, parlavano.

E si asciugavano il volto quando si avvicinavano troppo alla cascata.


“E’ successo qualcosa!”

La dichiarazione di Asuna non colse di sorpresa le altre.

“Asuna, è già la quarta volta che lo dici in mezz’ora” le fece notare Nagase.

Il gruppo del Mahora si era già sistemato nell’albergo, piccolo ma confortevole, e rapidamente stavano disfacendo i bagagli.

Mana era andata nella hall per prenotare un pullmino col quale raggiungere le cascate.

Mentre Asuna passeggiava nervosamente davanti ad una finestra.

“Non posso essere tranquilla” rispose la ragazza con i campanellini nei capelli. “Kotaro e il professor Takahata non si sono fatti sentire. Né noi siamo riusciti ad avvertirli del nostro arrivo. I cellulari non funzionano. Che ferraglie inutili!”

“Stai calma, Kagurazaka” le disse Takane Goodman sistemandosi una ciocca di capelli biondi “Il professor Takahata sa quello che fa. Piuttosto, vado anch’io nella hall, devo informare il preside del nostro arrivo. Da questa distanza, dubito che una telefonata al cellulare in Giappone si senta molto bene”.

Takane uscì dalla camera e si recò nella hall, trovando una piccola stanza con una serie di telefoni appesi, riservata ai clienti.

Entrò chiudendo la porta, compose il prefisso e poi il numero dell’ufficio del preside al Mahora.

Ma dall’apparecchio arrivò solo il silenzio.

“Non è possibile! Ma che gli prende ai telefoni?!”

Qualcuno bussò.

“Mana?” domandò sorpresa Takane.

La giovane mercenaria entrò. “Ti ho vista ai telefoni. Chi vuoi chiamare?”

“Il Mahora. Per riferire del nostro arrivo. Ma il telefono sembra muto”.

Spazientita, Takane rifece il numero.

Mana invece prese il foglio su cui aveva annotato il numero della ditta locale di viaggi suggeritale dagli addetti alla hall.

Aveva dovuto mentire loro, dicendo e mostrando documenti falsi che attestassero il suo essere maggiorenne.

Ma non era la prima volta e non sarebbe stata l’ultima. E poi lei era l’unica a saper guidare.

“Speriamo che per chiamare almeno questi numeri, i telefoni funzionino” pensò distrattamente.

Poi uno strano sospetto le attraversò la mente.

“Takane!” esclamò Mana.

Infastidita dall’ennesima telefonata muta, Takane si girò con un’espressione alquanto scocciata.

Espressione che divenne assai inquieta quando osservò il volto di Mana.

Quest’ultima aveva assunto il suo atteggiamento da professionista pronta a tutto per adempiere il suo dovere.

Uno sguardo di ghiaccio, che dava i brividi.

Senza dire altro, Mana le prese il telefono di mano e fece un numero. Niente.

“Takane. Ascolta. Dì alle altre di stare all’allerta. Sta succedendo qualcosa” spiegò con voce secca la giovane mercenaria.

Che prese l’elenco telefonico e cominciò a comporre dei numeri a caso.

Takane la vide perplessa attendere invano.

Poi senza dire una parola, Mana uscì dalla stanza e l’altra la seguì.

Rimasero ferme ad attendere ancora.

Un altro cliente entrò nella stanza dei telefoni e ne uscì dopo aver telefonato. E altri due clienti fecero lo stesso.

Nel salone davanti a loro c’erano diverse persone che parlavano al cellulare.

“Insomma, mi spieghi che succede?”

“Siamo isolati” spiegò freddamente Mana. “I telefoni funzionano, ma qualcuno, o qualcosa, ci impedisce di chiamare chiunque”.


All’aeroporto di Reykjavík, tra i passeggeri c’erano anche Asakura, Nodoka e Yue.

“Finalmente siamo arrivate” disse Asakura mettendo mano alla sua macchina fotografica.

“Ora che facciamo?” domandò Nodoka guardandosi intorno con titubanza.

“Rintracciamo le altre e le seguiamo a debita distanza” spiegò Yue mentre beveva un succo azzurro.

Uscirono dall’aeroporto e Nodoka fissò il cielo. “Si sta annuvolando di brutto. Eppure poco fa sembrava una giornata splendida”.

“Il clima in Islanda cambia molto rapidamente” spiegò Yue. “Un proverbio locale dice: ‘Non ti piace il tempo che fa? Aspetta un minuto’”.

Nodoka rimase molto colpita dall’erudizione della sua amica, mentre le porte automatiche si chiudevano alle loro spalle.

Se fossero rimaste aperte ancora per qualche attimo, avrebbero sentito la voce di un altoparlante annunciare in più lingue che una violentissima tempesta si stava formando al largo dell’isola.

 

  
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