The first of many
lies
Chapter IX: I didn't do it on purpose
– Still, you did
14
Marzo 1987
Il
sole stava ormai calando quando si fermò, esausto.
I
negozi iniziarono a chiudere ed il cielo aveva assunto una tinta
rossastra,
macchiando le nuvole di un rosa leggero e riempiendo il paesaggio con
colori
caldi e stanchi. Gli unici rumori udibili erano quelli di saracinesche
che
venivano abbassate e, in lontananza, le voci di alcuni bambini che,
probabilmente, se ne stavano tornando a casa loro.
Rimase
a fissare il parco che aveva davanti per diversi minuti, contemplando
un albero
pieno di foglie verdi. Infine, trascinandosi con fare esausto, si
lasciò andare
su una panchina, volgendo il capo all'indietro e chiudendo gli occhi.
Buttò la
cartella a terra, senza prestare troppa attenzione a dove la
gettò di preciso.
“Aaah...
dannazione.”
Sentì
lo stomaco brontolare e sbuffò, tirando un calcio a vuoto
davanti a sé.
C'era
troppo silenzio.
Silenzio
a cui non era più abituato da mesi ormai.
Silenzio
che gli tormentava le orecchie, sibilando con fare infausto. Gli diceva
di
alzarsi, di non perder tempo lì, che era colpa sua e che
sarebbe stato meglio
se si fosse scusato subito. E lui si morse un labbro, gli occhi ancora
chiusi.
“Sei
appena tornato da scuola?”, una voce che conosceva, che
conosceva fin troppo
bene e che gli era mancata. Una voce che aveva inseguito per tutto il
giorno,
sperando di tornare a sentirla.
Si
fermò davanti a lui, senza guardarlo e tenendo le braccia
incrociate al petto.
“No,
non sono andato a scuola. Ti stavo cercando.”
“Che
sciocco”, pochi passi, e la sentì lasciarsi andare
sulla panchina accanto a
lui, “io ti do via libera e tu sprechi così questa
possibilità? Mi era parso di
capire che la mia opinione non contasse per te. Dovresti esser solo
grato del
fatto che io ti abbia concesso una tale opportunità, non
è da tutti essere così
magnanimi quando si ha a che fare con un'idiota come te.” Un
breve respiro, e
la immaginò che accavallava le gambe. “Gli umani
sono tali sciocchi.
Approfittano sempre d'ogni occasione finché una data cosa
è a loro proibita, e
quando viene dato loro il permesso per fare ciò che
vogliono, buttano via
quella possibilità così preziosa.”
“Eeh...
Voi donne siete esseri strani. Ve la prendete per tutto.”
“Non
ce la prendiamo per tutto.” La sentì sbuffare.
“Siete voi ad essere idioti.”
“...
Sì, forse sono un idiota.”
“Ti
avevo detto che eri mio.”
Si
rannicchiò sulla panchina, alzando le gambe da terra e
cingendole con le
braccia, la gonna che la copriva a malapena.
Calò
il silenzio per qualche istante. Un silenzio imbarazzante, nel quale
Battler si
limitò ad arrossire ed aprire gli occhi, per poi portare
immediatamente lo
sguardo altrove, lontano da quello di Beato. Non avrebbe retto il peso
di
quella vista.
“...
Non ho mai creduto nei lieti fine.”
“Eh...?”
Battler
si voltò per guardarla mentre parlava. Aveva ancora
quell'aria triste in volto,
quella che aveva tanto odiato e che aveva sperato di non dover mai
più
sopportare.
“I
lieti fine esistono solo nelle fiabe, non nella realtà. E
anche se da bambina
adoravo ingannarmi con l'idea che un giorno avrei ottenuto anch'io il
mio e
vissero per sempre felici e contenti, ho sempre saputo dentro
di me che non
sarebbe successo, che era una fantasia la mia e null'altro. Ero
cosciente del
fatto che mi stavo illudendo e che per quel motivo avrei sofferto un
giorno.”
“Beato... perché...?”
“Nelle
storie che leggevo, spesso dicevano quelle parole,
quelle che chiunque
vorrebbe sentire dalla persona che ama. Avevo pensato che sarebbe
piaciuto
anche a me sentirle, e dirle, ma ho capito che dirlo in quel modo
sarebbe stato
troppo... scontato, e sarebbe potuto sembrare insignificante, una cosa
che si
possa dire a chiunque senza veramente pensarlo. Quindi, ho deciso che
non dirò
quelle parole. Perché sarebbe sciocco da parte mia dirle. E
sembrerebbero prive
di qualsiasi significato.”
“Beato...”
“Quindi, tu sei mio Battler.” Alzò lo
sguardo, fissando quegli occhi color del
mare dentro quelli altrettanto profondi del ragazzo, una nota di
serietà nella
voce e una punta di imbarazzo che si manifestava tingendole appena le
gote.
“Sei mio, e di nessun altro. Chiaro?”
“...
Sei un'idiota, Beato”, le gote arrossate e lo sguardo altrove.
Battler
si sporse appena verso di lei, cingendola in vita e piegando debolmente
le
labbra in un sorriso. Un sorriso stanco ed imbarazzato, quanto lui, ma
sincero.
La osservò per qualche istante, cogliendo ogni minima
espressione diversa che
assumeva il suo volto – prima scocciata, poi una che sembrava
furiosa, ed
infine lasciva che mascherava il suo imbarazzo.
Si
guardò attorno, Battler, prima di darle un bacio veloce
sulle labbra. La sentì
irrigidirsi contro di lui e poi, come se fosse stata la cosa
più naturale del
mondo, la ragazza allungò le braccia e lo strinse a
sé, aggrappandosi all'ampia
schiena di lui. Un bacio semplice e per nulla pretenzioso il loro, che
presto
si fece più intenso e avido, le labbra che cercavano quelle
dell'altro,
rapendole ogni qualvolta fuggissero per far prender loro un po' di respiro.
E
poi, come se si fosse appena svegliato da un sogno – come se
avesse sentito
suonare la sveglia di domenica mattina mentre era ancora avvolto nelle
calde
coperte – Battler scostò Beato lentamente,
afferrandola per i fianchi e
lasciando brevi e veloci baci sulle labbra ora gonfie delle ragazza.
“N-non
così. Non qui, Beato.”
Un
sorriso dolce, mentre la fissava.
“A-andiamo
a casa mia...? Ange si starà chiedendo dove sono finito... e
Kyrie-san e il
dannato vecchio...”
“Battler”,
Beato gli posò un dito sulle labbra, il broncio in volto e
lo sguardo che
esprimeva delusione, “e poi sarei io l'idiota. Su,
andiamo.”
Alla
vista di Ange, ferma sulla porta di casa con il sorriso in volto, a
Beato si
strinse il cuore. Provava un po' di gelosia nei suoi confronti, un
senso di
smarrimento che si fece più forte quando Battler le corse
incontro e
l'abbracciò, sollevandola da terra. Li fissò da
lontano, vicino al cancello
della casa, mentre si sorridevano l'una l'altra. Due fratelli
così uniti, che
in innumerevoli frammenti venivano allontanati per sempre l'uno
dall'altra. Un
fato crudele che li aveva separati troppe volte, ma che non aveva fatto
smettere alla bambina di amare quel suo fratellone impacciato e idiota,
ma
gentile ed onesto allo stesso tempo. Non avrebbe mai ricordato il
passato Ange,
avvolta com'era dalle verità future che avevano corroso
l'amore che tutti i
suoi parenti le avevano sempre dato, se non fosse stato per Battler ed
il suo ultimo
gioco. Non avrebbe potuto continuare a vivere.
“Onii-chan,
mettimi giù!”, la voce della bambina la fece
sobbalzare e fu in quel momento
che notò che Battler la stava fissando dubbioso.
“Onii-chan?”
“...
Che c'è, Beato? Qualcosa non va?”
Non
rispose subito Beatrice, incerta che la domanda fosse realmente rivolta
a lei.
“No,
va tutto bene”, un sorriso appena accennato in volto.
“Mh~
Beato”, Battler rimise sua sorella a terra, scompigliandole i
capelli con una
mano quando lei lo afferrò ed iniziò a tirarlo
per i pantaloni, “stavo pensando
di... rimediare... a quello che è ho fatto stamattina.
S-stavo solo scherzando,
non credevo m'avresti preso sul serio. Pensavo avessi capito che
sono—”
“Un
idiota.”
“—uno
a cui piace scherzare.”
Ange
li guardò dubbiosa, i pugni ancora ben stretti alla stoffa
dei pantaloni del
fratello. Non le piaceva che Beato insultasse il suo Onii-chan, ma
quando vide
quest'ultimo tacere, abbassare lo sguardo e sorridere, decise che non
avrebbe
detto nulla. Se non rispondeva lui, non c'era alcun motivo per cui lo
dovesse
far lei.
“Su,
entriamo in casa...”, la voce del ragazzo era bassa e calma
quando afferrò la
mano della sorellina, stringendola e guidandola verso la porta. Lei lo
guardava
ancora incerta, muovendo piccoli passi incerti sul vialetto.
“...
Beatrice”, quel nome lasciò le labbra di Battler
come un sussurro ed Ange si
voltò di scatto quando lo vide allungare l'altra mano verso
la ragazza. La
ragazza che le stava portando via suo fratello. La ragazza che aveva
anche la
simpatia dei suoi genitori.
“Onii-chan...?”,
un bisbiglio timoroso il suo. Ma lui non la sentì. Guardava
Beato, e le
sorrideva. Le stringeva la mano come non aveva mai fatto con Ange,
intrecciando
le dita con quelle di lei come a non volerla mai lasciar andare.
20
Aprile 1987
L'inizio
del nuovo anno scolastico fu accompagnato dalla pioggia e da un vento
freddo
per nulla normali durante quella stagione. Battler sbuffò
fissando la lavagna,
e sbuffò ulteriormente quando Beatrice –
quest'anno seduta dietro di lui e non
più davanti – tirò un calcio alla sua
sedia.
Si
voltò lentamente verso di lei, cercando di non dare troppo
nell'occhio.
“Che
c'è ancora, Beato?”
Non
era la prima volta che l'aveva chiamato in quel modo, durante quella
giornata
che, fortunatamente, iniziava a volgere al termine.
“Tu,
la tua altezza ed i tuoi capelli mi state coprendo la lavagna. Spostati
un
po'.”
“Ma
mi sono già abbassato prim—”
“Ushiromiya-san”,
la voce della professoressa lo fece scattare sull'attenti,
“la lavagna è da
questa parte. Se la vedrò ancora girato a parlare con la sua
compagna, potrà
tranquillamente accomodarsi fuori dall'aula ad aspettare la fine delle
lezioni.”
“M-mi
scusi.”
“Aaaah,
Beato! Così non può andare avanti!”
Fuori
dall'entrata della scuola, Battler aprì l'ombrello
imbronciato e tirò la
ragazza a sé, proteggendola della pioggia che ancora cadeva
incessantemente. Le
strappò di mano la cartella, senza tanti complimenti, e lei
arrossì quando notò
che due loro compagni di classe sorrisero per quei loro gesti
così consueti ma
che non riflettevano per nulla le loro espressioni in quel momento.
“Co-cos'è
che non può andare avanti così?”
“Quei
posti in classe.”
Beato
tirò un sospirò di sollievo, costatando per
l'ennesima volta che ciò che preoccupava
il ragazzo al suo fianco era una cosa futile e nulla di importante.
Così
ingenuo, Battler. Come era sempre stato fin dal loro primo incontro,
quando si
era presentata a lui ridendo e sfidandolo a dimostrare che lei non
esistesse.
“A
me
piace stare lì.”
“A me no! Non puoi continuare a prendermi a calci
perché non vedi la
lavagna...!”
“Mu~
e io che pensavo non ti piacesse solo perché non potevi
più vedermi il
sedere~!”
“B-Beato!!”,
il volto del ragazzo si tinse dello stesso colore del fermacapelli che
Beatrice
portava quel giorno e sobbalzò quando lei sporse leggermente
la testa in
dietro, guardò il suo fondo schiena e sogghignò.
“Ora
che ci penso, però, ho io qualcosa da fissare durante le
lezioni~ forse la
smetterò di dare calci alla tua sedia per vedere la lavagna,
eeeh~”
“P-pervertita”,
si coprì il volto con una mano e deglutì.
“Senti
chi parla~! Tu, Ushiromiya Battler, auto-dichiarato sommelier del seno,
dici a
me, la Grande Beatrice-sama di essere una pervertita~? E'
così maleducata ed
ipocrita la cosa da parte tua, Battleeer~!”
“Va
bene... va bene! A-andiamo a casa e basta!”, la
strattonò per un braccio,
entrambe le loro cartelle che oscillavano sulle sue spalle.
“Beato.”
“Sì,
Battleeer~?”
“Ora
puoi anche smetterla di guardarlo. Guarda la strada,
piuttosto!”
“Mmh~
eppure è un così bello sp—”
“Aaaah,
è inutile! E' tutto inutile! Su cammina! E guarda dove metti
i piedi!”
Beato
sorrise, afferrando con entrambe le mani il braccio di Battler e
addossandosi
quasi completamente su di esso. Sorrise ulteriormente, quando il
ragazzo
arrossì per quel gesto – il contatto con il seno
di lei che lo distraeva
enormemente da tutti gli altri pensieri che avevano vorticato nella sua
mente
fino ad allora.
Camminarono
così, uno stretto all'altra, come se nulla fosse. Eppure
Beato, dentro di sé,
sapeva che quelle loro giornate felici non sarebbero durate in eterno.
Il suo
tempo sarebbe finito perché non avrebbe potuto continuare a
non dir nulla a
Battler, e sarebbe dovuta tornare indietro, seduta da sola ad aspettare
il suo
ritorno per molto altro tempo. Seduta ad aspettare che lui ricordasse e
si
riconciliasse a loro, a lei.
Per
porre fine a tutto.
Per
terminare il gioco.
Per stare insieme, per sempre.
“...
mi stavi ascoltando, Beato?”
“Eh...?”,
lo fissò con sguardo perplesso, la gola stretta in una morsa
che non le
permetteva di respirare.
Battler
notò le lacrime agli angoli degli occhi della ragazza e
smise di camminare. La
guardò con un sorriso dolce in volto e, allungando una mano
verso il volto
pallido di lei, asciugò quelle limpide gocce che tanto
odiava veder apparire ai
suoi occhi.
“Non
chiederò il perché, ma lo sai che sono qui.
Quando vorrai parlarne, ti
ascolterò.”
Beato
chiuse gli occhi, abbassando il capo e annuendo debolmente.
Le
mancava,
le mancava tremendamente.
“Battler,
io—”
E
le
sue parole morirono sul nascere, quando una ragazzina la
urtò e cadde a terra.
“Oh,
mi scusi. Non l'avevo vista.”
Per
un attimo, tutto sembrò congelarsi, bloccarsi lì
dov'era.
Nemmeno
la pioggia sembrava più cadere, quando s'accorse di
riconoscerla.
Beato
conosceva quella voce, e quel sorriso malizioso.
Spalancò
gli occhi, sorpresa e spaventata.
Perché
ora? Perché qui?
S'inginocchiò
a terra, senza dire una parola, e le tese una mano per aiutarla.
“Non
è nulla...”
La
ragazzina a terra le strinse la mano e, tirandola a sé con
forza, sfiorò con le
labbra l'orecchio di Beato, sussurrandole poche parole che furono,
tuttavia, in
grado di farla trasalire.
“Ricordarti
il patto, Beato. Non devi parlare.”
Rise,
sottovoce.
“Lo
ricordo...”, la voce null'altro che un bisbiglio,
“Lady Bernkastel.”