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Autore: Sweetie616    15/05/2011    5 recensioni
Un altro pezzettino della serie Screamworks... sicuramente la mia preferita.
"E trassi le mie conclusioni: sociopatico; il fatto che vivesse da solo in una torre facendosi vedere in giro il meno possibile lo dimostrava. Da quel momento, gli affibbiai il soprannome di Raperonzolo."
Genere: Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Nuovo personaggio, Ville Valo
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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“Tu faresti cadere le braccia anche a una santa, credimi”
Questa era stata una delle prime frasi di senso compiuto che gli avevo rivolto, o meglio, che Sua Maestà, il principe della torre oscura, da me gentilmente ribattezzato Raperonzolo, mi aveva permesso di rivolgergli lontano da telecamere e redazioni.
Ma andiamo con ordine…  da circa due mesi ero stata assunta nella redazione di MTV. Ultima arrivata = fiera collezionista di tutte le mansioni scartate dai colleghi. E quel giorno la cosa non era andata diversamente. Ero arrivata in redazione e avevo trovato i miei colleghi a parlottare tra loro, palesemente indecisi su chi di loro dovesse prendersi la bega di turno.  Appena entrai in ufficio, mi trovai 6 paia d’occhi puntati addosso.
“In effetti… May potrebbe essere perfetta”
“…e sarebbe anche un modo per farle fare esperienza”
Ciò significava solo una cosa: alla sottoscritta Maïwenn  Blunt stava per essere affibbiata una fregatura epica.
“Sì, so bene chi è Ville Valo” sbuffai. L’incubo di ogni giornalista, soprattutto se giovane, donna e da poco assunta in una redazione. Mentre studiavo per il master, una mia amica durante uno stage aveva assistito alla peggiore intervista di tutti i tempi, proprio con Ville Valo. Eh sì, perché il soggetto in questione aveva tre modi standard di interazione con i giornalisti: stare zitto ad osservarli  con aria beffarda, come si osserverebbe uno strano  essere alieno; parlare a sproposito o, peggio, sparare centinaia di cazzate, senza alcun ritegno.
Certo, che sarà mai? Un bravo giornalista deve comunque saper portare a proprio favore qualsiasi intervista, no?  E’ facile, è il suo mestiere…  Bene, provate a farlo voi, con quei due fari verdi puntati addosso.
“Dai, non sarà così terribile. Dieci minuti di intervista video poco prima della loro esibizione al Download, qualche domanda sul nuovo album e finisce lì”. Mi disse incoraggiante Martin, il redattore capo.
Ero nelle condizioni di rifiutare? Ovviamente no.  Così, piuttosto abbacchiata, tornai alla mia scrivania decisa a presentarmi all’intervista con una preparazione impeccabile.
Non ero mai stata una fan degli HIM. Ovvio, lavorando in campo musicale li conoscevo, ma preferivo musica decisamente più pesante della loro.  Accesi l’ipod, e accompagnata dalla soave musica degli Slipknot, iniziai a farmi una cultura su Ville Valo.
Scartata l’ipotesi di informarmi sui siti dei fan (pagine e pagine di deliri di fan girl dall’ormone impazzito) decisi che l’unico modo di avere delle informazioni serie era attraverso interviste già fatte.
E trassi le mie conclusioni:   sociopatico; il fatto che vivesse da solo in una torre facendosi vedere in giro il meno possibile lo dimostrava. Da quel momento, gli affibbiai il soprannome di Raperonzolo. Estremamente lunatico ,contraddittorio e bugiardo,  incantatore professionista, fascinoso quanto basta per mandare al tappeto qualsiasi donna nel raggio di dieci chilometri .
Ma non me.
Presente il detto “conosci il tuo nemico”? bene, ero decisa a metterlo in pratica, sfoderando quel lato del mio carattere per cui ero più conosciuta: il cinismo.
Il giorno della partenza avevo ricontrollato almeno cinque volte che tutto fosse pronto. Le domande le avevo preparate, la valigia anche, il pass era sul tavolino dell’ingresso, le occhiaie da mancanza di sonno le avevo nascoste sotto due chili di fondotinta… ero praticamente perfetta.
“Nervosa?” mi chiese Ned, il cameraman, appena saliti in macchina.
“Assolutamente no…dovrei?” dissi, quasi annoiata.
Ned scoppiò a ridere. “No, assolutamente. Ma avendo già lavorato con Raperonzolo, ho comunque qualche consiglio da darti”.
Lo guardai speranzosa. “Spara”
“Non tentare di adularlo, non attacca.  Tira fuori tutto il tuo sarcasmo, sarà parecchio divertente, la cosa. Tieni sotto controllo il sorriso idiota che sicuramente ti spunterà in faccia sentendolo parlare. Pare sia inevitabile. E…. possibilmente non fargli sapere che l’hai soprannominato Raperonzolo.”
Risi. “Niente sorriso ebete, ok. So tenere a bada gli ormoni, grazie”
Ned scosse la testa, alzando gli occhi al cielo. Era stato il primo con cui avevo fatto amicizia, in redazione. Tipo piuttosto attraente, eravamo usciti insieme un paio di volte, avevamo preso una sbornia pazzesca, eravamo finiti a letto insieme per poi, la mattina dopo, decidere che era decisamente meglio non complicarsi la vita e rimanere colleghi e buoni amici. Da quel giorno era diventato il mio confidente preferito nei rapporti con l’altro sesso. Mi conosceva abbastanza bene da darmi ottimi consigli e non ci piacevamo abbastanza da voler ripetere l’esperienza. L’amico perfetto.  
L’atmosfera dei festival mi era sempre piaciuta. Certo, viverli per lavoro era leggermente diverso, ma in fondo, fatta l’intervista, avrei avuto tutto il tempo per divertirmi un po’. Il giorno seguente avrebbero suonato i Motorhead, e anche se l’intervista fosse andata in modo disastroso, quello era un ottimo motivo per essere lì.
Già, l’intervista. 
Il centro stampa del Donington era stato allestito in modo da dar spazio a quante più emittenti possibile. Era suddiviso in tante piccole stanze con un divanetto nero e il logo del  festival.
Quando entrai nella stanza destinata a MTV, Raperonzolo era già lì. Seduto da un lato del divano, le gambe accavallate, pantaloni e felpa nera aperta a lasciar intravedere una maglietta con il disegno scolorito di un gufo. Riccioli castani uscivano ribelli da un cappellino di lana nero, quasi fuori luogo nel caldo pomeriggio di giugno a Donington. Ci presentammo brevemente, e non notai in lui assolutamente nulla dell’aria di superiorità che aveva mostrato nelle interviste che avevo guardato in ufficio. Sembrava più un ragazzino spaesato che non sapesse bene per quale motivo dovesse trovarsi lì a rispondere a quella serie di domande.
Mi sedetti dall’altro lato del divano e… lui si spostò allontanandosi da me. Esattamente quello che continuò a fare per tutta la durata dell’intervista.
Risposte serie, precise, niente battute squallide o sarcastiche, nulla. Mi guardava, sorrideva, abbassava lo sguardo e quando parlava si spostava impercettibilmente verso il lato opposto a quello in cui mi trovavo.
“Mi sa che hai fatto colpo” ridacchiò Ned, a intervista finita. Lo guardai decisamente perplessa. Ero convinta del contrario, che mi trovasse assolutamente ripugnante, tanto da allontanarsi da me il più possibile.  
“Quando al tuo  Raperonzolo qualcuno sta antipatico, non perde occasione per farglielo notare.” Spiegò “ Se invece considera una donna pericolosa per il suo status di single sociopatico, beh…l’hai visto anche tu. Si chiude a riccio e si allontana.”
Io, pericolosa? Non avevo proprio nessuna intenzione di interferire con la sua sociopatia. Decisamente uno strano personaggio.
 
Molto sollevata dal pensiero dell’intervista, tornai in albergo a cambiarmi, decisa a godermi il più possibile quei due giorni al Donington.
Io e Ned ci trovammo nell’area riservata vicino al palco proprio quando gli HIM avevano da poco iniziato a suonare, così decidemmo di rimanere lì a guardarli.  
Ville non faceva assolutamente niente per ingraziarsi il pubblico, che comunque non staccava gli occhi da lui. Era perfettamente immobile, al centro del palco, le mani sul microfono, gli occhi chiusi, un sorriso dolce sulle labbra. Come se lì, in quel momento, non ci fosse nient’altro che lui e la sua musica. E c’ero io, che lo fissavo come ipnotizzata.
Cazzo. Era riuscito a incantarmi.
“May, potresti asciugarti il rivolo di bava, per favore? Non è molto professionale.” mi prese in giro Ned. Mi voltai verso di lui, fulminandolo con lo sguardo.
“Non so di cosa tu stia parlando” risposi acida.
Mi guardò con l’aria di chi la sapeva lunga.  “Andiamo, se volessi farlo diventare un pezzo pregiato della tua collezione non saresti certo da biasimare” rise.
Viva la sincerità. Ma in quel momento realizzai una cosa assolutamente spaventosa. Io non vedevo affatto Ville come uno da portarmi a letto.  Con quegli occhi che sembravano leggerti nell’anima, quell’umorismo nero come la pece e  quella mente contorta …. Ville era la tipica persona che avrebbe potuto farmi innamorare perdutamente.  Una parola che metteva i brividi di terrore solo a pensarla.  
“Sono stanca, credo sia meglio tornare  in albergo” dissi secca, lasciando il povero Ned nel backstage. Stavo scappando? Forse.  Fortunatamente ero davvero stanca, quindi mi addormentai come un sasso appena arrivata in albergo. Mi svegliai solo quando i miei vicini di stanza, chiunque fossero, chiusero la porta della propria camera con la delicatezza di un elefante, ma sprofondai  di nuovo nel sonno subito dopo.
 
Il giorno dopo, Ned aveva capito subito che non ero dell’umore adatto per fare conversazione o per condividere la giornata con lui.  Passai buona parte della giornata a vagare senza meta per il Donington, a fare foto ai palchi e alla folla e solo verso le sette, poco prima dell’inizio del concerto dei Motorhead, mi spostai sulla balconata allestita per gli addetti ai lavori.
Stavo finalmente tornando in me, ascoltando una delle mie band preferite, quando mi sentii chiamare.
Maïwenn?”
Il suono del mio nome non mi era mai sembrato così sensuale. Mi voltai e vidi Ville venire verso di me, con quello che ricordavo come il batterista della band.   
“Ci vediamo dopo” tagliò subito corto quest’ultimo, mentre Ville si sistemò accanto a me, le nostre braccia quasi si toccavano… finchè lui non si allontanò leggermente.   Restammo entrambi in silenzio. No, non stavo più seguendo il concerto, in quel momento non mi sarei accorta nemmeno se Justin Bieber avesse preso il posto di Lemmy, ve lo posso assicurare.
Fu Ville a tentare  di rompere il ghiaccio, parafrasando la prima domanda che gli avevo fatto durante l’intervista.
“Allora… come descriveresti Maïwenn Blunt in tre parole?” chiese ridacchiando.
“May” risposi “chiamami May, mi rendo conto che il mio nome non è la cosa più semplice del mondo”
…. E mi fa tremare le ginocchia quando lo pronunci, ma questo non l’avrei mai detto, nemmeno con una pistola puntata.
“Ok… come descriveresti May in tre parole?”
Ci pensai un attimo. La definizione che lui aveva dato di sé stesso non era delle più lusinghiere: maniaco del controllo, lunatico, bugiardo seriale.
“Cinica, determinata, rompipalle professionista” ridacchiai.
Mi osservò per qualche istante.
“Non direi…. Secondo me hai l’aria della dura e poi sei la prima a piangere davanti a un film come Orgoglio e Pregiudizio” ridacchiò beffardo, per poi addolcirsi “ E se devo proprio essere sincero, la cosa mi piace”
Alzai gli occhi al cielo. A parte che quello che aveva appena detto era la verità, ma… A che gioco stava giocando?
“Posso dirti una cosa, Valo? Tu faresti cadere le braccia anche a una santa, credimi”
Mi guardò con un’espressione strana, che non prometteva nulla di buono.
“Non direi, quella che ho in casa è ancora intera” ridacchiò.
Lo guardai smarrita, e mi raccontò di avere in casa la statua di una santa, a grandezza naturale… che poi aveva scelto di usare come copertina dell’album.  Decisi di non indagare oltre, quando mi disse che la suddetta casa era piena anche di animali imbalsamati e assurdità varie.  Iniziavo a capire il motivo della sua solitudine…
Il concerto era finito e non ce ne eravamo nemmeno resi conto, presi come eravamo a parlare…e a lanciarci frecciate.
“Ville…” il batterista gli fece chiaramente capire che l’avrebbe lasciato lì, se non si fosse mosso a breve.
“Beh, allora… ci si vede” disse, incerto. Si voltò un attimo, mentre si allontanava, come se volesse dirmi qualcosa, ma non lo fece.
Li salutai con la mano.  Avrei voluto che questa serata finisse? No, sicuramente no.  Ville mi incuriosiva, mi piaceva, e non solo a livello fisico. Mi piaceva il fatto che parlare con lui fosse sempre una sfida, una sorta di lotta per avere l’ultima parola. Mi piaceva il fatto che fosse nello stesso tempo completamente folle ed estremamente timido. Sospirai, mentre andavo a prendere la navetta per l’albergo e tentavo con scarsi risultati di pensare ad altro.
 
Il problema è che meno vuoi pensare a qualcosa e più ci pensi. Arrivai in albergo, decisa ad affogare malumori e irrequietezze nel sonno, come la sera precedente, ma non sembrò funzionare. Passai due ore a rigirarmi nel letto, accesi la tv,  lessi qualche pagina di un libro, sistemai la valigia… e non avevo sonno. Indossai una felpa sopra la maglietta e i calzoncini che usavo per dormire e decisi di andare a fumarmi una sigaretta in balcone, magari forse l’aria fresca mi avrebbe fatto venir sonno.
Mi rilassai giusto un attimo, aspirando qualche boccata mentre, appoggiata alla balaustra, guardavo le luci del Donington. Ma c’era qualcosa che non andava, mi sentivo osservata.
Istintivamente mi voltai verso il balcone accanto al mio, ed ebbi un brivido. Ville. Nel mio stesso albergo. Nella stanza accanto alla mia.
“Problemi ad addormentarti?” sorrise.
“Già…” borbottai.
“Anch’io…. e in casi come questi mi pento di aver smesso di fumare” rise sommessamente.
Non riuscii a non sorridere al suono di quella risata.
Rimase un attimo in silenzio, abbassò lo sguardo “Vieni qui?” chiese, a bruciapelo.
Lo guardai spalancando gli occhi. “Cosa?”
“Se continuiamo a parlarci da un balcone all’altro finisce che qualcuno si incazza. Io non riesco a dormire, tu nemmeno… chiacchieriamo un po’ finchè non ci viene sonno. Dai”
Lo guardai, di nuovo. A piedi nudi, jeans e felpa nera, i capelli ricci finalmente non più coperti dal cappello. Ma davvero era convinto che a una donna qualsiasi, in camera con lui, sarebbe potuto venir sonno?
Alzai le spalle. Via, quel che succede succede. “Ok, arrivo” dissi, per presentarmi trenta secondi dopo davanti  alla porta della sua camera, già aperta.
Evidentemente non conosceva l’uso degli armadi, visto che magliette, pantaloni e biancheria varia erano buttati su una sedia con molta poca grazia.
“Puoi sederti, non mordo” disse indicandomi il letto, su cui lui si era intanto sdraiato con la delicatezza di un elefante. La stessa delicatezza con cui, dedussi, aveva chiuso la porta della stanza la notte precedente.
Ero in imbarazzo? Di più.
Era una situazione decisamente surreale. Mi trovavo in una camera d’albergo, con un uomo terribilmente attraente che conoscevo a malapena ma mi sembrava di conoscere da sempre… e non ero lì con l’intenzione di fare del sesso sfrenato. Probabilmente ero stata rapita dagli alieni, che mi avevano impiantato una nuova personalità. Non mi riconoscevo più.
Ci volle ben poco per finire entrambi sdraiati sul letto senza smettere di parlare nemmeno un minuto. Completamente vestiti, senza sfiorarci nemmeno con un dito, e mi sentivo vulnerabile come non mai, ma in un modo decisamente piacevole.
 
“La musa non esiste” disse a un certo punto, durante uno dei rari momenti di silenzio, mentre entrambi eravamo sdraiati a fissare il soffitto.
Mi voltai verso di lui, perplessa “Cosa?”
“La musa… la donna misteriosa che avrebbe ispirato l’album… non esiste.”
Continuai a guardarlo smarrita. Non capivo perché me lo stesse dicendo. Non era certo l’idea di una fantomatica donna che lo aspettava a Helsinki a farmelo rendere meno desiderabile, in quel momento. Ma come detto, non ero in me, e non avevo alcuna intenzione di saltargli addosso e renderlo “un pezzo pregiato della mia collezione” come aveva detto Ned.
In quel preciso momento non avrei voluto essere in nessun altro luogo, a fare nessun’altra cosa se non stare sdraiata su quel letto a parlare con lui.
Non attese domande, fu sufficiente guardare il punto interrogativo che dovevo sicuramente aver stampato sulla faccia.
“Una trovata pubblicitaria… la casa discografica ha detto che una storia del genere avrebbe incuriosito i fan, facendo vendere più copie dell’ album.”
“E ha funzionato?” chiesi.
“No” disse trattenendo una risata “In effetti penso di aver dato dieci versioni diverse della storia, non ci ha creduto nessuno!”
Ridemmo entrambi.  Scoprii che a me aveva detto che sperava che l’album servisse a far capire alla “musa” quanto lui l’amasse, con un altro giornalista si era dichiarato “sfortunatamente non single”, con un altro ancora si era inventato che la storia era ormai finita.
Decisamente non mentiva, quando si era definito un bugiardo seriale.
“Non si tratta di essere bugiardi” ridacchiò, girandosi verso di me per ridurre la distanza fra di noi “Il fatto è che ho la memoria di un pesce rosso, non mi ricordo cosa ho mangiato a pranzo, figurati se posso ricordarmi tutte le cazzate che sparo nelle interviste”
“Sei un caso clinico, Valo!” risi. “Dovresti scriverti tutte le cazzate che dici, o assumere qualcuno che lo faccia per te”
Mi guardò con una faccia buffissima.
“Un’assistente alle cazzate!” rise “Mi piace l’idea… vuoi cambiare lavoro? Ti ci vedrei bene, sai?”
“Idiota” allungai il braccio per tirargli uno schiaffetto, ma lui con tutta la naturalezza del mondo mi prese la mano, intrecciandola con la sua.
E le nostre mani restarono intrecciate per tutta la notte.  Scoprii che venerava i Black Sabbath, che la sua mente era molto più contorta di quello che pensavo, che nascondeva la sua fragilità sotto un sarcasmo invidiabile, che era un inguaribile romantico, nel modo più dolce che possa esistere, che quando parlava della sua città gli brillavano gli occhi, come se stesse parlando della donna della sua vita. Capii che, guardandolo negli occhi, potevi renderti conto di quando era serio o di quando diceva una cazzata. I suoi occhi non sapevano mentire, anche se a parole ce la metteva davvero tutta. E capii che, se era lui a guardare negli occhi me, la May cinica e sarcastica veniva completamente disarmata.
Ci addormentammo alle prime luci dell’alba, quando ormai sapevamo praticamente tutto l’uno dell’altra. Gli avevo anche detto che era la prima volta che mi scoprivo così tanto con un uomo restando completamente vestita, e che la cosa mi sconvolgeva non poco.
Quando riaprimmo gli occhi, quasi in contemporanea, ancora tenendoci per mano come quando ci eravamo addormentati, dovevano essere passate da poco le undici.
“Buongiorno” sussurrò, la voce ancora profonda per il sonno. Sciolse la mano dalla mia, per poi portarla sulla mia guancia con una carezza leggera. Si avvicinò a me, le sue labbra erano la cosa più dannatamente invitante che avessi mai visto, e…. il mio cellulare suonò.
Fanculo. Era Ned. Non potevo non rispondere.
Sbuffai sonoramente, mentre rispondevo.
“Ehi, che fine hai fatto, ti ho cercato ovunque!”
Inventai la prima scusa che mi venne in mente, dicendogli che ero sotto la doccia. Certo, come no.
“Ok..” disse poco convinto “Tra cinque minuti busserò di nuovo alla tua porta, devo dirti un paio di cose. Renditi presentabile” rise, per poi mettere giù. Cazzo.
Dovevo correre in camera. Se Ned fosse arrivato mentre sgattaiolavo via dalla camera di Ville sarebbe stata decisamente una situazione difficile da spiegare.
“Devo  andare” dissi, alzandomi di scatto. Andai verso la porta, per poi tornare indietro, schioccare un bacio sulla guancia di Ville e promettergli che sarei passata a salutarlo prima di partire.
Per avere quel bacio in cui per un attimo avevo sperato, magari.  No, May, questo non si dice.
Tornai nella mia camera e feci appena in tempo ad assumere un aspetto vagamente umano e intrecciare di nuovo i miei lunghissimi e ingestibili capelli, quando Ned bussò alla porta.
Mi squadrò da capo a piedi. “Quanto hai dormito, dieci secondi?”
Mentii spudoratamente. “Naah, dopo il concerto dei Motorhead sono tornata qui e sono crollata”. Non ci credevo nemmeno io.
“Comunque sia… dormirai in macchina, il capo vuole l’intervista entro le quattro, il che significa che stiamo partendo. Ora.”
Ora? No, accidenti!
“Ehm… ok. Tu intanto scendi e metti in moto la macchina, io metto le ultime cose nello zaino e ti raggiungo”.
Dieci secondi dopo, non prima di essermi assicurata che non ci fosse nessuno nel corridoio, stavo bussando alla porta della stanza di Ville. Nessuna risposta.
Bussai di nuovo. Cazzo, Ville, apri questa porta.
Ma Ville non aprì, e io dovevo partire.  Anche se davvero fosse stato l’uomo della mia vita, non l’avrei mai saputo.
 
 
Il martedì,  come sempre, mi aspettava la consueta riunione per decidere a chi affidare i diversi incarichi.
Ero distratta, tamburellavo con la penna sul tavolo per poi guardare fuori dalla finestra. Mi odiavo, o meglio odiavo stare così per uno con cui
a. non ero nemmeno stata a letto, o almeno non nel senso che intendevo io  
b.  non avrei più rivisto.
Sentivo Martin in lontananza, mentre elencava i vari incarichi dandoci modo di scegliere e organizzarci.
“…E poi ci sarebbe una trasferta a Helsinki, negli studi di MTV3 a luglio e agosto, per…”
Non gli lasciai nemmeno il tempo di finire. Una frase mi tornò subito alla mente.
A parte i festival nel fine settimana, sarò a Helsinki tutta l’estate….
“Vado io” dissi, decisa.  Ned mi guardò, sorrise scuotendo la testa. E sarà che Martin non aspettava altro, sarà che nessun altro avrebbe acconsentito a trascorrere l’estate in Finlandia, nel giro di un’ora avevo biglietti aerei e planning del lavoro da fare.
Sarei partita da sola, il giorno seguente, così sistemai le ultime cose nell’ufficio che non avrei visto per due mesi.
“Raperonzolo ha lasciato il segno, eh?” ridacchiò Ned, sulla porta. Inutile mentire, quando hai un sorriso ebete che va da un orecchio all’altro…
 
Ok, ero a Helsinki. Problema: Helsinki non sarà Londra, va bene. Ma non è una città così piccola da poter trovare qualsiasi cosa in breve tempo, e non sarebbe stato carino andare in giro a chiedere a destra e a manca dove si trovasse la famosa torre di Raperonz… ehm, di Ville Valo.
Dopo mezza giornata passata a fare ricerche su internet invece di lavorare, ora un post-it con un indirizzo faceva bella mostra di sé sulla mia scrivania. Ora dovevo solo trovare il coraggio di andarci, suonare alla porta e presentarmi con la peggior faccia tosta possibile.
Mi sentivo una merda.
Uscii dalla redazione rigirandomi il post-it tra le mani. Un taxi mi avrebbe permesso di arrivare in breve tempo… troppo breve. Meglio il tram. O ancora meglio andare a piedi, avrei avuto tutto il tempo per rinfrescarmi le idee, decidere che quella che stavo per fare era la cazzata più grande della mia vita e tornare indietro.
Non mi accorsi minimamente del taxi fermo davanti alla porta, non mi accorsi che, mentre io mi stavo allontanando, la portiera si era aperta.
“May”
Brivido. Quella voce l’avrei riconosciuta ovunque, ormai.
“Sali” disse, sorridendo davanti alla mia espressione che non doveva essere molto diversa da quella di un baccalà sotto sale. Accartocciai il bigliettino e lo misi in tasca. Decisamente non ne avrei avuto bisogno.
Mi spiegò che aveva chiamato nel mio ufficio di Londra, e gli avevano detto che ero a Helsinki. Non mi chiese come mai, non gli chiesi perché mi aveva cercato. Era evidente per entrambi. Non dicemmo una parola durante l’intero tragitto, limitandoci a tenerci per mano, sorridendoci di tanto in tanto.
E non mi resi conto della statua inquietante, dei gufi imbalsamati, della videocassetta porno sistemata sopra una vetrata antica.
C’era solo la sua pelle, che al tatto era esattamente come l’avevo sempre immaginata, e c’erano le sue labbra sulle mie. C’eravamo noi, e nient’altro. E per la prima volta capii che tra l’amore e il sesso non c’è davvero paragone.
Aprii gli occhi nella luce quasi accecante dell’estate finlandese. Ville ancora dormiva accanto a me, completamente rilassato, il braccio attorno alla mia vita. Gli accarezzai delicatamente i capelli per non svegliarlo, e mai come in quel momento capii che io, da Helsinki, non me ne sarei mai andata.
 
   
 
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